giovedì 25 settembre 2008

Federico Fellini e la psicanalisi





1. Negli anni sessanta Federico Fellini fu invitato a Gallipoli, presso il Lido San Giovanni , dove c'era un psicologo dell'immaginale di valore assoluto come Dario Caggia . Si sapeva che Fellini era un patito della psicanalisi e a Roma aveva frequentato a lungo lo studio di un professore tedesco allievo di Jung , con cui era diventato grande amico, professore che era morto da poco e che anche Caggia aveva conosciuto, anzi era stato suo allievo. Il regista era alle
prese con “Otto e mezzo” , e praticamente tutto il film fu girato in uno stato d'animo particolare , quasi in trance. Fellini , infatti., sperimentò in quel periodo - sotto controllo medico - perfino LSD e la droga, rischiando molto.

2. Per cui , Federico Fellini a Gallipoli non venne mai, nè allora , nè in seguito , fece invece una breve escursione a Lecce e a Palmariggi , dov'è il Santuario
della Vergine. Ci andò su insistenza della pia e devotissima moglie Giulietta Masina , ma in chiesa neppure entrò . Si soffermò nella pineta e rimase colpito dalle cicale...., quelle stesse cicale che cantò più tardi Salvatore Toma, il poeta magliese scomparso prematuramente , a soli trentasei anni , a causa dell'alcol.

3.Federico andò in pineta e le vide quelle cicale , vide il loro dramma...Cicale morte , ai piedi degli alberi , tra gli aghi dei pini , a migliaia , bianchicce , molli, gonfie , scoppiate a forza di canti estivi . ...Ricordò quand’era bambino e s’arrampicava sugli alberi della pineta di Rimini per cercare di vederle , quelle benedette cicale che frinivano tutto il giorno, o quando si inebriava del loro canto , cassa armonica e maestosa del silenzio , un santuario del silenzio , tra il verde e la polvere, dove l'estate sembrava sprofondarsi divertita . Sì, perché la polvere era come un belletto che ingentiliva l'estate. Oggi quel viale è asfaltato, e ci sono i giochi per i bambini , cartacce e rumori , la pineta è semicombusta , gli alberi curvi e malati e non si sente più il canto ineffabile delle cicale , né a Rimini, né a Palmariggi , quel canto che sapeva sollecitarti la fantasia e ti faceva fare delle divagazioni deliziose... Quelle cicale erano la poesia che veniva a sostare sugli alberi profumati , a strizzarti l'occhio , a dirti che la vita è una cosa bella , piena di amore e speranza , anche se la strada non conosceva l'asfalto e gli alberi erano impolverati e avevamo un solo vestito e un solo paio di scarpe....
E Fellini pensò e rivide la sua vita attraverso le cicale morte di Palmariggi

4. Il suo fu un atto d'amore nei confronti di Palmariggi e delle cicale , e l'amore - si sa – può tutto. Forse Federico ricordò l'amore per Roma , la città eterna, la città della madre, la sua seconda patria, la patria dell'anima. Ci era venuto , diciannovenne appena , con la madre di origine romana , per studiare e prendere una laurea in giurisprudenza , ma invece di frequentare l'Università, si innamora delle strade degli odori delle ombre dei vicoli della città eterna e se ne va a zonzo per Roma finendo per fare quello che voleva , il giornalista umoristico per il famoso bisettimanale Marc'Aurelio. La madre, disperata, se ne ritorna a Rimini e così Federico ha campo libero per fare vita notturna, frequentando cafè-chantant e spettacoli di varietà. Conosce persone che sarano basilari per il suo futuro di regista: oltre il trio Maccari Pinelli Flaiano , Aldo Fabrizi con cui fa un sodalizio che gli aprirà le porte del cinema, partendo dal varietà. E conosce ,poi, Rossellini con cui fa (da sceneggiatore ) il film "Roma città aperta" e da aiuto regista "Paisà ." Intanto ha conosciuto un'attrice di prosa e dopo solo sei mesi di fidanzamento l'ha sposata. Si tratta di Giulietta Masina ... E lo sapete dove e come si sono conosciuti? A una festa da ballo in casa della zia di Giulietta, dove si festeggiava il diploma di maturità classica della Masina... E Fellini invitò ad un ballo Giulietta...


5.Era un tango...Da quel tango galeotto nacque il lungo sodalizio familiare e professionale, una fortuna per il cinema italiano. Con la Masina , Fellini farà due capolavori , La strada e Le notti di Cabiria, due oscar , mentre Giulietta degli spiriti , fatto sull’onda cel suo innamoramento della psicanalisi , si rivelerà un mezzo fiasco. Intanto Fellini viene apprezzato o tollerato nei primi film come Luci del varietà , Lo sceicco bianco e , I vitelloni , ma la fiaba triste di Gelsomina suscita un'alzata di scudi . Viene considerato un film elusivo, fuorviante, criptocattolico...


6.Ci vorranno almeno dieci anni affinché la sinistra intellettuale e pensante resituisca legittimità alla forma della favola , riconoscendone il carattere mitografico , simbolico e perfino eversivo. E dovettero tramontare Stalin, benedetto Croce e Pio XII perché gli orizzonti si allargassero...Fellini era avanti a tutti di almeno dieci anni....Ma quel film, La strada, gli era costato caro. Pochi sanno che a soli venti giorni dalla conclusione , il regista era stato colpito da una grave forma di depressione, una specie di Cernobyl della psiche... Cosa era accaduto? Lo racconta lo stesso Federico:" Era come se qualcuno avesse spento la luce, uno svuotamento psicologico, una nube nera che sommerge l'umore e la volontà, un'opaca vertigine , la micidiale sublimazione di tutte le angosce provate da bambino...Mi sembrò che dovessi morire da un giorno all'altro, da un momento all'altro, fu come un black out totale”.


7.Federico si ritira in camera , ma non riesce a dormire , le notti bianche si sommano alle giornate di lavoro e poi ancora notti bianche . Deve tirare avanti al limite della resistenza...Giulietta lo porta da un psicanalista ,Servadio, Federico riesce a tranquillizzarsi e arrivare in fondo... In qualche modo La Strada è la storia che racconta anche questo itinerario psichico..., un vero e proprio sogno narrato , a rischio, che descrive il caso clinico del suo autore e come tale è suscettibile di infinite interpretazioni, chiose , ipotesi. Se è vero che ciascuno di noi ha la sua fabula personale , non sempre facile da far emergere dai recessi dell'Es, questa rimane la favola più tipica , dolorosa ed enigmatica di Fellini...

Carmelo Bene in dieci segmenti






1.L'estremo saluto alla sua gente
Nell'estate del 2002 era tornato in scena , per i salentini, a Otranto, ( sua patria elettiva) , dove aveva un mirabile appartamento che usava per lo più come cella di autosegregazione e dove forse, in cuor suo, sperava di morire
, col viso rivolto ad oriente , per porre fine a quel simulacro di sé stesso che era in "un coma perpetuo e molto costoso", come amava ripetere in questi ultimi tempi. Anzi, aveva fatto promettere agli otrantini di celebrargli il funerale di vivo, non era necessario aspettare che morisse "civilmente". Erano tutti segni , presagi del suo addio. Era , è stato , quello dell'estate 2002 , l'estremo saluto alla sua gente da parte di un genio che è sopravvissuto a se stesso . Recitò alcuni brani dannunziani de " La figlia di Jorio" , ipnotizzando letteralmente il pubblico e ancora una volta si compì il miracolo, "l'evento". Eravamo tutti in estasi di fronte al genio.

2. Genio salentino che sopravvisse a se stesso.
Un genio che era sopravvissuto ( a detta dei medici ) a una serie impressionante di malattie da far fuori una mandria di tori: infarti, tumori , cirrosi, insonnie, emicranie , fegato che fa acqua e pipì he fa sangue , capace da ultimo di scrivere un poema , " 'l mal de' fiori" , che frana nell'incontinenza babelica , in cui angeli e demoni sono tornati a confondersi e a somigliarsi come all'origine , un poema arduo e oscuro che Zanzotto ha definito "poesia stroboscopica, puro magma linguistico" e altri meno benevoli di lui " una vera e propria sfida oltraggiosa a tutta la poesia del novecento italiano"; per contro, c'è chi parlato di pastiche- capolavoro , altri , infine, parlano semplicemente di " virtuosismo linguistico" , atteso che ci sono versi in almeno una mezza dozzina di lingue e dialetti , salentino compreso.
" Mi è costato più fatica del provenzale", disse Carmelo , " ma sono forse le pagine più belle". Carmelo Bene ottenne il premio della Fondazione Schlesinger , nel nome di Eugenio Montale, come " poeta dell'impossibile". Ma ben altro avrebbe forse meritato, (ad esempio il Nobel per la letteratura sarebbe stato assai più pertinente darlo a lui che non a Fo) questo poeta della scena, costruttore di immagini-cristallo, pettinatore di comete, nostalgico dell'impossibile che aveva sete d'infinito, questo sensazionale istrione clown esibizionista folle iconoclasta sbadato maleducato che non ebbe mai rispetto per nulla e nessuno, che ha vituperato , massacrato , stuprato , dissacrato i testi classici… ma allo stesso tempo li ha resi così vitali e unici! Majakowsky , Byron, Dante, Leopardi, Manzoni , Campana , Dannunzio grazie a lui son diventati concerti di voce e anima , occasioni preziose per scoprire che cos'è veramente la poesia.. Ma Carmelo Bene si è sempre ben guardato … dall'ingraziarsi la gente , anzi spesso risultava decisamente antipatico e irritante con il suo atteggiamento da padreterno, con quegli occhi da zombi, con quel suo fare da imperatore assonnato o da pagliaccio vizioso.

3. La funzione di attore risucchiava completamente l'uomo.
"Era folle, completamente pacciu, - mi disse Ugo Tapparini , il pittore leccese dalle muse... ciccione che anticipò ( a sua detta) Botero e che fu suo compagno di cordata alla fine degli anni cinquanta ."Era impossibile stargli dietro. La fortuna sua è stata quella di conoscere quella attrice romana , che era piena di soldi e lo sposò...altrimenti il suo talento sai dove se lo poteva ficcare"
Di aneddoti al riguardo i suoi amici di Campi , compagni di scuola, compagni di giuochi e di marachelle , che andarono a trovarlo a Roma apposta , me ne hanno raccontati tanti, da scriverci su un romanzo. Ma non dobbiamo sorprenderci di ciò, perché , come sovente capita ai geni e come osservò Cesare Garboli " la funzione dell'attore in lui risucchiava completamente l'uomo, gli rosicchiava ogni margine di esistenza senza che per questo l'attore diventasse una maschera, la sua maschera"…
La maschera di un genio che partì da Campi Salentina non ancora diciassettenne e solo due anni dopo fece gridare al miracolo , interpretando , a Venezia, il Caligola di Camus in modo davvero stupefacente. Poi
s'immerse in Nietzsche, Schuman, cavalcò Byron e seminò spaventi nel teatro ufficiale della capitale. E con una velocità diabolica scalò tutte le vette possibili , attore, regista , scrittore, cineasta , poeta , anticipò tutto e tutti. Lui cominciava sempre dove gli "altri" di solito finiscono. Regista dello spazio, anticipava la coscienza del vuoto, ora con gesti ieratici , ora facendo il clown, ora lo zombi vivente , ora medium travestita da attore, che combatteva "contro un vuoto fondato sull'illusione storicistica e sull'illusione formalistica".

4. Sulle torri di Bologna con Dante e lo studente Peppe Serravezza
Un genio - diceva di sè stesso - che era stato cacciato dal paradiso; un genio che aveva ingurgitato tutto , in quantità industriale, alcol, fumo, donne e farmaci, che aveva fatto la rivoluzione degli anni sessanta-settanta o protestato a modo suo per la strage della stazione di Bologna ( Peppe Serravezza, attuale Presidente della Lega Provinciale contro i Tumori e allora studente in medicina, se lo ricorda arrampicato sulla torre degli Asinelli che recitava l'Ulisse di Dante alla sua maniera, sotto ipnosi). Era uno dei pochi italiani di cultura europea , osannato a Parigi, amato da Klossowsky e da Eduardo ( " Veniva a vedermi in cantina, appollaiato come un corvo su uno dei tanti banchi", ricorda Carmelo), che fu magnificato dai semiologi, circondato da donne bellissime, ma che ormai , da molti anni, sembrava inevitabilmente tramontato, declinato , out"…

5. Mi sento un ulivo sradicato che cammina
Quel genio triturato dal suo stesso genio , che sembrava perduto, "portato via su galassie tutte sue", tornò a calcare le scene come un sopravvissuto a sé stesso ,al suo mito, alla sua gloria, mostrandosi negli ultimi tempi molto più avvicinabile che non in passato. L'estate scorsa ci ricevette nel suo appartamento di Otranto , in una vestaglia da camera finemente ricamata , e con l'aria di un Eliogabalo attempato . " Ho la morte addosso, ma non ne ho affatto paura. Ho detto agli amici salentini che è inutile aspettare. Vorrei mi faceste i funerali da vivo, qui ad Otranto. Non c'è bisogno di consegnare un cadavere in pubblico per meritare la dimenticanza." Ma poi ci disse che spendeva un miliardo all'anno in medici e medicine , perché viveva la contraddizione di " essere in un coma perpetuo e molto costoso". Del resto, disse candidamente che emotivamente era come un bambino: " Io non ho coscienza . Sono fuori dalla coscienza". . Mi sento un ulivo sradicato che cammina


6 I canti orfici di Campana
.Era riapparso sulle scene dopo aver subito una serie infinita di interventi operatori , sempre uguale a se stesso e sempre diverso ed eccolo ancora stupire tutti con un altro prodigio teatrale , un altro evento, un miracolo che si ripete puntuale , nonostante tutto, come il sangue di San Gennaro: questa volta fa rinascere addirittura "Adelchi" che sembrava morto per sempre, lo fa rinascere nella fluttuante camicia bianca , lo fa riapparire nella scarna dimensione della parola ed ecco, finalmente! , - dopo generazioni e generazioni di brutta scuola che li ha resi insentibili, - ri-valutati ri-nati , o forse nati per la prima volta i versi del Manzoni , che hanno respiro , che ci fanno emozionare. Chi l'avrebbe mai detto! Poi è la volta dei Canti Orfici di Campana , con il pubblico quasi costretto all'applauso dionisiaco tra urla di raccapriccio e di festa .


7. La Puglia è terra nomade.
Infine (siamo in piena guerra Kosovo e Puglia Regione di Frontiera) eccolo al Piccinni di Bari con Leopardi a far delirare i corregionali: " Vengo con una spada di fuoco. Non per incendiare il teatro, ma per dire che il suo destino è quello di un Teatro fiammeggiante di futuro" ( aveva detto in precedenza che il teatro era morto, n.d.r.), "così come il futuro delle molte Puglie e dei molti destini… Ma da una terra da sempre promessa ed espropriata da se a sé stessa , da questo altrove non ti puoi illudere di evadere…. Non si può abbandonare una Patria che consiste appunto in questa sua irrinunciabile eternità di trapianto…Io mi sento un ulivo sradicato che cammina …La Puglia è terra nomade, terra che si muove per vocazione, per tradizione "

8. "Io sono la parola che si fa canto"
E' vero che il genio non è raziocinio e anzi " se non si pensa" - come disse Flaiano - "che il teatro debba essere anche una dichiarazione di follia" è inutile andare a vedere gli spettacoli di Bene che ti faranno al limite anche indignare, ma hanno qualcosa di impensabile, di magico, di affascinante. Il suo teatro non ha mai un punto di riferimento. Lo spettatore viene proiettato nel vuoto, gli viene a mancare di colpo il suolo della realtà su cui appoggiare i piedi. E' una vertigine, "il rito di uno schizoide" , e lo spettatore si chiede ma dove vuole arrivare? E lui, di rimando: "Non ci sono punti di arrivo.Non mi interessa dove arriva un uomo. Un uomo puo' arrivare anche alla follia. Io non voglio piu' vedere nulla, basta questa fine della luce, questa fine della visione e poi questo
farsi grattar via la pelle, questo farsi strappar via il volto, la maschera...non e' che poi sotto la maschera ci sia il volto: no; il volto e', ovviamente, una maschera infinita, composta da strati diversi di maschere strati diversi della stessa maschera…Io sono la parola che si fa canto o il canto che si fa parola. Io sono la storia inesistente, il filo aracneo assai tenue che lega fra di loro eroi erranti ed erratici sino alla meta assurda del loro originarsi..."
Il suo testo non significava nulla, ma significava ... altrove.
"Abbiamo un genio, d'accordo", - disse di lui Oreste del Buono - "ma che ce ne facciamo? …Un genio è inutile, ingombrante, preoccupante nella nostra stupida società, magari dannoso… Erano anni che non ce n'erano , bisogna eliminarlo…è un sopravvissuto….Ma da dove viene Carmelo? Dalla Puglia, anzi dal Salento.

9. Io sono postumo a me stesso
Il rapporto con il "suo" Salento è stato quasi sempre conflittuale , talora quasi sprezzante: " Devo dire che sono qui nel mio paese, Campi, dopo tanti anni, ma che nonostante tutti gli sforzi non capisco una sola parola della lingua che parlate". La sua , come ha osservato acutamente Goffredo Fofi , è la storia di un fallimento, anzi di diversi fallimenti: Caligola , l'attrazione del nichilismo e della storia ; Majakovskij , l'idea della Rivoluzione e della poesia; Pinocchio , o dell'impossibilità di diventare uomini, cioè eroi. Ma anche i suoi eroi preferiti, Achille e Amleto, rappresentano un fallimento. Rimane la solitudine ed è quella che attira l'artista , la solitudine della voce che si fa canto e poesia, o nostalgia , o ricordo di canto e di poesia.


10. La speranza è nell'asino che vola
Che cosa rimane oltre la solitudine? " Io più gente avevo intorno, più ho coltivato la mia solitudine…. Il mio non è lavoro , ma un lavorìo . Che è l'autodistruzione e cioè il contrario del narcisismo. Io levo dalla scena, non metto in scena. Una volta detestavo il prossimo quanto me stesso, adesso lo detesto più di me stesso… Non c'è nessuna speranza per l'umanità…Io sono postumo a me stesso, avviato altrove…"
Ma poi scopri , in realtà , che c'era per lui una possibile speranza di salvezza. Ed era riposta nell' "asino che vola", nell'Idiota Puro , ossia in San Giuseppe da Copertino - anima meridionale barocca, da lui esaltata . Nella "sua divina stupidità" , disse Bene, "si può realizzare un progetto di santità che vada oltre la sconfitta della storia e della vita".

Il mio incontro con "Genio" Barba















1.Eugenio Barba è ritenuto oggi uno dei più grandi registi e teorici dello spettacolo del nostro tempo, uno che ha insegnato nelle Università di Torino, Bologna, L'Aquila, La Sapienza di Roma, uno che ha scritto una trentina di libri sul teatro, che ha girato tutto il mondo e "si confronta direttamente con la storia del proprio tempo, eludendo le cronache teatrali, polemiche, tendenze, protagonisti mediatici". Uno che potrebbe essere insignito ( perché no?) del Nobel per la letteratura , e non a caso tra poco a Londra gli verrà assegnata l’ennesima laurea honoris causa. Ma quando lo vidi per la prima volta , in un capannone degli ex cantieri della Giudecca di Venezia, giusto trent’anni fa , (23 ottobre 1975) era – come disse Cesare Garboli , - un mediterraneo ispido e selvaggio , cotto di sole , uno sciamano di uno spettacolo- processione, qualcosa di transitorio, di fragile e di leggero ,ma di gran peso: era una pantera pronta allo scatto… “Il suo corpo era uno strumento musicale magnetizzato che emetteva vibrazioni armoniche e trasmetteva una forza incredibile, risanatrice . Con le sole mani compiva gesti magici, taumaturgici, con la sola forza di quelle mani era capace di guarire”. Era , forse , tutto ciò quel che avrebbe voluto essere un medico moderno di oggi, che è rimasto spersonalizzato senza più contorni precisi. Ma la sua gestualità aveva anche un qualcosa di barocco e , insieme , di angoscioso e profondo , qualcosa di simbolico e fantastico.Quelle incredibili dilatazioni del corpo, ifulminei trapassi mimici, i passaggi da un'atmosfera musicale all'altra, le danze drammatiche rituali , miste di folklore scandinavo e sardo-salentine, tutto era in lui come un'oscura tempestosità emotiva con improvvisi calme da flauto, come una rissa perenne che ora si placa per un po’, ma è pronta a riesplodere. “Il teatro , - aveva detto - , “ è la possibilità di andare più veloci della luce , afferrare più presto possibile” . E ciò costituisce ancora un modello per i suoi attori , ora che lui non recita che saltuariamente.

2.Da allora ho sempre inseguito , più o meno inconsciamente , quest’artista del terzo teatro ( come allora veniva definito il suo teatro, che metteva in scena “l’oscenità e il contagio del linguaggio del corpo “e aboliva ogni divisione tra scena e pubblico ) , questo stregone magico gallipolino , pieno di anfratti, buio e luce, uomo vitalissimo e completo , ma allo stesso tempo diviso in due, come il giorno e la notte , quest’uomo che possiede “il dono della vertigine”. Ma non l’ho mai più rivisto, pur avendone qualche opportunità, almeno credevo. Infatti, molti anni dopo ( siamo alla fine degli anni ’80) sembrò che la cosa potesse realizzarsi , a Gallipoli. Gli avevo scritto una lettera , in veste di Presidente dell’Associazione Culturale L’uomo e il Mare , con la quale gli comunicavo che il Consiglio Direttivo gli aveva assegnata , per alti meriti artistici che avevano illustrato Gallipoli e il Salento , la Targa d’Argento L’uomo e il Mare, ma lui mi rispose , da Holstebro , Danimarca , con una lettera datata 25 maggio 1988 , che era costretto a rinunziare al riconoscimento, per impegni teatrali. Si diceva commosso e grato del riconoscimento che gli veniva tributato , ma faceva sapere che a Gallipoli non "capitava" più , perché l 'unica cosa che l'aveva legato in passato alla sua città d'origine era la madre, che nel frattempo si era trasferita a Roma.


3. Ora , trent’anni dopo Venezia, e quasi vent’anni dopo quella lettera , ho finalmente davanti a me, negli studi di Teleonda Gallipoli , Eugenio Barba , in carne e ossa, il più grande regista teatrale europeo vivente dei nostri tempi. E ciò grazie ad una felice congiuntura , ad un evento culturale che non esito a definire “ storico” . Eugenio , col suo “Odin Teatret “ , è a Gallipoli, per rappresentare una serie di spettacoli ( “Il sogno di Andersen” , “Le Grandi Città sotto la luna”, “Sale”) che sono stati già rappresentati in tutti i continenti , perché il teatro di Barba è universale , multietnico , multirazziale , globale , fatto di rigorosa disciplina della mente e del corpo , un training psico-fisico in cui l’attore – come abbiamo accennato - esprime i suoi messaggi attraverso la gestualità del corpo .

4.Il suo teatro è – come scrive lui stesso nella “Canoa di carta” – “il momento della
trascendenza, quando l'individuo vuole andare al di là di sè stesso, l’incontro con l'altro, chiuso e nascosto in noi stessi , ma a noi estraneo e da noi differente”. Si realizza un connubio tra personaggi e spettatori perfettamente integrati nel disegno della rappresentazione.
Ma tutto ciò, il maestro Barba , non lo dice nell’intervista televisiva che mi ha benevolmente concessa. Anzi, minimizza, come fanno tutti i grandi , e dice che questo discorso vale per loro, per l’Odin Teatret , che non è solo un gruppo culturale , ma una vera e propria comunità multietnica e multirazziale che “abita le isole galleggianti del teatro e hanno costruito ponti leggeri e resistenti per mettersi in contatto , e linguaggi estetici per comunicare al di là delle lingue e con tutte le lingue” . Insomma far parte dell’Odin è come farsi monaci , o militari , darsi e riconoscersi in un insieme di norme e comportamenti quotidiani, forse non propriamente templari “nudi “alla ricerca di una fede , del Graal della Purezza, come testimoniava Jarzy Grotowsky , il maestro e grande amico di Eugenio, che diceva “noi dobbiamo far vedere l’uomo così com'è, nella sua inte­rezza, in modo che non si nasconda; l'uomo che vive; e questo significa corpo e sangue. Questo è nostro fratello e si trova dove si trova 'Dio', con il piede scalzo e la pelle nuda , il fratello, l'uomo che non mente a se stesso . Tu sei, dunque io sono. Sto na­scendo perché tu nasca, perché tu divenga. Non aver paura, vengo con te.»

5.In questo “teatro-isola galleggiante, isola di libertà “, gli attori cercano spettatori per vivere insieme momenti di sconfinata sensazione , di non appartenere al proprio tempo, di superarlo, di andargli contro, di essere come salmoni dello spirito , andare contro corrente, avere la sensazione che qualcosa possa nascere in ciascuno di noi, spettatori, che possiamo uscire trasformati dallo spettacolo , uno spettacolo che continua anche dopo, dentro di noi. Oppure – ed è l’altro lato della medaglia – ne usciamo confusi , perplessi, istupiditi , con un aumento del tasso della claustrofobia, certi di una sola cosa: di non averci capito molto più di nulla. In effetti , è questa la grandezza di Eugenio Barba : mettere in scena il Nulla o il Deserto , ovvero quella parte di noi “che vive altrove” , più o meno inconsciamente , in un esilio permanente . E lui di esilio se ne intende , avendolo sperimentato sulla propria pelle facendo l’emigrante nel periodo in cui l’italiano non era molto quotato e in specie nel nord Europa era considerato alla stessa stregua del negro in Usa. Il suo teatro apre nuovi scenari , nuovi paesaggi , ci dice di una vita nascosta che abbiamo dentro e che può manifestarsi , lì sulla scena , attraverso le sincronie coreografiche danzanti , le luci , la sabbia, il sale , il corpo che si contorce e piange e si dispera , e sembra dover morire , dopo aver “girato tante isole” metaforiche e non , dopo aver cercato e sperato , ma continua ad aspettare , un’attesa infinita del “ Sale”, che potrebbe essere il Godot di Barba.
Certo, tutto nel suo teatro - recitazione , coreografie, musiche, danze, luci , effetti speciali , - è frutto di una minuziosa analisi chimica di fatti inconsci e rituali religiosi; tutto è essenziale , rigoroso e perfetto , come uno spartito musicale , come un’equazione matematica, e noi stiamo a guardare a bocca aperta questa sorta di scatola magica che è il teatro , e capiamo , - forse - in quel momento che abbiamo bisogno di nutrirci dell’arte , abbiamo bisogno del teatro , abbiamo fame e sete di queste cose , la stessa che hanno loro.


6. Erano diciassette anni che aspettavo di consegnargli la “Targa L’uomo e il Mare”, e che ora ho portato con me , un bel Crest del Jack della Marina , delle quattro “ Repubbliche Marinare” , simbolo di civiltà, progresso e libertà, che gli viene consegnato in diretta televisiva, nella sua città. Sorride, mi allunga la mano.
Parliamo della sua genialità, ma anche della sua schizofrenia . Aveva detto Garboli che lei si insedia al centro del teatro come al centro della propria pazzia, della propria e di quella degli altri; per metà è interamente sano e per l’altra metà completamente psicotico, è come una mela spaccata in due “. Sorvola - ovviamente – sulla genialità, ma ammette che sì, un po’ di schizofrenia in lui c’è, ma non guasta, nell’attore, basta incanalarla, controllarla.
Sembra un po’ Pasolini – m’aveva detto , dietro le quinte , Luciano Sebaste , con l’occhio adusato ai personaggi televisivi. E in effetti , sia nella voce , che nei tratti somatici , Eugenio Barba ha qualcosa di Pisolini. Ma è un Pasolini diverso, più semplice, più completo, più diretto, con una capacità di dominio psicologico sugli altri che è vissuta come vocazione fatale. Barba ha un carisma e un magnetismo straordinario, un fascio di energia , una forza esplosiva e controllata , una buia luminosità, una magìa che inquieta, una potere infallibile di fascinazione , come ammette il suo allievo e regista Pino Di Buduo, che lo accompagna.
Gli chiedo , poi, se è vero che aveva dichiarato che a Gallipoli non ci avrebbe mai più messo piede , e non perché avesse qualcosa contro la sua città natìa , ma semplicemente perché non aveva tempo per andare in giro per diporto .”La mia città è dove c'è gente che mi accoglie, che si interessa alla mia arte, che mi ascolta”.

7. Conferma che è tutto vero e se non fosse stato per il cugino , il Ministro Rocco Buttiglione , altro gallipolino doc , che ha sostenuto questa operazione , a Gallipoli col suo teatro non ci sarebbe tornato. Ma poi si fa più tenero e conciliante e dice: “Spesso ci sono venuto, a Gallipoli. Anzi , ci sono venuto quasi tutti gli anni, ma da privato. Ho visto nascere e crescere un’intera generazione, in questi ultimi trent’anni, ma nessuno mi ha notato, perché è ciò che io ho voluto. “E poi le città, per belle che possano sembrare, non hanno un’anima. Hanno persone, alcune indifferenti ed amorfe. Altre gonfie del loro ruolo. O perse nelle illusioni del campanilismo. Ed altre ancora con fame e sete spirituali. Per cercare ed incontrare queste ultime il mio teatro fa le sue irruzioni”
E’ così difficile nel nostro tempo – disse qualcuno – incontrare un uomo che quando lo si incontra si resta colpiti come la folgore di un prodigio.
E “Genio” Barba è soprattutto questo, un uomo.

August Strindberg metteva in scena le sue nevrosi





1.August Strindberg era incapace di avere rapporti con la gente, in specie con le donne, era assai peggio dell’altro drammaturgo vichingo coevo , il norvegese Henrik Ibsen, che pure si era congedato con un dramma (“ Quando noi morti ci destiamo”) che è tutto un programma circa l’utilità dell’arte e l’impegno intellettuale ( ossia zero). Ma per avere l’esatto senso della sconfitta e del fallimento dei rapporti interpersonali di Strindberg basta
andare a rileggersi quel drammone plumbeo zincato come una bara che è “ Danza Macabra” , opera che fui tentato di mettere in scena qualche anno fa perchè nel protagonista , il capitano fallito che comanda una sorta di ultimo avamposto da “deserto dei tartari” su un isola che non c’è , e nella moglie ex attrice ( che a quel tempo significava anche “puttana”) , tolta dalla strada dall’ottuso capitano per portarla a vivere su uno scoglio irto grigio e deserto, tra gli alzabandiera e i present'at-arm , le tramontane polari e la danza dei reumi , c'era qualcosa di mio , della mia vita reale , ma anche qualcosa che in qualche modo potesse appartenere a tutti , dal commesso al commerciante , dall’impiegato del catasto al barbiere, dal macellaio al benzinaio, ecc. ed è questo il segno distintivo di riconoscimento di un’opera d’arte .

2. E Strindberg era un vero e grande artista, un genio , animato da un intimo lacerante pressante desiderio di verità assoluta, al di là delle scelte formali ed estetiche. Lo confessa lui stesso ad un amico , nel 1907: “ Vorrei scrivere bello, luminoso, ma non m’è lecito; non ce la faccio . M’impegno come in un dovere orribile a dire la verità: la vita è indicibilmente brutta”.

3,Era sempre inquieto, teso, ansioso, tormentato, tumultuoso , frustrato, angosciato, ma anche infoiato, con il dramma coniugale (e sessuale) fisso nella testa . Era un uomo ossessionato e ossessionante , assolutamente insopportabile , un uomo “folle” e per anni la follìa è stata considerata una sorta di “conditio sine qua non”, un pass-partout per aprire la porta misteriosa dell’arte , dove risiede il sesto senso che ti fa essere in qualche modo profetico.
E August Strindberg lo fu, profetico. Anticipò di mezzo secolo tutta la tematica di quell'altro genio svedese (della cinematografia e del teatro ) che è Ingemar Bergman. Tutti e due hanno avuto tormentate convivenze , matrimoni e divorzi in serie , in produzione industriale ( Per Ingmar se ne contano già cinque , August si limitò a tre : sposò dapprima una borghese
tedesca, poi una pittrice austriaca , infine una attrice norvegese, che somigliava molto alla moglie del capitano della danza macabra ) .
Dapprima “niciano” , con la teoria del superomismo, visionario lucido, si entusiasmò per le religioni, soprattutto lo intrigò il buddhismo e poi approfondì anche il cattolicesimo. Anche lui , l’August – come il pauroso , ma ugualmente tormentato e infoiatissimo “don Lisander” , che sfiancò la povera Enrichetta facendole partorire 13 figli e non so quanti aborti - ha avuto la sua conversione e così la sua follìa di base è diventata mistica-simbolica, finchè nel suo bisogno di “tutto esplorare” approdò alla politica e i suoi lavori diventarono social-cristiani, ma, intendiamoci, una social democrazia alla svedese, mica all’italiana.
Quando August scriveva i suoi drammi (l’abbiamo già detto) era la sua vita che metteva sul palcoscenico, affinchè - diceva lui – “ io la patisca e ne dia conto al mondo”.

4.Era un pazzo allucinato visionario sognatore che anticipò tutti i temi dell’angoscia che trattiamo ancora oggi: lui e Munch , con il suo “Urschrei” , hanno precorso i tempi. Strindberg ha anticipato tutto: Brecht, gli sperimentalisti e il teatro senza una vera e propria trama, dove quel che conta è l'interiorià, il paradiso e l'inferno del singolo soggetto, i fantasmi del quotidiano che ci portiamo dentro e che purtroppo non potremo mai - dico mai - del tutto
rimuovere. “E danza macabra” che cos’è se non questo ? Il bello, anzi direi il brutto, è che 'sti fantasmi tu mica lo sai perchè ti aggrediscono. Magari c'entra tua madre e tuo padre che litigavano e avevano problemi sessuali ancor prima che tu nascessi , magari c'entra tuo nonno che non hai mai conosciuto; magari centra quello zio pazzo che si credeva un santo e andò a farsi eremita in una grotta sita in un paesino , Amatrice, che è a confine con tre quattro regioni, ma è famoso solo per un certo condimento della pastasciutta, “ all’amatriciana” .

5.Certo, August Strindberg , non conosceva Amatrice , né l’amatriciana , e forse non l’avrebbe digerita , con il suo stomaco delicato, come non avrebbe digerito – pur essendo “il più moderno dei moderni” come scrisse di lui O’Neill, quello che un presunto artista salentino ha fatto qualche tempo fa (con la complicità del cattedratico di turno) all’Accademia delle Belle Arti, ovvero far sgozzare un innocente capretto davanti ai suoi discepoli, in nome della sublime arte..” E' un'operazione di poesia...alta poesia rituale, sacra..,” ha detto il professore difendendo a spada tratta lo sgozzatore di capretti dagli attacchi dei retrogradi. “Del resto - ha soggiunto il direttore dell’Accademia in persona - anche Leonardo, Dante, Bunuel, anche Fo lo hanno fatto.. Come vedi, caro August , gli imbecilli continuano a proliferare e a circolare nelle scuole!.... Anzi, sembra che ce ne sia una vera e propria inflazione al punto tale che si ha timore di essere contagiati.

Fellini "er fregnacciaro"





1.Un omaggio a Fellini nel decimo anniversario dalla sua morte ,avvenuta il 31 ottobre 1993, un omaggio ad un genio che i francesi dissero parente di Moliere , Balzac, Daumier, Goya e Pagnol e George Simenon , classificò come poeta maledetto ( “è un Villon o un Baudelaire , un Van Gogh, o Edgard Allan Poe …nei suoi film dietro le risa c’è la morte”) . E c’è chi , come Luciano De Crescenzo , lo ho posto addirittura davanti a Gesù e Socrate … Esagerati?…
Forse sì. Ma una cosa è certa. Nessuno come Fellini ha rappresentato il costume italiano ,a livello internazionale , per almeno un trentennio, dagli anni ’50 agli anni ‘80 .

2.Ci sono legioni di adoratori di Fellini sparsi in tutto il mondo , basta sintonizzarsi sui siti internet , per verificarlo. Questi fans estremi si suddividono in diverse categorie: i fellinizzanti, i felliniani , i fellinisti, i fellinologi , una sorta di organico con possibilità di carriera…nel segno del mito di Fellini. Ma parlare della vita di Fellini significa in buona sostanza parlare dei suoi film che appartengono , nolenti o volenti , al patrimonio del nostro paese. Certe scene poi sono frasi visive di così rara sorprendente e misteriosa perfezione da divenire parte viva della nostra memoria…. Alberto Sordi che , ne “I vitelloni” , fa manichetto ai lavoratori della strada ; la scena della Ekberg nella Fontana di Trevi , nella “Dolce vita” , una Venere vikinga che sembra nascere dalle cascate di quella fontana che oggi vogliono far visitare solo a pagamento, o il Mastroianni nell’harem di “Otto e mezzo” ; la sfida tra tenori e soprano nella sala macchine de “E la nave va” ; il bordello infernale del “Satyricon” ; Il Casanova che copula con un manichino ; e poi il trio di donne che hanno immortalato la Masina: la Gelsomina de “La strada” , la Cabiria delle “Notti di Cabiria” , la Giulietta in “Giulietta degli spiriti” , e il girotondo che chiude “Otto e mezzo” ; e poi le straordinarie musiche di Rota che riascolteremo e tutta la serie di mostri felliniani, i nanetti , le ciccione pettorute, le donne-cannone , le sarghine , le tabaccaie , i clown , i gobbi , gli ultracentenari … Ma ancor prima di tutto ciò, il giovane Fellini provinciale riminese che viene a Roma e diventa umorista e caricaturista del Marc Aurelio che sfotteva senza riguardo il vate del futurismo , Marinetti, o la presunta impotenza sessuale del poeta dialettale romanesco Trilussa, o il comico Petrolini che per reazione devastò gli uffici del giornale; e il Fellini “imboscato” che le studiò tutte per non fare il servizio militare…s’inventò una tachicardia e il morbo di Basedow…falsificò i documenti…. E da imboscato , in piena occupazione nazista , si rivelò un grande attore sfuggendo all’arresto dei tedeschi, fingendosi amico di un Ufficiale della Whermarcht …E poi il Fellini aiuto regista di Rossellini che gira una scena in cui è protagonista Totò e non sapendo come chiamarlo gli viene spontaneo dire “principe De Curtis”, come lo chiamano tutte le maestranze e Totò gli risponde benevolmente: ”Mi potete chiamare Antonio…”

3.E poi il Fellini divertito dei Vitelloni, il “cinico che ha fede in quel che fa” , l’esistenzialista malinconico nel Bidone, il poeta suburbano delle “Notti di Cabiria” , il favolista de “La strada”, il rivoluzionario del costume della “Dolce vita” , l’onirico di “Otto e mezzo” , il profeta de “ E la nave va” che anticipa se vogliamo , in qualche modo , l’11 settembre , col terrorismo slavo che genera il naufragio e una piccola apocalisse. Ma anche l’amico scherzoso che risponde al telefono fingendo di essere la servetta di casa Fellini…”il dottore non g’è”. Insomma ce ne sono mille di Fellini ed è difficile sceglierne uno solo…Ma l’ultimo Fellini, quello che io ho conosciuto casualmente all’aeroporto di Venezia, nel 1991, due anni prima della morte , e con cui ho brevemente conversato , m’era sembrato …un uomo stanco che meditava sulla morte e diceva : “ Guardare la luce della luna è per i mortali la cosa più dolce, il resto è niente”. E rileggeva Leopardi corteggiando la morte… Questo è il senso del suo ultimo film, “La voce della luna ”, realizzato l’anno prima.

4.Dentro di sé c’era forse ancora il “fanciullino pascoliano” , un clown triste e malinconico. alla ricerca del mistero della morte e del silenzio , quel silenzio
che abbiamo perduto per sempre. Anche la luna fa la pubblicità…Visse per il cinema , senza nessun altro vero interesse che fosse quello della celluloide, il suo lavoro coincideva con la sua “ vera” essenza, la sua vera esistenza. E in effetti il cinema è quello che risolse una delle contraddizioni della complessa personalità del Fellini giovane , perché riuscì a conciliare il suo perenne bisogno di fuga verso un altrove qualsiasi con l’ imperativo etico di mettersi al servizio di un’ impresa firmata.
Insomma l’importante per lui era eludere gli obblighi familiari e sociali, il servizio di leva, il senso del dovere , l’amor di patria , ecc. ecc., per cercare di seguire la propria vocazione e realizzare se stesso.

5.Fin da giovanissimo studente marinava la scuola per non costringersi a prendere le cose sul serio ; sentiva il bisogno di fuggire da tutto ciò che fosse serio o impegnato , fuggire da tutto nella corsa verso una meta liberamente scelta da lui , senza costrizioni e per far questo. Ovviamente dovette fuggire , in primis , da Rimini , la città in cui era nato e in cui aveva vissuto l’infanzia e l’adolescenza , e poi s’inventò poi un sacco di bugie su questa fuga,
romanzandola , facendone ( appunto) un film. “Sì, sono riminese , ma non riminese bugiardo.. pensare a Rimini per me è come pensare ad un parola fatta di aste e di soldatini in fila…Rimini e un pastrocchio confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro ,questo vuoto aperto del mare . Rimini è il mare di inverno, le creste bianche, il gran vento.. vi dico la verità, io a Rimini non torno volentieri. E’ una sorta di blocco che mi prende qui, allo stomaco perché per me Rimini e la dimensione della memoria , una memoria tra l’altro inventata , adulterata, manomessa su cui ho speculato tanto forse fin troppo….Mi dicono che sono bugiardo, un fregnacciaro , ma la verità è che le più grandi bugie su di me le hanno raccontate gli altri.

6.In realtà c’è tutta una letteratura , una mitologia sulle bugie , le fregnacce di Fellini: la sua nascita sul treno è una fregnaccia , perché quel giorno , il 20 gennaio 1920 , in cui Federico nacque ci fu uno sciopero dei treni che durò diversi giorni ! ; poi mitica la fuga con il circo dei clowns , descritta nel film “ I clowns” , quando aveva sette anni, è un’altra fregnaccia . In realtà si trattò di una scappatella di qualche ora e fu più smarrimento che fuga . Infatti lo ritrovarono piangente perché la verità è che …aveva paura dei clown . Infine il viaggio da Rimini a Roma , di cui si accenna nel finale dei “Vitelloni” ( Moraldo alla fine parte ) e soprattutto nell’”Intervista” , con il giovane e imbranato Federico che va alla ventura , in cerca di gloria, nella mecca di Cinecittà , intento ad intervistare la “ diva” del momento. Niente vero, fu la madre Ida che volle ritornare nella sua città natìa , Roma, e far studiare il figlio all’Università, cosa che non fece limitandosi alla sola iscrizione alla facoltà di giurisprudenza. Insomma , un’altra, l’ennesima fregnaccia . E’ per questo che a Roma tutti i suoi amici e conoscenti lo avevano ribattezzato Federico “er fregnacciaro”.

Harold Pinter: me ne fotto dell'audience





1.Harold Pinter, figlio di un sarto ebreo dei sobborghi poveri di Londra ,iniziò come attore , dopo aver frequentato la Royal Academy of Drammatic Art . Il suo nome d’arte era David Baron e fu buon attore televisivo e discreto caratterista in alcuni film. Ma scriveva anche dei testi, drammi, sceneggiature cinematografiche e televisive. Proprio per la Tv vinse il premio Italia, nel 1962. Ma i suoi inizi come autore furono stentati , il suo teatro si richiama troppo a Beckett. I suoi personaggi appartengono all’infima borghesia e si muovono e agiscono in una condizione di isolamento reale e psicologico, parlano per dialoghi giustapposti non reciprocamente connessi. Le sue sembrano – come ha detto qualcuno- commedie minacciose per il repentino precipitare degli eventi che minano l’ordinaria routine e trasformano la situazione dell’esistenza umana da ridicola in tragica.


2.Harold Pinter ha sempre e solo scritto per se stesso mai pensando al pubblico:
“ FUCKE THE AUDIENCE”, è solito dire.Quindi tutto proviene direttamente dal suo vissuto, dalle sue curiosità, dalle sue ricerche linguistiche , senza filtri né falsi infingimenti. Un’onestà letteraria senza mezzi termini e un’assoluta assenza di retorica. La retorica ucciderebbe il suo teatro, perché Pinter mette in scena l’essenziale e l’essenza del dialogo viene poi restituita alle scene in maniera del tutto spontanea. E’ capace di scarnificare i suoi personaggi piuttosto che velarli di superfluo. E’ come se scavasse nella profondità delle radici per poi lasciare affiorare solo l’apparente leggerezza dell’essenziale.Una parola, una persona, un’immagine o un episodio , per lui si trasformano in una sorta di ossessione finchè non riesce a inserirli in un progetto, una specie di processo catartico.

3.Pinter, come tutti noi, coltiva le sue fantasie e dà loro vita, solo che lui ,da queste elaborazioni, crea opere. Che nascono in maniera casuale, come la sua prima opera ,” La stanza” (The room, 1957).Vide una stanza, due uomini seduti a un tavolo, il primo un omino piccolo escalzo parlava in continuazione , un’interminabile conversazione; il secondo,
un gigantesco camionista col berretto in testa non proferiva verbo. Il primo,sempre parlando , accudiva il camonionista, imboccandolo e imburrando del pane che, a mano a mano, affettava. Qualche settimana dopo aver visto questa scena ecco l’opera. E così fu per il “Compleanno” (The birthday party, del 1958) – che richiama alla mente il grande Kafka , dominato com’è dall’angoscia e dalla paura, una paura che sembra avere implicazioni politiche e metafisiche - e poi “Il guardiano” (The caretaker, del 1960) , con due fratelli che si contendono un vecchio barbone capitato nella casa vuota dove abitano offrendogli a turno un posto di guardiano, dato anche alla tv italiana con un grande Peppino DeFilippo nella parte del barbone; parliamo delle sue prime cosiddette “commedie minacciose”, per il repentino precipitare degli eventi che minano l’ordinaria “routine” e trasformano la situazione dell’esistenza umana da ridicola a tragica.
E poi , ancora, tante altre, come “Terra di nessuno” (No Man’s Land, 1975) , in cui ci sono ansie, utopie, ribellioni fuse nella preoccupazione linguistica; e “Vecchi tempi” ( Old Times) , “La serra” , Party Time, ecc, dove Pinter esplora soprattutto il problema della comunicazione, la sottomissione al potere, l’isolamento, l’insicurezza, esplicita in termini di allarmata e inquietante denuncia quel tema della Violenza, che è poi il vero leitmotive dell’intera sua produzione. Nelle sue ultime opere , in particolare, i riferimenti sono alla violenza propriamente politica, come nel caso de “Il bicchiere della staffa”, che fa riferimento al dramma dei desaparecidos argentini, o nel “Linguaggio della Montagna” a quello del popolo curdo , la cui parola è stata tagliata in bocca dai turchi oppressori.


4.Ma il vecchio Pinter, a cui è stato recentemente attribuito il Nobel per la letteratura non vorrebbe che lo si ricordasse come autore fortemente impegnato su temi sociali e politici , colui che alla fine ritrovò la buona coscienza. Non è così, se si va a ben vedere, anche se agli inizi della carriera era uno scontroso e appartato attore che scriveva atti unici vagamente intellettualistici e simbolici e sembrava ai più eccessivamente disimpegnato. In verità , il giovane Pinter aveva rifiutato il servizio militare in nome dell’obiezione di coscienza e via via è uscito dal suo guscio , non facendosi più alcuno scrupolo di nascondere il proprio appassionato attivismo politico, che lo ha visto negli ultimi trent’anni in posizione di esplicita condanna contro la guerra e l’oppressione; contro , appunto, la Violenza da chiunque venisse esercitata. E questo profondo e commosso sdegno di individuo offeso dalla brutalità ferina degli oppressori l’artista lo riversa nella scena teatrale, con q uel suo stile altissimo di scrittura che usa il linguaggio corrente caricandolo di ambiguità, pause, silenzi di grande effetto teatrale.

5.Nelle sue commedie la vicenda è spesso poco chiara, né va verso uno sbocco
che concluda davvero. I personaggi violano con disinvoltura alcune delle leggi non-scritte del teatro, ad esempio contraddicendo quello che avevano detto su se stessi, e che il pubblico, abituato per convenzione, aveva preso per buono.Il dialogo, sempre teso e scattante, costruito su ritmi molto precisi in cui i silenzi hanno lo stesso valore delle battute, crea tensioni di grande teatralità. non ci sono mai momenti morti e l’attenzione è sorretta fino alla fine.


6.Un linguaggio , il suo , che crea atmosfere e situazioni sempre in bilico su quell’ esile confine , ( quasi un filo di rasoio) che esiste tra la tragedia e la comicità, vedasi opere come Silence, Old Times, Monologue dove non esiste più un’azione vera e propria , e il personaggio domina incontrastato con i suoi silenzi e i suoi monologhi , in un raffinato scavo psicoanalitico che esplode in tragicità ,in conseguenza di di situazione umoristicamente assurde. Si è parlato di teatro dell’assurdo , si è parlato (non a caso) di Kafka e Beckett, con il quale ultimo è stato amico, ma la differenza fra i due è che nel mondo di Beckett la comunicazione è impossibile, in quello di Pinter essa viene consapevolmente evitata per sfuggire al dolore che potrebbe derivare dal contatto umano ( comunicare significa mettersi in potere altrui) La nevrosi dell’uomo contemporaneo , l’inadeguatezza di qualsiasi comunicazione rimane il tema di fondo di tutte le opere di Pinter, oltre a quello della Violenza del Potere, ben espresso in Party Time, dove nel club più raffinato della città, di primissimo ordine, di gran classe , dove ti puoi fare una partita a tennis, una nuotata , e c’è un bar proprio lì, accanto alla piscina , dove ti puoi bere un succo di frutta ( tutto compreso nel prezzo) e dove ti danno un asciugamano caldo che elimina tutti i punti neri del viso , insomma uno di quei club dov’è quasi istintuale affiliarsi e dove trovi proclami sulla pace , - a tutela dell’onesto cittadino che voglia sicurezza e la possibilità di muoversi tranquillamente, sia per il suo lavoro che durante il tempo libero, come questo:
“Noi vogliamo la pace , e la otteremo. Ma vogliamo che quella pace sia una pace d’acciaio. Senza crepe. Senza correnti. Acciaio. Tesa come un tamburo.

7.Questo è il tipo di pace che vogliamo , e questa è la pace che otteremo. Una pace d’acciaio”
E se alla fine del proclama di pace del presidente del Circolo, Jimmy dice che “tutto si chiude. Non vedo più niente, mai più niente, Siedo e succhio il buio. Ho il buio in bocca e lo succhio. E’ tutto quello che ho”, dobbiamo capirlo.

Anton Cechov: in scena la vita di tutti i giorni




1. Ripensavo , tempo fa , a quel monologo dello Zio Vania , quello di Sonia, con la sua malinconia così profonda, così amara, così dolorosa, così totale, da sfociare in tristezza , ma non in disperazione …in quella malinconia , infatti, c’è una fede, in fondo: “Servirà a qualcuno il nostro lavorare, -dice Sonia, - Noi siamo infelici, ma altri dopo di noi saranno felici, forse…”
E poi quel monologo recitato , per il film della Tatò, da un Mastroianni-Astrov , ormai malato di cancro , ormai all’ultimo stadio , ormai morente…”Certo, bisogna essere dei barbari insensati per bruciare tanta bellezza, distruggere ciò che noi non siamo capaci di creare”. Si riferiva agli alberi, alle foreste della Russia, alle foreste del mondo , che l’uomo continua a distruggere con assoluta crudele avida stupidità …


2.Certo, mi dicevo , Cechov è uno dei più grandi autori teatrali di tutti i tempi, uno che ha spazzato via tutto il bagaglio altisonante del teatro ottocentesco, le sue convenzioni , i suoi miti, i suoi trucchi e lo ha fatto senza proclami , né colpi di grancassa; ha dato un colpo di spugna al vecchio teatro , con un gesto autenticamente rivoluzionario , portando la vita, la vita di tutti i giorni, direttamente sul palcoscenico. E lo ha fatto con un linguaggio semplice, essenziale, banale , un po’ come aveva fatto anche nei suoi racconti, in cui descrive gli “uomini superflui” del suo tempo, una sorta di minuzioso catalogo psicologico, morale e intellettuale della Russia e di un’epoca storica di trapasso , geniale cronaca della vita, impietosa nella sua verità, e insieme pervasa di pietà e dolore. Il teatro di Anton Cechov, “un allegro malinconico”, morto di tubercolosi , a soli 44 anni , una sera d’estate del 1904, a Badenweiler , Germania, dove s’era recato , con la moglie , l’attrice Olga Knipper, per tentare nuove cure , è la continuazione della sua narrativa ed è qui la sua forza innovativa che fa del Cechov drammaturgo uno dei pilastri del novecento, insieme a Pirandello, Ibsen e Shaw.


3.C’è un episodio grottesco , subito dopo la sua morte, che sembrerebbe scritto da lui stesso. La sua salma proveniente dalla Germania su un vagone frigorifero , giunta alla stazione di Mosca , viene scambiata per quella di un Generale russo che era stato ucciso in Manciuria. Così , con grande sorpresa dei pochi amici che erano accorsi per renderle l’estremo saluto ,alla salma di Cechov vengono resi i solenni onori militari dalle principali autorità cittadine , con tanto di trombe , fanfara e presenta-t-arm . Sembra proprio uno dei suoi primi raccontini che gli avevano fatto guadagnare i primi soldi e aiutare una famiglia troppo numerosa e di scarse risorse, quando aveva appena diciannove anni. Ma è anche – se vogliamo – l’esatto contrario di tutto ciò che era stato lo scrittore nella sua vita , spirito vivace e allegro, dotato di straordinario senso dell’humor , è vero , ma uomo riservato, schivo, modesto, alieno da ogni forma di ostentazione e di vanità , anzi addirittura a disagio per la sua fama di scrittore , in crisi spirituale e incapace di comunicare, come tutti i suoi personaggi .


4. Il vero dramma dell’umanità – nelle opere dello scrittore russo - è quello dell’incomunicabilità , dell’isolamento senza speranza , dell’eterna mancanza di sintonia fra due esseri che si parlano .Il loro parlarsi non è che un monologo , quasi sempre inarticolato e rarefatto.( “Quando manca una vera vita si vive di miraggi”, dice lo zio Vania ). E Cechov-Trigorin del “Gabbiano” vive di ideali mancati , che si allontanano sempre più nel momento in cui sembra che li raggiungi , miraggi , appunto. Cechov è uno scrittore che non si fa illusioni e gli stessi studi di medicina ( fece il medico per brevissimo tempo, fino a quando si rese conto che con tutta la sua scienza non era riuscito a salvare una bellissima fanciulla di cui si era innamorato),lo avevano portato a considerare gli uomini come tanti ammalati verso i quali ogni giudizio andava sospeso perché prima di esprimere un giudizio bisognerebbe essere in grado di indicare loro una via di guarigione certa, infallibile. Cechov non aveva messaggi da comunicare agli uomini, egli sapeva fare solo una cosa : descrivere il lento monotono fluire della vita , senza preoccuparsi di trovarvi un senso qualsiasi . Ma quale senso poi? La vita, - dice Anton Cechov, - è quello che è e basta, ” feroce, rozza e implacabile nel suo conservatorismo”.


5.Tutto quello che possiamo fare è ascoltarla dentro di noi, negli altri, nelle cose. Si esigono eroi, eroismo, ed eroismo che produca effetti scenici. Pure nella vita non ci si spara, non ci si impicca, non si dichiara il proprio amore e non si enunciano pensieri profondi tutti i giorni e a getto continuo. No, quasi sempre nella vita si mangia, si beve, si fa l’amore , si dicono delle sciocchezze. E tutto questo che si deve vedere sul palcoscenico…Bisogna lasciare la vita qual è , gli uomini quali sono , veri e non gonfi di retorica.


6. In realtà il teatro di Cechov è un teatro di atmosfere , essenzialmente lirico. La trama delle commedie è infatti ridotta quasi a nulla. Gli avvenimenti più spettacolari della vita dei personaggi accadono fuori della scena. All’azione vera e propria Cechov sostituisce la rappresentazione sommessa di una serie di stati d’animo, vuole rappresentare la vita nel suo lento fluire, non proclamare messaggi, dare soluzioni. Quello che gli interessa è la “struttura d’anima” dei suoi personaggi , il cui moto segreto , contrapposto all’apparente staticità , è fatto di un gioco tenue di intonazioni, ritmi, pause . Una battuta banale cela e rivela insieme lo strazio di un’esistenza naufragata e l’orrore si un universo svuotato, il tutto in un complesso gioco di tonalità di volta in volta liriche, ironiche, drammatiche, satiriche, prorompenti o soffocate.


7. Da “Il Gabbiano” (1896), la commedia più scopertamente autobiografica , in cui l’autore si rappresenta sia in Trigorin , il romanziere arrivato, che in Treplev, il drammaturgo rivoluzionario, in cui i temi sono l’arte e l’amore, ma anche l’impotenza spirituale e il dramma dell’adolescenza, la giovinezza disperata di Nina, appaiono inconciliabili coordinate dei protagonisti colti nelle minime vibrazioni dei loro animi; allo “ Zio Vania” (1897) , in cui è rappresentato mirabilmente il tema tipicamente cechoviano della vita che assiste indifferente a consumarsi della tragedia degli uomini, il dramma della vanità delle cose, della vanità delle passioni umani, dell’impossibilità dei personaggi a uscire dalla prigione del proprio destino. Per giungere alle “Tre sorelle”(1901), che vivono un’esistenza insensata, immerse nel tedio di una piccola città di provincia , con la rete dei loro ricordi fittizi e l’aspirazione illusoria ad una nuova vita , a cui fa seguito il disinganno e l’evento casuale drammatico. Infine il “Giardino dei ciliegi”(1903), un po’ la summa dell’arte drammatica di Cechov, in cui si narra la vicenda di una famiglia aristocratica che è costretta dai debiti a vendere il meraviglioso giardino che è il suo orgoglio. Invano i protagonisti della commedia cercano di impedire che la catastrofe si compia. Alla fine rinunciano a lottare e si allontanano , inseguiti dai rombi cupi dei colpi di scure che si abbattono sul giardino dei ciliegi, simbolo di irreparabile decadenza, di un mondo aristocratico ed esangue che sta per scomparire e che verrà sostituito da una borghesia arrembante , rozza e vitale ( Il giardino viene acquistato dall’ex servo Lopachin). Ma nell'opera non è difficile avvertire l'eco della pena di Checov, minato dalla tubercolosi , e prossimo alla morte.


8.L'opera si può fare in diversi modi , chiave verista, simbolista,metafisica, e c’è stato addirittura chi ha visto nel “giardino” dio stesso , uno e trino, ma forse la pièce – come scrisse Mejerchol allo stesso Cechov , è “ astratta come una sinfonia di Ciajkowskij , e il regista deve afferrarla prima di tutto con l’udito, e ciò vale un po’ per tutto il suo teatro. E Cechov stesso, nella sua avversione al naturalismo e nella sua aspirazione all’essenzialità diceva: “ La scena è arte, la scena riflette in sé la quintessenza della vita , sulla scena non bisogna portare nulla di superfluo.”

Beckett e il rumore del mare



1. Samuel Barclay Beckett lo conoscono tutti , anche quelli che non si sono “mortalmente annoiati , o terribilmente angosciati “ , come diceva un mio amico ex Sindaco di Gallipoli , nell’andare a teatro a vedere rappresentato un suo testo, come sempre oscuro , difficile , che richiede un’estrema concentrazione ; Beckett, come tutti sanno , è uno che ha cambiato l’intero teatro contemporaneo scrivendo una commedia ( Aspettando Godot) che tratta di due vagabondi che aspettano in nessun posto particolare qualcuno che non compare mai ; è un irlandese , o meglio un dublinese , che nacque il Venerdì Santo del 13 aprile 1906 da due protestanti , Franck , agrimensore , e Mary Roe , casalinga , che iniziò la sua carriera letteraria celebrando Joyce ,Dante , Giordano Bruno e Vico , e la concluse con una commedia (Respiro) senza attori , che dura esattamente trentacinque secondi e si basa esclusivamente sul vagito di un neonato; Beckett è uno che ha fatto della privazione e della depressione estrema materia d’arte , anziché di psichiatria ; un uomo costantemente in bilico tra l’arte e la follia , del resto il discrimine è costituito da un filo sottilissimo ; uno che ha espresso la sua visione catastrofica , assurda , angosciosa , desolata dell’esistenza (“Speriamo che Dio mi aiuti e mi dia una morte veloce”) con una forza , un’originalità ,una purezza e una fede davvero unica.

2.La sua non è arte , ma follìa , dice qualcuno. “Non apre niente , non ha niente da aprire , tutto è nella sua testa malata”.
Diciamolo francamente, uno così , che crea mondi assurdi , in cui i Godot non arrivano mai , mondi aggrovigliati fatti dai Sig. Knott ( leggi “nodo”) , uno a cui sembra perfettamente normale passare il tempo in un’urna o in una pattumiera , o nella sabbia fino al collo, o con la faccia nel fango , uno che ti fa vedere il tuo passato in un nastro magnetico e il tuo futuro in un fazzoletto macchiato di sangue , o in una stanza a forma di cranio , che t’apre un mondo devastato , postatomico e talmente vuoto che un essere umano sembra un’intrusione mostruosa, forse sarebbe meglio dimenticarlo , cancellarlo dalla memoria.

3.E invece no. Nonostante manchi più di un anno e mezzo all’evento, ovunque , in tutti i posti del mondo, stanno già preparando le celebrazioni del suo centenario dalla nascita: da Parigi a Dublino, da New York a Tokio, da Timbcutù a Canicattì. E allora è lecito chiedersi del perché di tanto spasmodica attesa per celebrare quest’artista che nacque depresso , ed è stato come pochi fedele alla sua vocazione alla depressione . Perché tanto attesa per celebrare un poeta , uno scrittore, un commediografo che ha scritto commedie senza attori, atti senza parole, romanzi senza trama , lontanissimo dal pubblico , a cui non ha mai voluto fare alcuna concessione ?
La gente comune non si riconosce affatto con la sua opera in cui personaggi misteriosamente infermi e disperatamente monologanti incarnano l’orribile solitudine dell’uomo contemporaneo e la sua paradossale resistenza all’oscuro annientamento che lo sovrasta.
Perché tanto parlare di lui ?, fiumi di libri , di tesi di laurea , di esercizi accademici in tutti i campi, dalla letteratura al teatro, dalla metafisica alla psicologia , nei confronti di un’artista che è sì di grande originalità e di grande purezza , ma anche di grande oscurità. Qual è il fascino di questo martire della timidezza , alla Buster Keaton ( fece un solo film intitolato
appunto “ Film” ed è in sé un’allegoria della timidezza) , quest’uomo fatto di agonie silenziose, di ultimi respiri e ultimi spasmi , nemico giurato delle folle, dei convegni e della vita sociale , uno che ha sempre sfuggito la pubblicità come la peste bubbonica e man mano che cresceva la sua fama è andata sempre aumentando la sua diffidenza e reticenza ?.

4.Anche la sua carriera è stata anomala. In fondo prima di “Aspettando Godot” era praticamente uno sconosciuto al grande pubblico, nonostante fossero trent’anni che scriveva romanzi, poesie, commedie, saggi. Lo conoscevano gli avanguardisti e gli accademici. E ancora oggi , a distanza di oltre mezzo secolo , non è facile trovare compagnie teatrali che “s’arrischino” di portare in scena le sue opere , perché (almeno qui da noi) il grande pubblico preferisce altri autori e altri tipi di spettacolo. Ma probabilmente per lui, come per Carmelo Bene, il teatro perfetto sarebbe stato senza pubblico, anche perché – non fosse stato per la scrittura – aveva delle difficoltà ( un po’ come Montale ) a credere che l’uomo esista veramente.
Quando vinse il Nobel, nel 1969 , Beckett si trovava in un hotel tunisino . Fu letteralemtne assediato da un piccolo esercito di giornalisti ( erano 257e venivano da tutte le parti del mondo) , ma non ci fu nessuno di loro che riuscisse non a fare un’intervista ( cosa praticamente impossibile), ma neppure a fotografarlo. Si barricò letteralmente e non volle vedere nessuno.

5.Ovviamente non si sognò neppure di andare a ritirare il premio , né ritenne di doversi scusare.
“Beckett era uno drogato di silenzi – disse una volta Richard Ellman – e con Joyce si impegnavano in conversazioni che erano spesso fatte di silenzi, rivolti l’uno all’altro, entrambi soffusi di tristezza, Beckett soprattutto per il mondo, Joyce soprattutto per sé stesso.”
I due sembravano anticipare le conversazioni di Vladimiro ed Estragone che non sanno cosa fare( “Speriamo che la morte arrivi in un clima caldo e secco in cui crocifiggono velocemente”).
Beckett era ossessionato dalla sua apatia e malinconia, dal cancro del Tempo e dei suoi attributi, l’Abitudine e la Memoria. In base a essa , il tempo è la condizione velenosa in cui siamo nati , che ci muta costantemente senza che lo sappiamo e che alla fine ci uccide senza il nostro consenso.
Noi siamo condannati al tempo perché abbiamo commesso il peccato originale ed eterno…di essere nati, una frase che riecheggia costantemente attraverso i suoi romanzi e le sue commedie. Noi espiamo questo peccato originale con la nostra vita , che Beckett considera una faccenda particolarmente dolorosa , e mitighiamo la pena di vivere con l’abitudine , che è la corazza che ci protegge da tutto ciò che non può essere predetto e controllato , da quell’intero mondo di sensazioni che assicura solo sofferenza. Per Beckett la possibilità che la vita possa offrire alternativa alla sofferenza – cioè l’amore o il piacere –semplicemente non esiste. “La sola consolazione è che la sofferenza è una precondizione dell’arte ; la sofferenza ispira , altrimenti il massimo che possiamo aspirare sonole infrequenti illuminazioni di una memoria involontaria . L’arte è l’apoteosi della solitudine , non vi è comunicazione perché non vi sono mezzi di comunicazione”, scrisse tanti anni prima . E poi:

6. “ Essere un artista vuol dire fallire, come nessun altro osa fallire questo fallimento è il suo mondo ed evitarlo vuol dire diserzione …”
Più dura lo sforzo artistico più ti porta ineluttabilmente nelle profondità spirituali interiori , in cui la parola si contrae sempre di più, finchè arrivi al massimo della contrazione in cui la solitudine e la profondità non sono più sopportabili, ed ecco che tutto ciò che rimane è una specie di stenografia arcaica , le “rune” della disperazione.
“Ceneri” è la concentrata affermazione drammatica delle difficoltà di essere uno scrittore , in cui ti chiudi sempre più nel tuo universo solipsistico. La sola realtà esterna è il rumore del mare , che egli non può tollerare ma da cui non può nemmeno fuggire , un basso continuo che tormenta una vita deprivata che si sta spegnendo come il fuoco nella casa di Bolton, ridotta in cenere. E quel rumore del mare , quella vita che si sta spegnendo – qualcuno ci sussurra all’orecchio – non è forse anche la nostra?

Vittorio Gassman: addio vecchio mattatore






1.Poco prima di morire , diede l'ennesimo addio al teatro, sperando di esorcizzare la morte , ma la morte , con cui aveva a lungo lottato - e vinto - nelle vesti di Brancaleone ( forse il suo capolavoro) , stavolta non si lasciò. Non gli andò incontro a viso aperto , ma lo ghermì , di notte, nel sonno. E così , a 78 anni ancora da compiere , dopo 60 anni di palcoscenico, disse basta davvero. Il suo addio lo aveva dato poco prima , anche se non credeva fosse quello definitivo.
Un addio da vecchio mattatore , nel modo più eccessivo, più plateale possibile : esibendosi – anche col supporto televisivo – in tutto il suo repertorio , che era immenso. Da Eschilo al marchese di Caccavone, quello della teoria del niente , facente parte dell’Accademia degli Incauti ( “ Il niente, adunque , sarà il soggetto del mio discorso. Parlerò del niente e del niente dirò appunto cose da niente , onde da voi non chieggo che attenzione da niente”)

2.Ma io , personalmente , lo ricordo ancora giovane in un formidabile Otello, lui e Randone che si scambiavano i ruoli di Jago e Otello , e poi in Macbeth, Edipo, e Sofocle . E una volta , al Sistina , nell' Uomo dal Fiore in bocca, un pezzo antologico che Vittorio volle riproporre in segno di omaggio a Pirandello , un brano testamen tario forte, impregnato di Sicilia , dichiarazione d'immutato amore per la sua terra.
Poi Gassman si è trasformato di volta in volta in tennista ( era stilisticamente brutto a vedersi , giocava da autodidatta , molto frontale, ma aveva una possanza atletica davvero straordinaria) , polemista, seduttore, patriarca , vagabondo, poeta e romanziere. E in quell’addio ripercorse tutti i ruoli accarezzati , introiettati e interpretati non solo sulla scena, ma anche nelle varie stagioni della sua esistenza. Ed allora riecco Gassman-Adelchi , con un Manzoni indigeribile , un Gassamn holliwodiano , in tono decisamente minore , ora zingaro, ora maestro d’orchestra , o principe russo ( chissà perché gli facevano fare la parte dello slavo ) fino all’ultimo straordinario, eccezionale Gassman-Achab , Gassman-Ulisse. Gli mancò il ruolo di Don Chisciotte , ma Brancaleone tale è , la mimesi del Cavaliere dalla triste figura.


3.E poi c’era il Gassman disperato, malato , solo , in preda alla più cruda depressione ( Mi ha riferito un eccellente dermatologo salentino, di Taviano , che ebbe in cura Vittorio , quando lui soggiornava in Toscana , che aveva dei veri e propri buchi ai piedi, frutto delle sue ansie e angosce)
Ma passati i periodi di depressione , Gassman tornava quello che da sempre abbiamo conosciuto, egoista , vanesio , goliardico, eccessivo. Molteplice. “In realtà, Vittorio è un timido”, mi disse una volta il suo grande amico gallipolino , Carlo Mazzarella, che ogni tanto , d’estate, incontravo al Marechiaro di Gallipoli, dov’era ormeggiata la sua barca. “ L’ho invitato tante volte a Gallipoli”, mi disse Carlo , “ ma ancora non ci sono riuscito a portarcelo “. Erano gli anni ottanta e Gassman era ancora sulla cresta dell’onda . A Gallipoli ci verrà molto più tardi , dopo la morte di Mozzarella , in ossequio alla memoria dell’amico , raccogliendo l’invito degli organizzatori del premio Barocco .

4. Forse è vero che era anche timido . In fondo ciascuno di noi rimane per buona parte un mistero anche di fronte a se stesso. E tutti i Gassman sono possibili.
Infine il commiato. L'epilogo. In un palcoscenico che ribolliva di folla delirante.
E lui, Gassman che alzava per l'ennesima volte le braccia come un eroe omerico. Superbo. Unico. Mitico. Ecco le sue dichiarazioni finali: "Gli attori sono una categoria con un forte tasso di imbecillità e di finte aristocrazie, io ho sempre amato attori e registi che hannno il senso del gioco e della relatività, Monicelli , Scola , Risi , Altman , tutta gente che fa le cose seriamente ma non si prende troppo sul serio…Del resto , se non si rimanesse bambini fino a novant’anni , non si potrebbe fare gli attori".

Che rapporto ha con i suoi molti figli ?
"I figli sono creature sconosciute con cui il rapporto è ambivalente: amore e combattimento,ci devono essere entrambe, coni figli si lotta, ho un figlio di 19 anni che amo moltissimo, però se faccio un errore non mi perdona , punta subito il dito, però mi protegge anche".

Esiste la felicità?
"No. La felicità totale no. Esistono momenti di felicità, uno stupore di stare al mondo, ogni giorno mi sveglio con ujn cenno di ringraziamento verso l'ipotetico padrone del vapore".

Crede in Dio?
"Sì, al sessanta per cento. Per il 40 intervengono il raziocinio i dubbi . Ma un frate mi ha detto che la fede che non passa attraverso il dubbio vale di meno".

5.Uno dei più grandi attori italiani di ogni tempo , Vittorio Gassman, una persona di grande spessore culturale, che sarebbe stato qualcuno comunque , anche non facendo
l'attore. La Facoltà dei Beni culturali dell'Università di Lecce gli voleva dare una laurea honoris causa. Aveva previsto di premiarlo in autunno, ma non ha fatto in tempo. Vittorio è morto prima . E così il riconoscimento al protagonista di tante imprese teatrali , al ruolo fondamentale che Gassmann ha svolto negli ultimi cinquant'anni per la cultura italiana, non gli è stato dato , da vivo. Ma postumo servirebbe solo a rafforzare la teoria del marchese Caccavone , e cioè a niente.
Gassmann arcimeritava il riconoscimento, così come lo avrebbe meritato Carmelo Bene , invece hannno dato sette lauree honoris causa ad Alberto Sordi. Con tutto il rispetto per l'attore , l'uomo valeva decisamente poco ed era a distanze siderali da uomini di cultura quali erano Gassman e Bene . Vittorio meritava il riconoscimento non solo per l'attività in teatro, per il cinema, ma per tutto questo e altro ancora , comprese le sue opere letterarie ,alcune delle quali sono diventate un best-seller. Magari ci avrebbe riso su, ci avrebbe scherzato , con auto-ironia , con auto-sarcasmo, avrebbe recitato una delle sue poesie in endecasillabi:

6. Smettila, stai per essere vecchio /e ancora la tua faccia ti diverte:
tardare un poco allo specchio è tuttora /l'ora e il gioco a cui sei più solerte.
….
Guardati, dunque, guardone! /Eccola, bene a fuoco adesso,
quella tua faccia che l'età non tocca /se non d'un taglio agli angoli della bocca, /l'occhio guardingo di chi ha avuto successo;
a fuoco quel collo eretto e fiero /quando le ruote girano propizie,
e al primo allarme il vuoto, l'umor nero, /le vergognose mestizie.

Sputaci, nello specchio, vecchio cialtrone.

/Del vecchio vizio è ora di far senza: /prenditi a calci in culo, coglione!

Subito dopo la sua morte , disse Luigi Santoro, docente di storia del teatro e dello spettacolo e di cinema presso l'Università di Lecce: “Dare una laurea honoris causa a Gassman sarebbe stata una grande opportunità per quanti fanno teatro dalle nostre parti - e sono molti - e soprattutto per i nostri giovani studenti. Gassman era la bandiera , il protagonista assoluto del teatro italiano nel mondo. E aveva investito tutto sé stesso, la sua vita nell'attività di uomo del palcoscenico".

7.E anche Carmelo Bene , l’antico rivale , che l’avrebbe seguito qualche anno dopo nel regno delle ombre , pronunciò – dopo la morte di Gassman - una specie di discorso funebre sul futuro del teatro. Disse: “Tutto il teatro sarà in crisi finchè si continuerà a credere che il teatro sia un raduno mondano, dove andare ad assistere alle recite con gli attori imparruccati che imparano a memoria i testi di chissà chi. Il teatro come lo si intende normalmente è un loculo, ed io non ho mai fatto quel teatro. L’ invulnerabilità di Achille è un testo senza autore, perché non importa se c’è Omero o Kleist o Stazio. Io sto male quando lo eseguo , provo imbarazzo…è uno spettacolo scandaloso , com’è scandalosa ogni cosa divina . E’ il mio testamento, non solo artistico ma anche privato. Il resto è nulla, non ci sarà nient’altro. Se non il buio sul teatro”.

giovedì 18 settembre 2008

Ciaikovskij e la baronessa Von Meck






1. A chi gli diceva che era il più occidentale dei compositori russi , che i suoi modelli erano più italiani e francesi , e che nella sua musica non si avverte quella ricerca dell’anima del contadino russo , come avevano fatto Mussorgsky e gli altri nazionalisti , l’elegante , aristocratico , fine , bellissimo Piotr Illic Ciaikovskij , artista geniale , angosciato dal “ fato” , dominato da una sensibilità morbosa , che cercava di trasfigurare in un sinfonismo eroico, rispondeva di sentirsi russo “fin nel midollo delle ossa”. Ma era “ diverso” , come disse Stravinskij , un russo incline alla malinconia e ai sogni , che incarna la fine secolo con una morbida sensualità , a tratti femminea , posto nella condizione panica del predestinato , un russo che sposa il canto popolare , ma lo sottopone alle più sfrenate sollecitazioni , lo deforma , trascinando l’ascoltatore nell’ebbrezza della sensualità liricamente più accesa, fino a raggiungere effetti plateali.

2. Un musicista che crea strutture d’aria – dirà la baronessa Nadezda von Meck, sua viscerale estimatrice e mecenate , - ed esprime un diverso grado di malinconia , quella malinconia nostalgica che ci assale di sera, assieme a un’ondata di profumi e di ricordi, in cui l’oboe racconta il volo lirico della lontananza, con una dolcezza straziante che lenisce le ferite ancora aperte della nostra esistenza. Un musicista che – sebbene schiacciato dal fato - cerca la melodia rasserenante e chiara , cantata dai clarinetti e dai fagotti , assieme agli archi, che cerca la frase dell’eloquio caldo e partecipe , sino al ritorno scorciato con fiorite divagazioni “sognanti” , alla Ciaikovskij . Il suo è un altro modo di sognare , fantastico, fiabesco, che somiglia al Mendelssohn del “Sogno di una notte di mezza estate”, al Berlioz dello “Scherzo della regina di Mab”, ma che in realtà è solo suo.

3. Si scrissero tante lettere , oltre mille e trecento , un rapporto epistolario fitto , intenso, che avrebbe mandato in visibilio un Oscar Wilde, considerato che per tutta la vita Piotr e Nadezda non si incontrarono mai , preferendo frequentare i luoghi segnati e “ profumati “ dalla presenza dell’altro. Lo racconta , immaginosamente , il regista Ken Russel nel film-biografia di Ciaikovskij “L’altra faccia dell’amore”
Piotr dedicherà a Nadezda opere importanti come Eugene Oneghin e la Quarta Sinfonia , in cui viene ribadita la sua idea principale e ossessiva, il tema apocalittico del fato, “nefasta potenza – scrive a Nadezda - che si oppone alla conquista della nostra felicità e malignamente s’adopera perché il benessere e la pace non siano mai privi di nubi “. E il fato è rappresentato , in questo caso, dall’incalzante , ostinata fanfara di ottoni e fagotti in “fortissimo” che apre il lavoro: gesto sonoro e teatrale che tornerà per tutta la sinfonia, schiacciata, appunto, sotto il peso del fato”. Ma ci sono anche motivi popolareschi , melodici e rasserenanti: “Se non riesci a trovare dentro di te un’atmosfera di gioia, guardati intorno ed esci, Nadezda, va in mezzo alla gente, confonditi con loro. Ed ecco così un vorticoso , rutilante andamento di festa popolare , che ti trascina , ti avvolge, ti stordisce, ma alla fine – cara Nadezda , il fato tornerà a schiacciarti.”Durò quindici anni il loro rapporto e Ciaikovskij potè vivere agiatamente, senza alcuna preoccupazione di dover fare altro che scrivere musica, l’unica cosa che veramente lo interessasse. Nadiezda era la prima a cui Piotr sottoponeva le sue opere e andò in delirio – occultata fra il pubblico – alla prima del Concerto n. 1 , in cui quell’introduzione che ha quasi le dimensioni di un movimento a sé stante , sembra non finire mai e quel finale allegro con fuoco diviso tra la danza popolare e il balletto classico , tra il canto ucraino e le atmosfere da “Bella addormentata “, ti strappa le viscere.

4. Era bellissimo, alto, con gli occhi azzurri, e le donne della buona borghesia russa deliravano per lui, ma Piotr sembrava non degnarle affatto. Si sottraeva a tutte le occasioni mondane. Evitava di rimanere a lungo da solo con una delle splendide creature che lo attorniavano , lo ammiravano , lo desideravano , volevano essere da lui guardate, desiderate , amate. Ma non poteva. Cominciarono così a circolare dicerie insistenti sulla sua anormalità . Per tacitarle, Piotr fece la cosa peggiore, sposò nel 1877, all’età di trentasette anni, una delle sue ammiratrici, quella più insignificante , Antonina Miljukova, che sembrava essere la meno passionale , la meno esigente , la più quieta . Invece fu un’esperienza disastrosa, troncata dopo soli tre mesi, che gli generò una grave depressione nervosa. Numerosi viaggi gli fecero poi ritrovare l’equilibrio psichico e un’apparente serenità , ma tutto fu incrinato, al suo ritorno , dall’improvvisa fine della relazione con la Von Meck.

5. Per tre lustri Ciaikovskij era stato l’idolo di Nadiezda , che non aveva mai voluto vederlo, anzi , che aveva condizionato il suo munifico sussidio all’impegno formale da parte di Piotr di non cercar mai di conoscerla. Per quindici anni non si erano mai incontrati , anche se Nadiezda si sentiva al centro delle sue composizioni , era la regina del lago dei cigni , la piccola Clara che s’addormenta sotto l’albero di Natale e sogna lo Schiaccianoci, il re dei topi divenuto un meraviglioso principe, e poi una ballerina della danza dei fiori, o quella araba , o la danza della fata confetto; era in tutti quei capolavori di un arte difficile come il balletto che Ciaikovskij portò ai massimi livelli , grazie all’altezza della sua musica sinfonica. Per quindici anni non si erano mai incontrati , anche se la ricca vedova tutte le mattine andava a poggiare la sua testa sui divani e poltrone , o si sdraiava sui cuscini e sui letti dove Piotr aveva sostato, pensato, fumato , respirato , lasciando i suoi odori. Per quindici anni non si erano mai incontrati , ma una sera d’ottobre , uscendo dal teatro di Pietroburgo , non poterono evitare di farlo. E fu la fine. Fu Piotr che le andò incontrò per salutarla , aveva un disperato bisogno di vedere un volto amico, dopo la sua disgraziata esperienza matrimoniale , ma lei gli voltò le spalle sdegnata. E dal giorno dopo cessarono i sussidi e le lettere . Si disse che la sua benefattrice aveva avuto un rovescio finanziario, ma forse era solo una scusa. I loro rapporti cessarono del tutto, definitivamente .

6. Per Piotr fu un colpo tremendo e non solo perché veniva meno la sua principale fonte di reddito, ma anche perché Nadiezda era diventata una vecchia amica e ora gli mancava. Scoprì d’un tratto che non aveva amici e che in fondo era colpa sua , era un misantropo che passava il suo tempo libero a fare i solitari con le carte e a bere vodka , che gli procurava , però, terribili emicranie. Divenuto ormai famoso sia come musicista che come direttore d’orchestra , Piotr s’allontanò sempre più dalla Russia , e girò un po’ tutto il mondo, da Parigi a Londra, da Roma a New York , diresse concerti, ma sempre controvoglia e con una sorta d’angoscia, continuò a comporre fino agli ultimi giorni della sua vita . Le sue sei sinfonie, i concerti, i balletti, le ouverture , riproducono la sua storia personale , la sua tortura creatica , fatta di ultimi fuochi romantici , gli echi del grande romanticismo , l’estremo romanticismo che diviene ormai una finestra spalancata sul decadentismo: niente più eroismi, niente più certezze, tanto da dire molto umilmente di sé stesso:“Rimpiangere il passato e sperare nel futuro senza mai essere soddisfatto del presente: così ho passato la mia vita e la mia vita è stata una tragedia”, una tragedia omosessuale in musica , dirà qualcuno riferendosi alla sesta sinfonia , La patetica.E fu nove giorni dopo aver diretto questa sua ultima sinfonia , - che contrappone toni di gioia barbarica e di raffinata eleganza alla più cupa e conclusiva desolazione , una sorta di requiem struggente , con i suoi violini , forse quella più amata da posteri , la sinfonia che il musicista confessò di aver scritto solo per se stesso, - che Piotr Illic Ciaikovskij si tolse la vita .

7. Aveva 53 anni, e forse,un attimo prima dell’insano gesto rivide i suoi genitori (il padre , un ingegnere minerario profondo russo, collerico, tutto fuoco passione e vodka; la madre , timida, raffinata, sensibilissima, nevrotica gentildonna di origine francese), che lo avevano destinato alla carriera di magistrato, se stesso bambino di sei anni con i primi esercizi al pianoforte e i quaderni con le fiabe e le poesie in russo, tedesco e francese, scritte con la propria mano infantile. E poi l’università di Pietroburgo , dove si era laureato in giurisprudenza a soli vent’anni, il Ministero della Giustizia, dove aveva lavorato come funzionario di prima classe , il conservatorio di Pietroburgo , ove aveva studiato orchestrazione con Rubinstein , che aveva scoperto il suo talento ed era divenuto suo amico, e la prima volta che si trovò davanti ad un’orchestra , colto da un tale panico che dovette deporre la bacchetta:“Era come se la testa mi si svitasse, staccandosi dal collo”. E poi si rivide insegnante al conservatorio di Mosca , con pochi soldi in tasca e molte aspirazioni di grandezza, o lungo la Senna a inseguire il giovane bellissimo polacco , e gli incontri a Parigi con Liszt, Saint-Saens, Bizet e Massenet. E quello mancato con Wagner, che alla fine non amò. E la sua predilezione per Mozart , che considerava il vero Cristo della Musica.
Forse chiese a sé stesso quale sarebbe stato il suo posto nella storia della musica. “Tu sei stato il primo , caro Piotr, - gli disse Stravinskij, - ad aver gettato un ponte musicale fra oriente e occidente , fondendo le anime di questi due mondi. Alla sua morte lo Zar di tutte le Russie gli fece il più bell’elogio funerario: “Abbiamo molti duchi e baroni , - disse - ma avevamo un solo Ciaikovsky e ora non c’è più”.

Daniel Baremboin , Tristan e la Santina di Gallipoli




1. Mare amaro

Gli ultimi istanti della “Santina di Gallipoli”, al secolo Lucia Solidoro, portata sulla scena dall’attrice Anita Boellis, vengono accompagnati dalla musica della morte di Isotta nell’opera di Wagner “Tristano e Isotta”. Ed è una cosa
davvero struggente, che ti prende alle “frattaglie”come diceva ill mio amico loggionista Angelino Amendolagine da Terlizzi. Donne e uomini si commuovono fino alle lacrime, fino a star male. Ricordo, a Sannicola , quindici anni fa , presso il piccolo teatro del “Centro Insieme” , una signora , che dovette uscire dal teatro ed essere assistita da un medico ( il dottor Schirinzi, cardiologo) che si trovava lì da spettatore. A Gallipoli , una ragazza cominciò ad avere crisi isteriche per gli effetti combinatori della musica ( (l’amore stregone di De Falla) , della voce demoniaca fuori campo ( per la cronaca era la mia) , e della luce stroboscopica. Abbiamo dovuto tagliare la scena, per non creare una situazione di panico. Come qualcuno sa , la Santina muore guardando il mare , “l’Jonio che ha la forma del vento”, dalla finestra della sua casa di calce e salnitro di poveri pescatori , sita sulla Riviera Bartolomeo Diaz,
muore invocando il suo Dio crocifisso ( “Gesù mio, ti amo, ti amo…”) . Anche Isotta la bionda muore su un alto pianoro che guarda il mare , anche lei muore
d’amore davanti al mare amaro del Nord , ma non ha nessun Dio da invocare. Muore per il suo Tristano , muore adagiata sul corpo caro dell’amato, che l’ha preceduta nel lungo viaggio nella tenebra. Quella di Wagner non è l’Isotta cristiana della leggenda di Chretien dei Troyes , con il sentimento del peccato e della espiazione per un amore proibito, ma tutto il contrario. Nell’opera di Wagner – scrive Th. Mann - non c’è cielo né inferno , non c’è nessuna religione , non vi è Dio. Nessuno lo nomina , nessuno lo invoca , vi è soltanto una filosofia erotica, una metafisica atea, il mito cosmogonico nel quale il motivo del desiderio fa nascere il mondo”. E’ un poema filosofico d’amore e morte , dove Wagner , il rivoluzionario del teatro , il grande dilettante della musica ( non imparerà mai a suonare decentemente il pianoforte ) , l’anti-italiano , l’antisemita, a quel tempo innamorato folle della contessa Mathilde Wesendonck ( la sua Isotta) , più che mai nietzschiano e dominato dalla più alta concezione di sé , dice che è ora di cambiare musica , e trasmette il suo messaggio messianico: “ Solo nella morte, estrema rinuncia all’Io , l’amore trova la propria compiutezza”.
Il suo “Tristano e Isotta” è il massimo del romanticismo , l’infinito lunare , l’inconoscibile , la notte, l’amore assoluto, l’ebbrezza di annullarsi, la morte come momento erotico più alto e assoluto. “ Il nostro amore è ogni tempo / e oltre il tempo…Oh dolce morte/ fuga le nostre angosce/ oh morte d’amore/ tra le tue braccia / riscaldati da te / liberati dal pericolo di svegliarsi”.



2. Daniel Barenboim
Ma è anche la fine del romanticismo, dice Daniel Barenboim , grande pianista e grande direttore d’orchestra argentino , di origine ebraica , che ha preso la cittadinanza israeliana , e ora sta scompaginando tutti gli “equilibri” dell’odio atavico tra palestinesi ed ebrei , accettando anche la cittadinanza palestinese. «È un grande onore ricevere l’offerta di un passaporto», ha detto dopo un recital di piano dedicato a Beethoven , a Ramallah, città della Cisgiordania dove è attivo da qualche anno nel promuovere i contatti tra giovani musicisti arabi e israeliani. «Ho accettato anche perché credo che i destini del popolo israeliano e del popolo palestinese siano collegati in modo inestricabile Abbiamo la benedizione, o maledizione, di dover vivere assieme. E preferisco la prima delle due. Il fatto che un cittadino possa essere premiato col passaporto palestinese sia un segno che ciò è possibile…La mia convinzione è che tramite la musica noi possiamo imparare molte cose su noi stessi, sulla nostra società, sulla politica – in breve, sull´essere umano. La musica non come luogo di dorata ed edulcorata quiescenza, ma di fondamentali verità e quindi di ineludibili responsabilità. La musica è la cornice comune; è un linguaggio astratto di armonia. In musica nulla è indipendente. Richiede un perfetto equilibrio tra intelletto, emozione e temperamento. Quindi, tramite la musica possiamo immaginare un modello sociale alternativo, dove l'utopia e la praticità uniscono le forze, permettendoci di esprimere noi stessi liberamente e di ascoltare ciascuno le preoccupazioni dell'altro. Questo processo ci offre un importante insight sul modo attraverso il quale il mondo può e deve funzionare, e talvolta in effetti funziona».

3. Wagner
Ma oggi, purtroppo, non si sente altro che sirene o spari , e la tristezza che siamo diventati, dice ancora Barenboim , grande artista , ma anche grande uomo , un sessantenne alto , grosso, pieno di energia , di passione, di umanità, che parla benissimo l’italiano , è veloce, è perfetto , è cantilenante , come i sudamericani, è tutto un bzzz bzz da insetto ronzante , - oggi la musica che si ascolta per le strade è un insulto all’orecchio…e l’orecchio è l’organo più intelligente del corpo umano…l’orecchio registra la memoria …bisogna educare a sentire…invece oggi è tutto visuale …bzz bzz , Bar è uno che ha diretto il Tristano un centinaio di volte, opera con cui il 7 dicembre scorso è stata inaugurata l’apertura della stagione della Scala di Milano, di cui è direttore. Gli mettono il microfono sotto il naso. “Maestro , è vero che lei aveva sempre sognato fin da bambino di dirigere il Tristano alla Scala di
Milano?” Assolutamente no. Io veramente sognavo di fare il marinaio , o il pescatore , oppure il presidente degli Stati Uniti, a seconda di come mi alzavo dal letto al mattino. Lei sa come sono fatti i bambini… Poi un giorno mi sveglio , mi alzo e dico …bzzz…bzzz…bzzz , oggi voglio fare il musicista , voglio dirigere il Don Giovanni di Mozart , o magari l’Otello di Verdi , o la Carmen di Bizet . E tante altre opere ancora . Ma al Tristano non ci avevo mai pensato. Non solo quando ho cominciato a suonare nelle orchestre ( avevo appena sette anni ) , ma anche dopo , da direttore , non pensavo al Tristano, anche perché onestamente non lo conoscevo affatto. Sa, noi argentini conosciamo solo i tanghi e le mazurche, bzz bzz. Ma un giorno che suonavo il pianoforte nella buca con Wilhelm Furtwängler, lui mi fa , Senti Bar perché non vieni con me che ti faccio suonare il Don Giovanni, e così ti levi la voglia. E così mi rimetto nella buca, seduto al clavicembalo e mi faccio una ventina d’anni di Mozart. Ora pero fai il Tristano , mi disse il mio maestro e mentore Furtwängler . Ed io, no, Furt, ora c’è Verdi , c’è l’Otello , ma devo ammettere che alla fine non è che mi entusiasmasse molto fare l’Otello. Ho subito invece il fascino di Anton Bruckner e me lo sono fatto tutto, ma proprio tutto. Mi piaceva assai uno come lui , un romantico convinto. Mi piaceva conoscerlo musicalmente , ma mi resi conto che non aveva praticamente scritto nulla per pianoforte , e io avevo bisogno di pezzi forte al piano, allora mi sono buttato a capofitto su Lizst , e l’ho suonato come un pazzo, e si sa che chi suona Liszt stabilisce un vincolo, un contatto con Wagner , anche se non mi spiego come facesse un grande come Lizst a sopportare l’arroganza e l’atteggiamento da superuomo di un genero come Wagner , che stava sempre a rimirare il proprio genio, come Narciso la sua immagine, sempre pronto a servirsi con cinismo dei propri ammiratori per ottenere prestiti in danaro e favori di ogni genere . Lui – diceva - era venuto al mondo per una missione da compiere. Doveva avere splendore, bellezza luce , ricchezza, e il mondo gli doveva tutto ciò di cui aveva bisogno. “Io non posso vivere con una miserabile elemosina da organista come il vostro Bach”.

Ma se l’uomo è discutibile , l’artista è davvero grande, mostruoso , titanico , inventore della nuova opera lirica , del grande teatro , dell’opera d’arte totale, colui che più di altri ha segnato un’epoca e ha costituito un punto di partenza per le ricerche successive..


4. Il Tristano
Poi forse venne il tempo in cui ero pronto anche per il Tristano, ma mi trovavo a Parigi e ritenni che fosse il caso di omaggiare Hector Berlioz , anche lui è
uno che ruota intorno a Wagner. Arriviamo così al 1977 , ho trentaquattro anni e mi trovo a Berlino Ovest per dirigere la Carmen, io adoravo la Carmen , soprattutto con la regia di Ponnelle. Si doveva fare la Carmen con dialoghi cantati secondo l’originale , ma la cantante francese s’ammalò e non ce n’era un’altra . Di cantanti che conoscono la lingua italiana ne trovi quante ne vuoi, di lingua tedesca ne trovi ancora , ma che cantino il francese trovi solo i francesi. Ponnelle era uno che comunque sapeva sempre trovare il rimedio, e mi disse, non ti preoccupare Bar, ho anche la versione in tedesco , e una Carmen tedesca la troviamo di certo. Ma la produzione non so perché decise di cancellare il progetto, con gran discorno di Ponnelle che se ne andò superincazzato. Non c’erano altri titoli liberi in programma se non il Tristano . Ma chi lo dirige? , chiesi a Palmhorststein , che aveva diretto Wagner un miliardo di volte. Lo fai tu, vero? . E lui di rimando, No , fallo tu, Bar, è una buona occasione, disse, e mi sembrò che avesse un risolino ironico sulle labbra. Accettati la sfida. Minchia!, dissi dentro di me , questa è una provocazione bella e buona. E fu così che ebbe inizio la mia vera e propria carriera di direttore d’orchestra, fino allora occasionale ( facevo più il pianista) con il mio primo Tristano, a Berlino , nella madre patria. Poi lo feci anche a Bayreuth , nel 1981, e fui il primo direttore ebreo a farlo lì, nel tempio di Wagner. Ma poi feci anche di peggio. Portai la musica dell’antisemita Wagner in Israele , e mi feci un mucchio di nemici. Sai quante pietre da parte dei buoni ebrei!, metaforiche e no. Ma grazie a Dio ho avuto la fortuna di prendere
coscienza presto che fare musica non è un'affermazione dell'essere ma del divenire…Dicevamo del Tristano, vero? …Con la regia di Gotz ne ho fatti tanti , uno , due , sessanta , ottanta bzzz bzzz . Venticinque anni di Tristano e Isotta in ogni parte del mondo …bzzz…bzzz…. Tanti fans , dei veri e propri adoratori del Tristano, ma anche qualche nemico…Quando suoni Wagner è così….Del resto se nella vita non hai nemici significa che hai sbagliato tutto, significa che non hai fatto niente. E un’altra cosa vuol dire Tristano , che se uno vuole bene veramente , è disposto a morire per la persona amata. Ma il Tristano è anche altre cose. Questa musica di Wagner ha uno slancio sensuale, direi sessuale, in sé. Ascolti la musica ed è come se ti facessi una scopata, è un vera e propria sublimazione del coito. Per questo è inutile caricarla di pathos. E così ha fatto Patrice Chereau , che tiene una classe unica , è pulito e senza orpelli , fa le cose semplici, le cose essenziali, ha capito che Tristano non è solo, quando il suo re Marke lo manda con il vascello a prendere Isotta , principessa d’Irlanda, perché divenga sua sposa e regina di Cornovaglia , come pegno del trattato di riconciliazione fra la Cornovaglia e l’Irlanda. Non c’è solo l’equipaggio con lui , ma c’è tutto il pubblico che fa il viaggio con Tristano , che partecipa alla vicenda , che è storia pubblica, a cielo aperto, sul mare , come sempre capita quando si viaggia su una nave e non ci sono dei
camerini singoli. La bella Isotta dalle trecce bionde , la maga Isotta , che ha già curato e guarito Tristano sotto mentite spoglie , nonostante questi avesse ucciso il suo fidanzato Morold , è ancora innamorata del suo eroico “traditore” , e la loro storia d’amore è irreversibile e tragica fin dalle prime battute. Ora dal vascello si vedono le coste della Cornovaglia , e Isotta è furente , maledice Tristano e tutti i suoi avi. (“Razza bastarda !”), e ha ordinato segretamente alla sua ancella Brangane di aprire il filtro magico della morte e versarlo nel vino, che offrirà a Tristano. Lo invita a bere nella coppa ( “Brinda con me , amato traditore!”) ma prima le deve chiedere perdono. E Tristano non si lascia pregare ( “Mia regina e donna adorata!”) . Il torneo , la schermaglia tra i due innamorati si apre già prima di bere entrambi nella stessa coppa. Musica e parole li legano pericolosamente. E l’ancella Brangane non ha versato il filtro di morte, ma quello d’amore. Restano in muto abbraccio. La nave arriva in porto. Suono di trombe. Urrah! Urrah per il re Marke!, gridano le voci, ma tutti sono attenti ai due innamorati fatali : “I nostri cuori traboccano d’ebbrezza/ i nostri sensi fremono di gioia/ fiore rigoglioso di ardente desiderio/ suprema fiamma di struggimento amoroso/…meravigliosa estasi d’amore”
Una delizia piena di perfidia, una gioia votata alla menzogna, conclude Tristano, mentre l’atto si chiude con “Gloria al re!”, che è già tragicamente becco ancora prima di conoscere la sua sposa. Da quel momento della bevanda
o filtro d’amore è tutto un annegare, affondare, nella catastrofe tragica del mito , fino al canto finale di Isotta accanto al cadavere di Tristano , con lievi invisibili affinità leopardiane dell’infinito : annegare nell’immensità , “dolcezza suprema”. E’ l’ultima parola cantata da Isotta che cade . come trasfigurata , sul cadavere di Tristano , con re Marke che sopraggiunge e benedice i cadaveri. E il sipario che cala lentamente. Voluttà , piacere, anche gioia, anche sensualità trasfigurata , ma soprattutto la voluttà intellettuale che filtra attraverso Schopenahuer e i lampi di poesia, è quello il piacere supremo di Wagner , veder coincidere, come in Novalis , la bellezza e la verità…e il Nulla
«L'impossibile mi ha sempre attratto più del difficile, perché l'impossibile desta non solo un'impressione di avventura, ma un'impressione di attività che trovo altamente attraente. Ha il vantaggio aggiunto che il fallimento non solo è tollerato ma anche atteso».
Anche per Tristano quest’amore era impossibile . E così anche nel terzo atto Tristano non può essere solo, sotto un tiglio , sull’altura rocciosa affacciata sul mare , a morire. Ha intorno a sé tutta la gente possibile, gli stessi spettatori . E lui lo sa. Sta morendo per amore , ed è la morte perfetta . Nel duello contro Von Melot si e lasciato volutamente ferire , ed ora canta la sua totale appartenenza alla notte , attende Isotta . C’è un pastore, di vedetta, che scruta l’orizzonte in cerca della nave che porti la salvifica giovane . Vicino a lui c’è il fedele amico Kurwenal , che gli che dice, Tristano hai fatto la più dolce follia del mondo. Guarda cosa hai fatto di te…Un’opera morta. E Tristano, di rimando, Non è il massimo possibile per un mortale, morire d’amore?

5. Musica e morte.
Maestro, ma il Tristano è solo una storia d’amore?
No, è una storia di musica e morte , soprattutto , e la morte si fonda sull’amore , anche sull’amore . Ma la morte è centrale in quest’opera , la morte influenza tutto, è come nel don Giovanni di Mozart , che inizia con una morte che segna poi tutta l’opera. La musica esce dal silenzio e va nel silenzio, come diceva Schopenhauer , tanto amato da Wagner, il grande genio rivoluzionario dell’arte che ha trovato la musica in età tardissima , pensi che fino a diciotto anni non conosceva una nota , grazie a Beethoven… Ma la musica ha sempre qualcosa in sé di sovversivo, che ti può incantare e travolgere….
Perchè i personaggi di Wagner hanno queste ferite, come Tristano, ferite
che non guariscono mai?
E’ ovvio che le ferite non sono quelle della carne , ma soprattutto dell’anima , ma sono ferite anche delle civiltà , sono ferite della musica stessa. Dopo Tristano la musica non è più la stessa. Tristano è un’opera chiave per lo sviluppo della musica . Ci sono compositori grandi , dalla scrittura e dalla compositura perfetta, come ad esempio Mendelssohn , col suo ottetto , ma anche col concerto di violino, con le romanze senza parole, tutte cose eccezionali, che però non hanno cambiato il corso della musica . Anche senza questi capolavori la musica si sarebbe sviluppata lo stesso. Poi ci sono altri compositori magari meno perfetti di Mendelssohn , prendi Berlioz , o Lizst , ad esempio, compositori che non hanno lo stesso grado di arte , ma hanno radicalmente fatto svoltare il mondo.

Dopo di loro, solo tre o quattro hanno raggiunto l’apice , sommando la perfezione della scrittura con l’importanza della sostanza. Ma Bach e Wagner , loro hanno incarnato e insieme la conclusione del loro tempo simultaneamente hanno mostrato il cammino del futuro. Ma fra tutte le creature di Wagner , il Tristano è il pezzo chiave , perché qui il cromatismo è portato al massimo e il cromatismo significa ambiguità , per questo l’opera “Tristano e Isotta” , è perfetta , perché è pura e totale ambiguità , sia dei
personaggi che della musica . Ed è per questo che la sentiamo così parte di noi e del nostro tempo.