giovedì 2 ottobre 2008

Ercole Ugo D'Andrea e Lecce la morta





1.Ercole Ugo D’andrea , poeta di Galatone , nato nel 1937 e recentemente scomparso, è stato forse l’ultimo “grande” poeta (in lingua italiana ) del Salento , un poeta classico per rispetto e riscoperta della tradizione , ma assolutamente moderno per quella sua visionarietà che anticipa il futuro . Ma di questo fatto non sembra essersene accorto nessuno , o quasi . Si fa un gran parlare di Verri e Toma , che , anche cronologicamente , vengono posti subito dopo la triade , o la trimurti salentina ( Comi Bodini Pagano) , ma dell’autore di Ozi e negozi, (Vallecchi,1973) , La confettiera di Sèvres ( Lacaita 198) Fra grata e gelsomino (Garzanti 1990) , L’orto dei ribes di corallo (Lacaita, 1999) tutti tacciono. Inopinatamente. Stranamente .


2.Paradossalmente , oserei dire, tenuto conto , ad esempio , che un Vittorio Pagano non è stato mai edito da nessuna casa editrice degna di questo nome e lo stesso Girolamo Comi non era certamente un poeta originale, ancorché strombazzato dall’Osservatorio Romano e da qualche suo allievo. Allora ci domandiamo perché il galatonese , molto apprezzato dall’editoria nazionale e soprattutto da Mario Luzi ,ossia il maggiore poeta italiano , con cui ha avuto
un lungo sodalizio sfociato in “Album di poesia di Luzi e D’Andrea”, una chicca nel suo genere, è stato dimenticato proprio dalla critica letteraria , dagli studiosi della sua terra? . Forse D’Andrea ha avuto il torto di snobbare accademie e mass-media , pur vivendo costantemente, soprattutto quando ne era lontano ( è stato per molti anni a Firenze) , con “l’anima serrata nel Salento “, piccola patria di incontri - scontri, di odio –amore. Era un uomo troppo solitario , schivo, appartato , per fare tendenza, destare interessi. Viveva rinserrato in un suo mondo , talora accigliato , scontroso e sdegnoso , straniero nella sua terra , per essere amato dai suoi conterranei .


3.Ma è stato ( è ) certamente un poeta degno di questo nome , un poeta finissimo , aristocratico, per il quale la poesia era un impegno integrale , un mezzo di esplorazione della vita che si realizza nel problema stesso dell’esistenza . Diceva sempre: “la poesia parte dallo zero e termina sullo zero”, come se nessuna altra poesia l’avesse mai preceduta o potesse derivarne .“Io mi sento poeta per ciò che non dico, in quanto le parole o sono fiumi in piena o sono vuoti come gusci delle cicale” Il dramma di D’Andrea fu simile a quello di Mallarmè , suo dichiarato maestro , ossia quello dell’impossibilità di far coincidere l’assoluto con la poesia, la sua poesia, caratterizzata – scrive Donato Valli in “Novecento letterario leccese”( Manni 2002) , da un’ascendenza ermetica che in questi ultimi tempi si è andata sempre più modificando in una secchezza e semplicità di dettato di chiaro influsso sinisgalliano ( La notte fascia la casa di silenzi, / la mia casa vera/ con calendari e piante/libri negli scaffali/ frutta nella fruttiere./La mia casa come il nido/ dell’albero di stelle/ respira lo stellato. /Forse qualcosa sta per accadere / di molto finale, o nulla:/mia madre dorme /contro un muro/sicuro il suo sonno/, io appunto quest’attesa,/ verrà l’alba o il sonno/La casa sente su di sé /il tarlo celeste”. Sembrerebbe una poesia un po’ crepuscolare, quasi intimistica, domestica. In realtà non gli piaceva affatto essere considerato un poeta dello “spazio domestico”. La sua è una poesia che – per certi aspetti – richiama , oltreché Sinisgalli , Emily Dickinson, Rilke, Lorca, Montale e lo stesso Mario Luzi, suo maestro , amico e sostenitore.

4.Ad un certo punto della sua storia di uomo e di poeta , Ercole Ugo D’Andrea , avverte in modo pressante il compito di istituire un linguaggio poetico “parlato”, fortemente semantico, espressivo e ritm-fonico Ma la struttura sintattica si conserva organizzata e chiusa , mantenendo intatte le tradizioni letterarie alte. E’ una via di lavoro poetico concreta , forse più vitale e resistente delle tecniche di avanguardia, che s’incentra sui grandi tragici temi del dolore e della morte e sulla sua amata-odiata piccola patria Salentina , che non riesce a “crescere” ,o meglio non riesce a proiettarsi nel futuro , a sistemare i suoi “allori” . Lecce è morta , ma inganna perfino la morte con lo sfavillìo dei suoi ori barocchi . (E' allora che cominci a morire,/nei tuoi santi di pietra,/nella burocrazia arroccata,/Lecce la morta,/specie di domenica, quando c'è la Messa /e la partita… e così t'ho lasciata che pioviscola/su vasi verdi delle tue terrazze,/mentre tu hai già sistemato/ le tue anche, i tuoi ori/i tuoi allori no/chè non hai i tuoi poeti che ti cantino,/da perfetta defunta quale sei…)

5. Nel poemetto “Lecce la morta” , il poeta , - scrive Giorgio Barba - per reazione ad una società indifferente , avulsa dal contesto reale, sempre volta al passato, sembra volersi rinchiudere nella sua turris eburnea e il suo linguaggio diventa aleatorio , aereo, volutamente incomprensibile . Il poeta gioca con quel quid che sfugge alla vista comune per dilatarla, arruffando goliardicamente i pensieri e contaminando la logica. Non è la poetica della meraviglia, né quella ermetica, ma la poetica del visibile che solo “il poeta malato di poesia” e dormiente sa ritrovare ricostruendo il cosmo da zero. “Si aspetta sempre che le foglie, parole sibilline disperse dal poeta al vento, si posino per avere una risposta alla domanda sul ruolo del poeta e sulla sua
missione.

Nessun commento: