mercoledì 26 novembre 2008

Chopin George Sand e la cioccolata



1. Il poeta tedesco Heinrich Heine , che ormai viveva stabilmente a Parigi “ travestito” da improbabile giornalista , non si perdeva neppure uno dei concerti di Chopin. Anzi, quando il musicista polacco suonava , con quel suo tocco inarrivabile , sfumato e dinamico , totalmente nuovo, intimo , vellutato, squisitamente romantico , Harry andava letteralmente in trance. E si vedeva, tant’è che la marchesa Minchiewicz gli disse sottovoce: “ Chopin è davvero un virtuoso, lo fa cantare il pianoforte. Ci manda in estasi”. "Non è un virtuoso” , - replico con disprezzo Harry - “ è un poeta...ed è per questo che nulla eguaglia il godimento che ci offre quando siede al suo pianoforte e improvvisa , allora egli non è né polacco né francese né tedesco : egli tradisce una nascita ben più illustre , egli proviene della terre di Mozart , di Raffaello , di Goethe : la sua vera patria è il regno incantato della poesia".
"Come la vostra , del resto", - disse con malagrazia , intromettendosi nella conversazione , George Sand , vestita con i soliti stivaloni da amazzone , i calzoni cremisi e il sigaro fra le labbra. " Voi geni della poesia ”, - proseguì col solito tono ironico - “ vi atteggiate a grandi uomini, ma di uomo credo ci sia rimasto ben poco in voi...”, concluse con voluta malizia.
“ Che intendete dire, Signora?”, si rinzelò Heine, che era bellissimo, un vero e proprio efebo dagli occhi di fuoco e dai capelli nerissimi e duri come l’acciaio: “ Voglio dire questo, Signor Heine. Che sono ormai sette anni che, con lui, il poeta della musica, il genio del pianoforte, che fa tutti vibrare , per me non vibra più nulla… E non solo con lui, ahimè,” - sospirò George Sand - “ devo dire la stessa cosa anche di altri grandi pensatori e artisti che frequento assiduamente in tutti i salotti di Parigi ... Io praticamente , da sette anni, vivo come una vergine”.

2.“Voi come una vergine ?”, disse meravigliato Enrico. ” Francamente sono sorpreso, Aurore… Ma voi state scherzando, vero?”
“Nient’affatto…Guardatemi, Enrico!…Sono invecchiata anzitempo e anche senza sforzo e sacrificio , a dirvi la verità, tanto ero stanca delle passioni e disillusa , e senza rimedio... So che molti di voi mi accusano: alcuni di averlo distrutto, il vostro grande , divino Chopin ....Ma sentite , sentite come suona!, da semidio, come si fa a dire che io l'ho distrutto?....E altri mi accusano di averlo portato alla disperazione con le mie sfuriate di gelosia.... A voi sembro una donna gelosa?…”, disse George Sand guardandolo in un certo modo.
“Beh…direi di no.”, disse Enrico.
“In realtà è vero che sono gelosa…sono una donna passionale…. E’ vero che l’ho portato alla disperazione….ma questo stato , come potete vedere , questo giova alla sua arte, più è disperato e più Federico compone e suona da dio....”
“ Sì, suona proprio da dio. Egli è un talento mostruoso , proprio perché è tutto intento a coltivare la disperazione e la passione per voi”, disse Enrico e la guardò con intenzione. Ma lei rideva sardonicamente. “…E tuttavia “ , - continuò - “ non perde mai di vista la calma e la misura , senza cui non esiste un vero sentimento musicale…Federico è il re della poesia musicale e sentimentale… Guardatelo, egli non suona, egli canta, dipinge , danza, fa voli….”, disse con grande partecipazione Heine , mentre lei gli sbuffava boccate di fumo e saliva. . “ Signora, io vi dico questo e lo sottoscrivo : Thalberg è grande, Liszt è Unico, ma Chopin rimane per me il solo uomo che metterei al di sopra di tutti…”
“ Sarà come voi dite , del resto non discuto la sua grandezza di artista, è sotto gli occhi di tutti…ma è sull’uomo che ho da ridire , ma forse è meglio tacere…”
“ Signora , non permetto a nessuno di offendere il mio amico Federico, neanche a voi...” disse indignato Heine.

3.Intanto Chopin continuava a suonare , ora rarefatto e struggente nella “ Berceuse” trattenuta in una culla di dolcezza , tal altro come smaterializzato nei “Notturni”, o visionario nelle “Polacche” staccate con forza ardimentosa, laminato negli “ Studi”, frugati velocemente negli interstizi tecnici e subito rilanciati su dinamiche davvero immaginose nel ricco ventaglio di sfumature , con un timbro che era costantemente nuovo , fantasioso , una autentica invenzione o rivelazione del momento , un veicolo emotivo pieno di voli di fiumi e di colori…Ma alla fine anche il timido Federico non ne potè più e smise di suonare. Si alzò dallo sgabello, alto, magrissimo , pallidissimo in viso come la morte, si avvicinò a George Sand e a bassa voce gridò: “ Aurora, ora basta, vi proibisco di torturarmi così…Voi non siete gentile…Voi…mi avete rotto i corbelli!"

E se ne andò dalla sala di corsa , furente , lasciando tutti costernati.
Allora George Sand gettò il sigaro in terra , guardò Heine , che aveva udito tutto e gli disse incollerita , ma a viso asciutto: " Lo avete sentito?.. Lo vedete...lo vedete, come si comporta ?… come un bambino….Lui si lamenta con me del fatto che io lo avrei ucciso con la privazione, mentre io avrei voluto ucciderlo agendo diversamente....”. Aveva gli occhi nerissimi e fiammeggianti, l’amazzone Aurora , il volto pallidissimo e il labbro inferiore carnoso e tremante d’ira ...
" Aurora , voi mi fate impazzire “ - gli sussurrò appena Heine – siete una vera puttana!"

4.E da quel momento George Sand passò dal suo letto vuoto a quello di Heine, che intanto si era lasciato con la sua Matilde , che si era fatta troppo insistente sul tema del matrimonio. Per Geroge Sand era un’altra preda da collezione dopo i tempestosi amori con Mérimée , Musset, Lizst , Mickiewicz, il tenore Nourrit che , da lei lasciato , si era suicidato a Napoli. E poi c’erano nel salotto parigino in lista d’attesa il vecchio Lamartine e via via Michelet , Saint Beuve , Leroux, Sue, Delacroix …
Chopin l’aveva conosciuto una sera in cui si era vestita con i colori della Polonia ( era solo una coincidenza folkloristica ?) e non l’aveva certamente conquistato subito. Anzi, il giovanissimo Federico era un timido moralista e guardava con sospetto a quella donna-maschio che dava del tu agli uomini, sbandierando le sue idee socialiste; che fumava ostentatamente il sigaro in pubblico, raccontando dei suoi amanti illustri . “ Folle di uomini maleducati l’adorano in ginocchio, tra sbuffi di tabacco e getti di saliva!” , annotò con disgusto sul suo diario la poetessa Elizabeth Barrett Browning.
Ma Chopin , - con lei tutta imbevuta della causa polacca ; con lei che vanta lontane parentele con i re di Polonia ; con lei che si appoggia al pianoforte in un certo modo e lo inonda con i suoi sguardi brucianti , - al terzo incontro è già preso dai suoi lacci , è divenuto sua preda.

5.“ Mi guardava profondamente negli occhi “, dirà. “ Era musica un po’ triste in cui c’erano tutte le leggende del Danubio. Il mio cuore danzava con lei, il mio cuore era al mio paese”.
Certo, c’è anche la componente patriottico-sentimentale , ma ormai Federico è nella tela di ragno. Balzac , il confidente della Sand , che dava molto ai nervi a Chopin, dirà che Aurore scrisse a Federico una lettera di cinquemila parole ed esercitò tutte le seduzioni possibili per farlo finalmente suo.
E furono oltre dieci anni di convivenza burrascosa e intensa ( lui era un ragazzo di ventisei anni , ma viveva da vecchio, era sempre vissuto da vecchio , lei aveva superato i trentadue , ma era piena di energia e vitalità e focosa come una “pasionaria” ) , ma tutto sommato quel “ menage” complesso e tormentato , da cui scaturì un epistolario infinito , fu provvidenziale per la salute creativa musicale di Chopin . Il loro fu un vero romanzo , un drammone d’epoca tra odori di melograni aloe aranci e limoni e le piogge interminabili di Majorca ; tra le rocce , il mare, la certosa abbandonata , il vecchio cimitero teutonico e i primi sbocchi di sangue che tormentarono il povero Federico ; tra le aquile che volavano sulle loro teste e i cataplasmi , tra il cielo turchese il mare di lapislazzuli e le strazianti ballate… Il vero amore che ti prende anima e corpo, che ti brucia dentro e sulla pelle , durò poco, sei mesi, non di più. Poi rimasero insieme soprattutto come amici, avevano camere separate, facevano vita “casta”, ma le loro liti divennero proverbiali e se le passavano di albergo in albergo. Era soprattutto lei “che portava i pantaloni” e vessava il musicista in mille modi…Ma in fondo rimase sempre dell’affetto sincero fra di loro e l’atteggiamento di Amandine –Lucie Aurore , questo il nome completo , era più che altro di maniera, faceva parte del ruolo del suo personaggio . La cosa continuò fino a quel giorno in cui Chopin aveva interrotto il concerto provocando scandalo fra i convenuti ed Heine era caduto al laccio.

6. Quello che avvenne in seguito non lo conosciamo. Sappiamo che successivamente Heine tornò dalla sua Matilde e la sposò, facendo una vita piuttosto tormentata . Sappiamo che Aurore, ormai ultraquarantacinquenne , ricca di onori, di fama e di quattrini, si ritirò a vivere in campagna con i figli e divenne religiosissima , non volle mai più mettere piede nel mondo dorato di Parigi.
Sappiamo pure che di lì a poco Chopin partirà per l’Inghilterra , su esplicito invito di una sua giovanissima ammiratrice e allieva , Jane Stirling , che si era segretamente innamorata di lui. Ma intanto, subito dopo il fatto, Chopin sembrava contentissimo delle corna che George Sand gli faceva pubblicamente . Era come sollevato e ogni volta che la incontrava ( e non era infrequente , alloggiavano nello stesso albergo) le diceva sorridente " State veramente bene, Aurora, non siete mai stata così bella". E lei , un pochino costernata , con qualche rimorso , rispondeva: " Anche voi state bene…Ma... Federico..." diceva Aurora...."Voi sapete?...."
“So, so. ma vi perdono di cuore, Aurora. Continuate pure così... Però una cosa sola vi chiedo...”
"Dite, dite, Federico"
" Se non vi secca troppo, neh!..."
"Dite, dite, Federico..."

7. " Al mattino...mi portereste quella cioccolata calda calda che sapete far così bene?"
" ...cioccolata, Federico?..."
" Sì, quella che solo voi sapete fare così...bene...ma fate con comodo, neh!"
" E va bene", disse George Sand, un pochino delusa.
" Grazie, Aurora. Voi siete proprio un'amica".
E fu così che uno sbandierato grande amore si trasformò in una affettuosa amicizia.
Nell’ultima sua lettera, datata luglio 1847, George Sand scrive a Chopin, afflitto da una tubercolosi galoppante: “ Addio, amico mio, possiate guarire rapidamente da tutti i vostri mali ed ringrazierò Iddio di questo vostro bizzarro modo di liquidare nove anni di amicizia esclusiva. Datemi ogni tanto vostre notizie . E’ inutile ormai tornare a parlare del resto”
Non si videro mai più, ne si scrissero. Federico Chopin morirà a Parigi due anni dopo, povero e straziato dalla tubercolosi . Il 17 ottobre 1849 , poche ore prima di morire, tracciò di suo pugno queste ultime parole sul taccuino che la sorella Luisa custodì , fino alla sua morte, come una reliquia : “Quando questa terra mi soffocherà , vi scongiuro di far aprire il mio corpo, per non essere sepolto vivo”. Gli furono tributate grandiose onoranze funebri e fu sepolto a Parigi, accanto a Bellini e Cherubini, musicisti che Federico amava moltissimo. Successivamente il suo cuore fu portato in Polonia, nella chiesa di Santa Croce a Varsavia.

8.Aurore , nel frattempo , dopo la grande delusione del fallimento della rivoluzione del 1848, si era già ritirata nella sua casa di campagna , a Nohant, dove visse rusticanamente il resto dei suoi giorni scrivendo una serie di romanzi “campestri” tra cui “Francesco il trovatello”, “La piccola Fadette”, “La Palude del Diavolo” e la storia della sua vita in cui parla soprattutto dei suoi amori con de Musset, non certamente con Chopin. Si spense serenamente quasi trent’anni dopo la morte di Federico. Era l’inizio della primavera del 1876 , il ciliegio del suo giardino era in fiore ed ella aveva compiuto appena settantadue anni. Era una bella età, a quel tempo

Il Malladrone di Gallipoli e D'Annunzio


1. Chiese di Gallipoli
Gradita la voce dell’acqua a chi è oppresso da nere sabbie , gradito il ricordo della riviera Nazario Sauro , dov’è la chiesa di San Francesco d’Assisi di Gallipoli , la chiesa del “Malladrone” , curva di luce nel tramonto, una delle tre sorelle chiese , a pochi passi l’una dall’altra , ciascuna con la loro livrea di carparo, miele e oro scuro . Le Chiese di Gallipoli da sempre guardano in faccia il mare , poggiano sulle dodici colonne che sorreggono l’isola e guardano costantemente all’orizzonte per accompagnare i propri figli in mare , per sorvegliare il viaggio breve dei pescatori , o il lungo viaggio degli emigranti e dei guerrieri, viaggi dell’incertezza, della fralezza, della caducità dell’uomo , ma anche viaggi di una promessa di pace, benessere prosperità, viaggi della speranza , e del bisogno di stabilità, serenità , terraferma.
Sono chiese , quelle di Gallipoli, come antiche fanciulle , ricche di fascino e suggestioni , templi antichi di Atena, Afrodite, Era, che - scrive Antonio Errico “ custodiscono il senso del radicamento ad uno scoglio e della proiezione verso il mare, lo stupore per l’oltre “
E di fronte a loro, a meno di un miglio marino , ecco un altro mistero , l’Isola de gabbiani , Sant’Andrea, indecifrata e sola nella vaga notte di luna , ch’accende ancora una preghiera che sa di salnitro e speranza.

2. Don Armando Manno
Il 4 ottobre 2005 . festa di San Francesco, ricordo il vecchio Don Armando , “papa Mazzola”, celebrare messa, con le mani tremanti ( ormai era in pensione da diversi anni ) ,in quella chiesa che l’aveva visto parroco per tanti anni. E poi in sacrestia a ricordare le maratone con don Tonino Bello, il “Caso Gesù” e la “ Santina di Gallipoli” , al secolo Lucia Solidoro , che , insieme, ( fu lui a
fornirmi il materiale per il “dramma”) avevamo tentato di far rivivere nel cuore e nelle menti della gente gallipolina portandola sulla scena, . C’è ancora la grande fotografia della “pulzella” di Gallipoli vestita di nero , con le varie reliquie , e un fascio incredibile di lettere ( centinaia e centinaia di “grazie ricevute”) . E subito dopo , eccoci presso il cappellone del Santo Sepolcro , detto degli spagnoli , fatto erigere dal castellano di Gallipoli , Don Giuseppe
De La Cueva , in onore dei soldati spagnoli morti in Gallipoli. E’ lì che ci attende l’altro grande personaggio della chiesa, il “Malladrone, la statua lignea crocifissa ormai famosa in tutto il mondo , capolavoro di un frate gallipono, Vespasiano Genuino , artista religioso del XVII secolo che aveva un grande arco puro nella mente e mani piene d’amore e d’umanità. La “Santina” sembra di nuovo dimenticata , caduta nell’oblìo , mentre il Malladrone accresce la propria famigerata popolarità, è divenuto uno delle meraviglie di Gallipoli ( basta leggere i depliant degli itinerari turistici : “Venite nella città bella, ad ammirare la cattedrale , il mercato del pesce e il Malladrone” ).

3. Chi è il Malladrone?
E’ uno che non si pentì dei suoi misfatti, nonostante avesse vicino a sé , sul Golgota, “coast the coast” , o meglio croce a croce , Cristo in persona.. Il Messia , che aveva invocato il perdono per i suoi nemici , che aveva predicato l’amore per tutta la vita, anche l’amore impossibile – “ ama i tuoi nemici… e se ti schiaffeggiano su una guancia, tu porgi anche l’altra” , il più assurdo e il più splendido imperativo categorico del cristianesimo – lo perdonò ugualmente, non poteva non perdonarlo ( io credo che Cristo abbia perdonato anche il vecchio Giuda , dice il protagonista del “Giovane Holden”) , ma i gallipolini no, non lo perdonarono. Anzi esso, la sua statua fu obiettivo eterno dell’odio un po’ ingenuo e vendicativo del popolo – scrive Oliviero Cataldini - Il popolino sfogava tutte le proprie miserie e sofferenze, sputi, parolacce, sull’orrida maschera del malladrone : “Puh... ci si bruttu ci te cascia ‘utta. . .!ci te vidia de notte, largu sia,!cu sta facce rrignata e cusì brutta,! sarà ca me cacava pe’ la via...!Cazza! ca stringi li tienti, e mosci tutta! la raggia ci de l’anima te ‘ssia... “.
“Da bambini ci spaventavamo davvero nell'ascoltare la leggenda de “lu Mallatrone”, - scrive Giorgio Barba - , quella statua in legno coi vestiti sempre strappati nella Chiesa di San Francesco d'Assisi , raffigurante Misma, il cattivo ladrone, che rappresenta il male della terra”. E molti poeti lo hanno cantato, a partire dall’autore dei versi citati di Francesco Saverio Buccarella a Luigi Sansò, da Patitari ad Aldino De Vittorio: “ Cu l’occhi tutti russi e spinchiulisciati,/ cu la ucca ca mmoscia strinti li tienti/ ca te la raggia su tutti nvelinati/ cu li capiddri longhi , tutti pandenti,/ te la croce , te coste a quiddra te Cristu,/ pende lu mmalatrone tuttu strazzatu,/ l’ommu tanto fiaccu , marvaggiu e tristu,/ ca pe tanti seculi è stato sputatu.
E Aldino ci mette una nota satirica e amara rapportata ai nostri tempi , come tutti i poeti che fanno in qualche modo anche cronaca di costume del loro tempo: “.Osci iddru se vite tuttu cuntentu, /pe stu mundu ca s’have menzu cangiatu,/ cu tantu furtu , omicitiu e rapimentu/ nu è cchiui sulu , mmalatrone tiscraziatu.”


4 Patipaticchia.
Mentre un altro personaggio assai odiato nel Salento , in particolare dai galatinesi , il flagellatore di Cristo , detto “Patipaticchia” , alto, poderoso, folta capigliatura ondulata, barba virile, struttura corporea solida, gambe divaricate per il perfetto equilibrio di chi si appresta a colpire, sguardo fermo ( la statua era in cartapesta, e non mancava di un suo singolare fascino e attrazione ) col tempo se ne è andato a finire nei ripostigli della chiesa dell’Addolorata , dove veniva esposto nell’arco di tempo dedicato alla visita dei sepolcri alla furia del popolo (contro la statua si scagliava la collera di uomini, donne, bambini, ficcavano nelle sue “carni” spilli, chiodi e quant'altro poteva dare l'immagine concreta, fisica e un poco truculenta del dolore, della sofferenza, della ingenua vendetta popolare), ed oggi è stato praticamente dimenticato da tutti , la statua lignea del cattivo ladrone continua ad affascinare e spaventare grandi e bambini nella sua di orrida bellezza ,nella sua grandiosità terrificante , e il suo ghigno continua a campeggiare dall’alto della croce nella cappella degli spagnoli , dov’è sepolto il castellano De La Cueva insieme ad altri personaggi illustri del tempo, come Matteo Calò, che partecipò alla battaglia di Lepanto , e vari scrittori e letterati che onorarono la città jonica. Ma l’unica vera “star” , da ormai oltre due secoli e mezzo , continua ad essere lui, e la cappella è stata ribattezzata , in suo onore, cappella del “Malladrone” ; frotte di comitive turistiche in ogni stagione dell’anno si portano presso la statua lignea e tempestano di flashes le scure umide ombre della chiesa del poverello di Assisi , quella maschera che è insieme beffarda e disperata , iraconda e grandiosa. “Vedi, indica con la mano Don Armando , quegli occhi rossi , i denti avvelenati , i vestiti stracciati , la rabbia ch’esce da tutta la figura , la rabbia dei senza dio …Vedi , sotto la vecchia mano giudea crocifissa e l’arco della cappella che sfiora trasversalmente quella corda di luce tesa? Ecco, ogni volta che guardi quest’immagine , muore un suono , e l’uomo non rammenta che già un’altra volta fece la stessa cosa, che tradì e non si pentì, e lo farà ancora chissà quante altre volte, fino alla sera ultima che guarderà.”.
Insomma , col suo rifiuto nel pentirsi a Cristo ( anzi lo derise: se sei veramente il Cristo liberati dai chiodi e scendi dalla croce) , si è guadagnato una grande famigerata notorietà , più lui che non il buon ladrone che si pentì e andò in paradiso. E ora eccolo lì, in croce, a guardarci col suo sorriso beffardo, un sorriso che inquieta e ridesta antiche paure , antichi fantasmi del medioevo.

5. Gabriele D’Annunzio
Però bisogna andare lì, nella chiesa di San Francesco , nella cappella a lui riservata, sotto la sua croce e guardare il suo ghigno nella penombra, per capire tutto ciò. Il Malladrone lo si può capire e ammirare solo col vederlo da vicino, e magari al lume di candela , come usava un tempo e come capitò una sera d’estate a Gabriele Dannunzio , il vate, approdato nel porto di Gallipoli il 28 luglio 1895. Scrisse sul suo taccuino di bordo: “Scendiamo a terra per fare qualche spesa. Alcuni gallipolini ci offrono di mostrarci il “mal ladrone “. Sembra che questo crocifisso sia il personaggio più importante della città”. Era una sera festaiola , come sempre a Gallipoli d’estate, e c’era un “gran frastuono di banda musicale, di gran cassa, di campanelle come in una fiera” . Al di la del ponte, sulla passeggiata del corso XX Settembre ( l’attuale Corso Roma ) ,dove “un gran sedile in muratura si prolungava da un capo all ‘altro, la gente stava seduta, di fronte al porto, e guardava i lumi della sera... Il guardiano ci porta nella chiesa, entriamo , accende una candela in cima a una canna e ci conduce in una cappella oscura. Sollevando il moccolo illumina una figura di legno dipinto inchiodata ad un ‘alta croce. Il fantoccio ha una strana espressione di vita atroce, nell ‘ombra “
A D’Annunzio i gallipolini avevano raccontato mille storie sul Malladrone. Ad esempio che aveva sempre i vestiti “strazzati” (, strappati ,lacerati, ridotti in brandelli) e non c’era verso di cambiarglieli anche cento, mille volte, il giorno dopo tornavano gli stessi . E’ tuttora celebre in tutta la provincia di Lecce ,il detto "vai vestito come il malladrone di Gallipoli", quando si incontra una persona mal vestita o con dei cenci indosso. E inoltre si riteneva che i denti della statua fossero o quelli dell’autore ( Mastro Genuino) o realmente quelli di un condannato a morte, a cui avevano tagliato la testa. E poi altre leggende, che facevano rizzare capelli, come quella di Misma che ogni sera scende dalla croce e vaga per le strade della città per spaventare a morte i disgraziati ritardatari ( ad una certa ora si chiudeva il ponte levatoio e nessuno poteva più entrare nell’isola) .

6. Umberto Biancamano
E’ evidente che per tutta una serie di motivi , legati anche all’estetica dannunziana, il Malladrone rimase fortemente impresso nell’animo del Vate che lo rievocherà diverse altre volte , ad esempio nel romanzo “La Seconda amante di Lucrezia Buti” : “E mi ricordo del Pugliese di Gallipoli che mi raccontò come una sera entrasse nella chiesa dopo i vespri per vedere “il mal ladrone” e accendesse un moccolo in cima a una canna e s ‘arrischiasse nella cappella buia e sollevando il moccolo scoprisse in cima alla croce l’uomo; che
si mise a sollevare le palpebre, a roteare gli occhi, ad ansimare, e a dibattere le mani confisse con tanta furia che gli rimasero entrambe nei chiodi come due nottole mentre i moncherini gli ricascavano giù “ E poi nel poema la “Beffa di Buccari” in cui il maggiore di cavalleria D’Annunzio accenna all’eroico marinaio gallipolino , Umberto Biancamano , il prodiere del Mas , con la mano adusa ai timoni, ai cavi e alla scintille azzurre del mare , che era stato uno dei partecipanti all’impresa , uno dei “trenta in una sorte! e trentuno con la morte.
Il Vate ne parla come del “concittadino dei vecchi crocefissi Misma e Disma. “…nato nella bianca Gallipoli all’ombra dei più pingui ulivi salentini”…

Il giovane D’Annunzio ( allora aveva trentadue anni ) in quel periodo iniziava il suo lungo fortunato ma anche burrascoso rapporto con il teatro e con la grande Eleonora Duse , che aveva qualche anno più di lui , ed era gelosissima del poeta . Ma sul panfilo che da Gallipoli lo avrebbe portato in Grecia , un due alberi , di 58 tonnellate , oltre l’equipaggio, c’erano solo uomini: oltre a lui , c’era Scarfoglio, il pittore guido Boggiani , e il critico e letterato francese Georges Herelle , traduttore delle opere di D’Annunzio. Erano tutti intenzionati ad una sorta di “full immersion” culturale, vedere e descrivere le grandi opere della Grecia antica da cui sarebbero nati grandi reportages , motivi di grande ispirazione , ma in realtà – disse il comandante del Panfilo , Francesco Cacace , si comportarono come un gruppo di scostumati gatti bizantini in calore , stavano sempre nudi in coperta senza fare nulla , e una
volta a terra, si gettavano nei porti a cercare donne di malaffare da condurre a bordo, come fanno gli ultimi marinai . E tuttavia a crociera finita , dopo qualche tempo , l’ispirazione fece i suoi effetti positivi su Gabriele , ed ecco , in nuce, “Laus Vitas” , “Alcione” , “La città morta” , quest’ultimo un testo teatrale scritto su misura per la Duse, che amò D’Annunzio con tutto il trasporto di una donna di quarant’tanni dalla dolce bellezza disfiorita , dal temperamento tragico , generoso e ipersensibile . Soffrì molto ed ebbe momenti di disperazione, ma - scrisse Fusero – “finì per sovrastarlo , quale testimone muta dell’infinita miseria del suo egoismo e cinismo”
Forse al Vate sarà venuto in mente qualche volta la croce dell’infedele Misma e la chiave negata , la smorfia , la beffa tragica, la sarcastica sfrontatezza, il riso beffardo e sprezzante, la spudoratezza popolaresca e picaresca , lo sguardo furbesco, rotto a tutte le avventure e a tutte l’esperienze , la consapevolezza della scelta ineluttabile dell’inferno , con biglietto di solo andata…Chissà che quella disincantata ferocia della maschera gallipolina, alla fin fine non risulti simpatica proprio perché fa parte della storia e della vita dell’uomo e quindi ciascuno di noi può riconoscersi, per quanto piccola, in una parte di se stesso ? Ma forse – insinua Errico – c’è anche il dolore , seppellito nel ghigno, forse c’è anche la disperazione , celata nel ringhio, “e il pentimento inconfessato per il male fatto al mondo, per il peccato contro il cielo compiuto da ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Allora, nella penombra, nella temporalità sospesa, sfibrata, rarefatta, il Malladrone crocefisso in San Francesco d’Assisi soffoca ancora il suo pianto e urla il suo giudizio di disprezzo verso se stesso”.
.

Ernesto Barba un gallipolino sul tetto del mondo



1.Mi arriva il libro giusto per l’estate, “ Ernesto Barba Figlio del Sole”, curato da Rosario Amodeo, Maurizio Nocera e Franco Pisanello , per le edizioni UM Gallipoli, 2007. Un libro bello che arricchisce la collana dei poeti del mare, anzi ne è un po’ il fiore all’occhiello, un libro che ci fa conoscere un personaggio straordinario: Ernesto Barba, fratello major del più celebre Eugenio, regista di fama mondiale, geniale direttore d’albergo , “il Fellini dell’industria Alberghiera”, lo definì la patinata rivista per uomini “Play Boy” per la sua fantasmagoria creativa , o il “salentino volante” , come lo definì “Capital” . Ma soprattutto era - e rimane - un poeta con l’ali, che siede sul tetto del mondo , che vuole stupire il mondo. Un assetato d’amore , di vita , ma anche pieno di solitudine, disperazione e morte, come capita sempre ai poeti di tutte le latitudini.

2.“Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici”, dirà Villiers De L’Isle-Adam, che aspirava a rimanere nella “sfera occulta di un genio che non chiede la fanfara” .
Invece, Ernesto , che era altrettanto nobile (la sua famiglia apparteneva all’aristocrazia gallipolina) e , forse , geniale quanto De L’Isle, ha fatto il domestico. Ha voluto vivere, cercando la libertà assoluta, che ovviamente non esiste. E quando se ne è reso presto conto , - aveva appena diciassette anni ed era uscito dal Collegio della Nunziatella , la famosa scuola militare di Napoli -ha raccolto quelle invisibili catene che sono la fatica di vivere , - e che ci portiamo dietro tutti, - e se ne è andato in giro per il mondo, ma non da girovago ungarettiano che cerca il paese innocente, no, piuttosto da uno che fa un passo avanti , che si propone e impara tutto , o quasi , prima degli altri : la scuola di direzione alberghiera a Losanna , le lingue ( ne conosceva almeno sette) , il master in marketing a Berkeley, una laurea in lingue orientali alla Sorbona , il seminario di buddismo vajarana nel collegio tantrico di Lhasa , in Tibet, lungo i contrafforti dell’Everest , dove per anni ha diretto l’Holiday Inn , 500 camere e 700 impiegati , difficoltà logistiche pazzesche, “ l’albergo più difficile del mondo” . E’ stato l’unico europeo , dopo il Gesuita Ippolito Desideri ,- anno scolastico 1714-16 - ammesso a tali studi. “ Voglio imparare dalle prostitute sacre i segreti della Mano Sinistra . Voglio tentare di diventare un Bodhisattva”.

3.Ernesto fa tutto con il sorriso e suprema leggerezza , (la classe non è acqua) ed è quasi sempre in anticipo su tutto , anche sulla sua fine, a Livorno, alla chetichella , il 27 aprile 1994, tra i quattro mori , in un albergo qualunque, che non esisterebbe senza di lui . Ma Livorno è pur sempre la città più becera d’Italia , la città degli scherzi , e lui lo sapeva bene , con quel suo sorriso tibetano stampato sulla faccia , con il suo fare da “tomber des femmes”, la sua ironia tutta leccese . Anche Livorno è città nobile che rievoca l’ascetico ironico tragico poeta senza-dio , Giorgio Caproni , con la sua Annina Picchi , sartina in bicicletta, con le vesti svolazzanti e la voce fresca , una primula sculettante che faceva voltare tutta la città al sorgere del nuovo secolo. Livorno è Modgliani , l’elegante malinconico aristocratico Modì , morto di tisi (e di fame ) , ma con il pernod tra le mani e la sciarpa di seta rossa , uno che inventò – lui , italiota atipico - lo charme “francioso”. Ed Ernesto era un po’ l’uno e l’altro , disperato senza dio ( o con un dio sconosciuto ) e aristocratico dandy, o meglio “finesseur” , che ha portato nei cinque continenti del mondo quel suo modo d’essere italiano doc , tra Marco Polo e Casanova, il viaggiatore-amatore-scopritore ricco di fascino e ambiguità.

4.Ernesto portava ovunque la sua moglie giapponese , Mikiko , e le altre lucciole asiatiche , giapponesi o tibetane , ma anche altre donne occidentali da mozzafiato , come testimonia il suo amico Maurizio Nocera. Donne che facevano girar la testa sul corso Roma , “walkirie col sesso mieloso”.
E poi aveva dentro di sé – un po’ come l’Eta Beta disneyano - un emporio di pianole cinesi e venditori di mandarini, notti mitteleuropee con fame freddo vampiri e streghe , porti olandesi piene di teste gialle, e ancora altre notti insonni nei bordelli di Instabul e Patrasso.
Ernesto lo potevi vedere lievitare su barre e trapezi come “frate Asino”, San Giuseppe Desa , riscaldarsi in una camera piena di Mozart, o far l’amore in una camera piena di specchi e di farfalle .(“ Una volta , a Londra spesi 5 pounds per avere due casse di farfalle e vedere l’effetto che fa, sdraiato nudo sul clavicembalo , e lei che in ninolina mi suona “Au dic ferne Geliebik”, ed io ogni tanto la bacio in bocca e là…dove vorrei…”)
Non per nulla , Ernesto era un figlio del sole.
Mandava cartoline e libri di poesia fatti con le proprie mani agli amici da tutte le parti del mondo… ma senza mai veramente prendersi sul serio ( “perché mi chiami poeta se sono un semplice direttore d’albergo?”).

5.“Ma era un poeta autentico – scrive Amodeo -, con una vena naturale inesauribile. Un poeta, per intenderci, alla Paul Fort o alla Jacques Prévert e forse se avesse scritto in francese, e in Francia – paese più sensibile ad una poesia da chansonnier - sarebbe stato altrettanto noto di Fort e Prévert.” Ma ad Ernesto non interessava nessun riconoscimento che non venisse dagli amici del cuore . “Poeta rimane, - ribatte Nocera , - con la disperazione dentro e la smania di vento, lo spazio retato e la voglia di fuggire”.
Ernesto amava specchiarsi nelle sue origini di gallipolino pieno di saudade e di talento. I suoi avi hanno fatto la storia di Gallipoli , da Emanuele all’omonimo Ernesto Barba, sono stati dei giganti che hanno lasciato un’eredità pesante e un vuoto di tutto: d’iniziativa , d’intelligenza, di fantasia, di scienza, di personalità , ma Ernesto non ha mai voluto palesarsi, o, peggio, menar vanti.


6.Faceva il turista per caso mentre sprofondava in “un pozzo di gelsomini senza fondo”, perché amava la sua gente, desiderava il contatto umano , spiava da lontanissimo , dall’alto dei 4000 metri del Lahsa il transito del suo amato Scoglio, dove tornava di tanto in tanto con il suo cicerone ad attenderlo ( era lui che lo informava di tutto) , l’amico Maurizio , per una ubriacatura di salentinità…e di mieru…” Francesco Marra ( era il suo pseudonimo)…sempre senza una lira/ sempre innamorato/ colla capo piena di vento/sempre stonato/ Quando morirà seppellitelo / con il libro dei sogni / e la coppola in capo”.

7.Voleva risentire i sapori del bar Alvino, la pizzica-pizzica e la taranta, voleva ridefinire i confini e gli spazi del suo essere talentino, aveva visitato i suoi fratelli caduti in Asia (“ Lo sa che ho trovato tombe di molti marinai gallipolini nei cimiteri di Shangai e di Port Arthur?”), voleva fare ancora tante cose, Ernesto, ma le sue ultime visite salentine sono state quelle ai suoi avi , al cimitero di Gallipoli. Ma non sostava più di una farfalla , un nulla che si fa carne . Poi, sempre , ripartiva dove lo conduceva la sua perenne inquietudine. Lui voleva farsi natura, voleva essere universo-mondo, perché il poeta non appartiene a nessuno , ma solo al proprio mondo interiore.
“Cosa diventerò?/ un albero ad Haiti / un ‘onda del Pacifico / un gabbiano sullo Jonio / una nuvola in Giappone / una brezza alla regata/ un verso in sanscrito?…Ma sempre figlio del sole/ io resto.”

E come tale, Nocera lo vide volare al di là della Montagna Spaccata, volare via da un Salento abbagliante, tanto amato eppure tanto negato, volare lontano, sempre più lontano e sempre più in alto… volare sul tetto del mondo.

Giuseppe Castiglione e l'odiosamata Gallipoli



!.Nessuno a Gallipoli pianse la morte di Giuseppe Castiglione , avvenuta il 14 luglio 1866 , nella sua povera casa sita sul versante di scirocco della “città bella”, alle spalle della cattedrale, dopo lunga e dolorosa ( atroce) malattia, per un cancro alla gola che gli impedì , negli ultimi giorni, non solo di parlare, ma perfino di deglutire: soffriva in modo tale che scrisse su un bigliettino al medico ,Emanuele Garza , che ogni tanto lo veniva a visitare: “ Dottore se lei non mi uccide commette un delitto”.
Non lo piansero neppure le donne che lo assistettero fino all’esalazione dell’ultimo respiro : la moglie Fortunata Lucia Cingoli, una popolana che aveva sposato segretamente nel 1842 ( il matrimonio fu reso pubblico solo quindici anni dopo) , e la figlia Ernestina , magra, smunta, misera, sfiorita , già minata dalla tisi, che morirà l’anno dopo, a soli venticinque anni. E forse nemmeno il figlio Emilio Andrea, che se ne era scappato di casa anni prima per arruolarsi volontario nei garibaldini , e morirà a Digione, nel 1870, combattendo per i francesi.
Non lo piansero nemmeno i parenti nobili , i Briganti ( sua nonna Vincenzina era figlia del famoso Tommaso , giureconsulto di statura europea, che aveva dato lustro a Gallipoli e all’Italia ) , a partire dal cugino Domenico che, da Sindaco di Gallipoli, aveva fatto di tutto per farlo uscire dal suo endemico stato di bisogno economico , senza riuscirvi, per assoluto menefreghismo da parte di Castiglione , che si considerava un bohemien , un artista, e voleva vivere come tale, pur avendo moglie e figli da mantenere. Certamente non lo rimpiansero gli altri intellettuali dell’aristocrazia gallipolina , per i suoi continui cambi di bandiera , dal punto vista politico. Politica che non aveva mai ben compreso, tanto da far dire a Emanuele Barba – che pure lo stimava come poeta – che in lui “ non albergarono mai gli alti sentimenti di carità verso il prossimo , e di fraterno affetto”, alludendo al fatto che non si era allineato con un partito progressista e umanitario di quel tempo. E men che meno lo pianse il popolino , verso cui si era dimostrato democratico solo per chiedere soldi in prestito , o far crediti dai fornitori. Era debitore verso tutti , dal lattaio al verduraio, dal panettiere al macellaio, aveva chiesto soldi perfino al bidello della scuola dove di tanto in tanto faceva qualche lezione Tutti, o quasi, a Gallipoli, vantavano un piccolo credito nei confronti di “don Pippi” Castiglione . Insomma era riuscito nella non facile impresa di essere da tutti considerato un fallito e un parassita , a trecento sessanta gradi .

2.Eppure Giuseppe Castiglione è stato senza alcun dubbio uno dei pochi scrittori di talento dell’Ottocento gallipolino .Ha scritto romanzi importanti come “ Roberto il Diavolo” , dramma storico nel pieno filone romantico dei maggiori scrittori del tempo( Tommaso Grossi, Cesare Cantù, Giuseppe Guerrazzi, per non parlare del Manzoni che sicuramente il Nostro conosceva bene tanto da dedicargli un’ode assai enfatica e mediocre) , che rievoca il famoso assedio dei veneziani a Gallipoli avvenuto nel maggio del 1484 .


3.Il romanzo era stato pubblicato dalla più importante casa editrice napoletana , la Vaspandoch , che aveva messo in stampa in tre tomi – odi , odi! – nientemeno che i “Promessi sposi” di Alessandro Manoni (va detto che allora non esistevano i diritti d’autore) ed aveva ottenuto un buon successo di critica e di pubblico, tanto da far scrivere al Castiglione, - che sembrava ormai avviato verso una luminosa carriera di romanziere - : “ Ecco , vedo coronato il mio sogno, vivere solo di letteratura”. Ma allora sperare di vivere facendo lo scrittore era pura utopia: perfino Leopardi non ci riuscì, ma anche lo stesso conte Manzoni , che non aveva problemi economici , quando volle stampare in proprio , ci rimise di tasca una somma piuttosto cospicua, ben centomila lire di quell’epoca.
Ma la validità del romanzo di Castiglione è rimasta intatta nel tempo, se è vero come è vero che anche un secolo dopo, ai tempi nostri “La vendetta gallipolina”, piéce teatrale che il canonico Don Sebastiano Verona aveva tratto pari pari dal romanzo , e messo in scena negli anni 1974-1977 , ottenne uno storico strepitoso successo , con numerosissime repliche , a cui partecipò praticamente l’intera popolazione di Gallipoli e dei paesi limitrofi . E successivamente, siamo già al terzo millennio, il maestro Enrico Zullino ne ha tratto un’opera lirica assai robusta ricalcando certi schemi tipici del romanticismo verdiano.


4.Giuseppe Castiglione era nato nel 1804 nella casa materna , tra le colline odorose di timo di Sannicola , allora frazione Gallipoli. Ricordò sempre quelle campagne natie , con l'occhio che spaziava per chilometri e chilometri sulle distese di maestosi olivi , il percorso delle antiche edicole votive, le vecchie cisterne che raccoglievano la preziosissima acqua piovana, i vitigni , il frumento dei campi. (“Non nominare le cose, indovina le cose, suggerisci le cose, ecco la cosa segreta, ecco il sogno, la poesia”), ma era da sempre vissuto a Gallipoli e non volle mai staccarsene “ come l’ostrica dallo scoglio” per tutta la sua tribolata esistenza , nonostante avesse coltivato ambizioni e sogni din gloria letteraria , soprattutto dopo la sua iscrizione d’ufficio , per alti meriti letterari , all’Arcadia , e la nomina a corrispondete dell’Istituto di Francia . Erano solo voli pindarici, sogni che gli avevano fatto sperare che un giorno avrebbe potuto emulare ( e magari superare) le gesta del suo concittadino Pasquale Cataldi , grande poeta improvvisatore, considerato un aedo sublime in tutte le corti europee, da Napoli na Vienna, da Parigi a Mosca , città che Castiglione potè vedere solo sui libri di storia e geografia.

5. Ormai aveva fatto la sua scelta totalizzante , si sarebbe dedicato solo alla storia favolosa della sua amata città, che infatti sarà fonte di ispirazione di tutti i suoi vari scritti , dalla biografia del prozio Filippo Briganti , alle prose “Il ponte di Gallipoli” , “Un naufragio a Gallipoli”, fino all’ultimo suo romanzo ,” La Cingallegra” , in cui sono molti elementi autobiografici , per giungere alla monografia “ Gallipoli” che, ristampata nel 1985 per i “Quaderni” di “Nuovi Orientamenti”, volle donarmi il compianto giudice Michele Paone , che ne aveva curato l’introduzione, con questa dedica: “Ad Augusto Benemeglio, con augurio e cordiale ricambio” ( gli avevo donato l’anno prima una copia del mio ”L’ isola e il Leone” , che rievoca in modo surreale le vicende dell’assedio veneziano a Gallipoli) .
Bene, in questo libro , che è una sorta di bozzetto-guida-mini enciclopedia storico-geografica e antropologica di Gallipoli , scritto nel 1856, Giuseppe Castiglione rivela senza infingimenti ( ed è un gran merito , tenuto conto che l’opera storica gli fu commissionata dal Comune) il suo rapporto vero con Gallipoli e i gallipolini. “ Il bozzetto – scrive Paone nell’introduzione – fu pensato e composto da chi della città conosceva tutti i segreti delle virtù, i guasti, le corruttele , di chi sapeva le voci e i volti dei concittadini, i suoi malesseri, i suoi ritardi, le sue miserie, le sue speranze”.

6. E’ lo scritto di uno che ama molto la sua città, ma con “rabbioso amore, con il risentimento di un poeta che aveva finito per identificare la sua vita in quella della sua città e l’osmosi di questo rapporto lo esaltava e lo avviliva al tempo stesso”. E la cosa straordinaria è che molte cose riferite alla Gallipoli di centocinquanta e più anni fa sono ancora in certi casi dolorosamente attuali.
Prendiamo, ad esempio, il capitoletto sui bambini assai trascurati dai loro genitori: “ Esseri infelicissimi , abbandonati dai genitori, che li lasciano razzolare per le strade tutto il giorno con risultati assai dannosi , non ultimo il poco rispetto che questi sogliono avere per i genitori.”
O sul carattere dei gallipolini, che, se da un lato sono molto versati nella poesia , nel teatro e nella musica ( “Sono tutti poeti. Qualsiasi cosa avvenga che colpisca l’immaginazione , eccoti una canzone naturalmente bella…Amantissimi del teatro , di qualunque condizione o istruzione sieno, rappresentano perfettamente qualsivoglia farsa o dramma; ardentissimo è il genio per la musica, che in ogni età si è coltivata con vera passione”), dall’altro essi sono imprevidenti, vanesi, dissipatori come cicale ( “Sono spensierati, cattivi massai; l’avvenire non ha giammai turbato i loro sonni. I travagliatori quindi sprecano in un giorno il guadagno di una settimana. I ricchi commercianti sciupano tutto nel lusso fine a se stesso, per vanteria; i poveri nelle gozzoviglie da taverna…Appena isterilisce il commercio e manca il lavoro , ecco la miseria con l’orrendo codazzo di cento mali opprimere quei lavoratori che non seppero serbare una briciola del pane che sovrabbondantemente mangiarono”)

7.E poi si parla del rapporto , inesistente , tra i gallipolini ( uomini di mare) e la terra : “Gallipoli non ha agricoltori . Niuno dei suoi abitanti sa versare una stilla di sudore sulla terra per chiedere il compenso di un pane”, e della piaga dell’usura: “scaturigine di ogni miseria … vero flagello per gli sventurati che, tratti da imperiosa necessità, qualunque condizione accettano per aver denaro…questo vampirismo esiziale che si nutre del sangue dei poveri e riduce in miseria le classi operaie assorbendo ogni loro guadagno.

8.Castiglione parla anche dell’attaccamento viscerale che i gallipolini hanno per la loro piccola patria che “ amano d’amore infinito, da cui, se per circostanze imperiose talvolta si allontanano, restano vittime della nostalgia” e della loro religiosità , che ha sempre qualcosa di superstizioso, barocco, teatraleggiante e pagano: “Il popolo gallipolino è sempre intento a compiere i suoi religiosi doveri ; solo non è commendevole qualche usanza che sa alcun poco di superstizione. Continue sono le festività religiose che vengono celebrate con ogni sontuosità . Nelle processioni fanciullette di tenera età, vestite con peripli . cantano le laudi. Belle come angioletti, ricche di chiome che in folte ciocche scendono sugli omeri , redimite dai fiori , dotate di voce armoniosissima , colla melodia dei loro canti t’infondono nel cuore una misteriosa dolcezza, che al pianto t’invita”

9. parla … delle congregazioni religiose che gareggiano tra loro “ nel tributare a Dio col culto esterno, nel frequentare i rispettivi oratori e nell’addobbare le chiese col lusso maggiore che possono …e non sai se sia maggiore lo zelo , o la munificenza nell’adornare la loro chiesa di preziosi suppellettili e nel celebrare le feste sontuosissime”.

10… dei pregiudizi dei suoi concittadini: “ Si crede alle streghe e alle malie: per salvare i fanciulli da malefici influssi de’ malocchi si caricano di cento cianfrusaglie , e di cornetti di corallo.” E, infine , con sorprendente attualità, si sofferma sulla carenza di insegnanti degni di questo nome (sic!) e sule fosche prospettive per i giovani di quel tempo ( doppio sic!!)
“Gallipoli avrebbe meritato in altra età il nome di Atene della provincia, ma ora l’istruzione manca, e la gioventù non così facilmente trova una guida che la conduca sicura a traverso le spine e i mali triboli che ingombrano il sentiero de’ buoni studi. Dove sono i precettori? La gioventù fruga e rovista invano per rinvenirli , e desolata nell’inutile ricerca , resta per lo più abbandonata ad una fatale ignoranza.”
E su quest’ultime condivise parole chiudiamo il nostro glossarietto di Giuseppe Castiglione , sulla sua città odiosamata, Gallipoli, che è stata il suo tutto, inferno e paradiso.
“Gallipoli” è un pamphlet modernissimo , sembra che sia stato scritto ieri, e non centocinquantadue anni fa, ma evidentemente un vero scrittore riesce sempre ad essere attuale , anche quando scrive la cronaca del suo tempo. E poi chi l’avrebbe mai detto – ironia della sorte - che uno scioperato bohémien, un artista sfaticato come Giuseppe Castiglione dovesse essere ricuperato “anche” come moralista?

Nicola Apollonio in dieci segmenti



1. Il rito stregonesco del menabò.

Fare titoli. Rivedere bozze. Cercare immagini. Con la speranza di un giusto tono ( epico drammatico grottesco o leggero che sia) , e di una giusta luce, e di una giusta coesione , come uno spettacolo teatrale fatto di lettere e figurine. Si può attuare qualunque accorgimento , qualunque artificio per ovviare alle deficienze strutturali , alla povertà di mezzi, alle stanchezze , alla crisi di volontà. Si possono fare astute rabberciature nella camera alchemica dei colori e delle immagini , rappezzature, cuciture sui cigli estremi di un improbabile anacoluto , tesi alle suture microscopiche di un avverbio o un aggettivo. Questo è il segreto del rito stregonesco del menabò di una rivista che si chiama “Espresso Sud”, a cui il direttore-ideatore- fondatore-editore Nicola Apollonio non si sottrae, purché si arrivi all’osso dell’osso , cioè alla verità, nuda e cruda, per quanto scomoda essa possa essere.


2. Viene direttamente dalle stelle.

E lui lo è , personaggio scomodo, criticato e criticabile , ma senza dubbio “personaggio”, uno che non si scrive mai addosso , che fa economia di parole , le pesa, le dà un tono, un colore, un calore, una valenza; uno che ha molto pudore di sé, dei propri sentimenti, dei propri pensieri, della propria privacy , e che allo stesso tempo non esita a farsi paladino in nome della “ libertà delle idee e della lotta contro i soprusi”. Anche se a primo acchito riflette un’immagine scanzonata, polemica , anticonformista, vagamente bohemien , tutto ironia , dadi , donne e taverne , in realtà è un fine aristocratico , è uno – disse un amico comune – “che viene direttamente dalle stelle”. Come tutti noi del resto . Infatti, per fare un uomo di media corporatura ( lui è decisamente superiore alla media , col suo metro e novanta e i suoi 120 Kg) ci vogliono 15 chili di carbonio, 4 di azoto, uno di calcio, mezzo chilo di zolfo e di fosforo , 200 grammi di sodio , 150 di potassio e di cloro , quattro secchi d’acqua , e una quindicina di altri elementi in dosi minime . Di questi elementi chimici , il Big Ben che diede origine all’universo generò soltanto l’idrogeno , tutti gli altri si sono formati nel cuore delle stelle. Ecco perché il nostro legame con il cosmo è più intimo di quanto di solito si creda.

3. La tensione alla comunicazione

Ma per tornare sulla terra e per cercare di conoscere almeno un po’ il nostro direttore ( non conosciamo mai del tutto una persona, c’è sempre il famoso… buco nero, il nostro lato oscuro) basta , in fondo, andare a rileggersi quel suo romanzo-reportage, quasi interamente autobiografico, che è “La città dell’anima” ( Espresso sud , 2001) “che ha - scrive il suo amico Vittorio Feltri - l’andamento di certi pensieri notturni. Quando ci si specchia dentro la propria memoria e ci si sente turbati dal male che siamo stati capaci di fare e di sopportare. Palpitano in molte pagine i crimini che lo Stato lascia accadere senza opporre resistenza.”
Crimini che Nicola ha sempre denunciato, da trent’anni a questa parte , con implacabile puntualità, per la sua tensione nel voler comunicare la notizia , che è propria di ogni giornalista che si rispetti, ma anche , - scrive la Lady di Ferro, Adriana Poli Bortone , sindaca di quella “città dell’anima” che è Lecce - “per quella sana curiosità e interesse intellettuale di chi vuole approfondire le tematiche più rilevanti del dibattito politico-sociale salentino”. C’è in lui quella “tensione a comunicare, - scrive Feltri con la consueta ironia - non dirò un ideale , che è una parola troppo grossa, e nemmeno un’idea, che è pur sempre una esagerazione, ma almeno mezza notizia e mezza opinione , quello sì…”

4. Chi salverà il meridione?
E per quella mezza notizia da comunicare , Nicola aveva fatto un lungo faticoso tirocinio nelle redazioni , e poi man mano gli era piaciuto , s’era preso una bella cotta , che ancora perdura , per quel mestiere strano del giornalista , che non sai mai esattamente cos’è, che ti devi sempre reinventare , giorno dopo giorno , che è “ sempre meglio che lavorare” , che è pieno di rischi ma anche di fascino. E dopo vent’anni di avventure in mezzo mondo , ora gli toccava il filo spinato, il lager che era divenuto il Salento. Ora sapeva che non si sarebbe mai più mosso dalla sua terra, per “ contribuire sensibilmente alla rinascita di una città …che si andava piegando sotto i colpi di una politica schizofrenica e di una malavita organizzata che le stava togliendo finanche il respiro (pag. 165).
E così decide di accettare l’offerta della “Gazzetta del Mezzogiorno” e, contemporaneamente , di fondare e dirigere uno di quei periodici locali destinati a durare poco , con pochi mezzi economici , ma svincolati dal potere, soprattutto liberi e “ decisi a risvegliare le coscienze e a farle riflettere sui cambiamenti che stavano interessando la società italiana e che nel Salento, invece, venivano sottaciuti o addirittura contrabbandati come atti di vandalismo politico e sociale ( pag. 182).
Aveva conosciuto e dialogato con i maggiori personaggi del suo tempo, Moro, Fanfani Berlinguer , Almirante, Andreotti , Agnelli, Quasimodo, Montale, Montanelli , Gassman Sordi Fellini, Codacci Pisanelli , era amico di De Giuseppe, Pellegrino, Bonea, Leone De Castris , Urso , Costa, Letta, Feltri , da cui ultimo traspariva, senza posa, l’essere arrivati al capolinea, il non esserci più salvezza per il giornalismo , se non dire la pura e semplice verità , a costo di lasciarci il posto. Anche lui andava diritto per la tangente , eludeva i limiti, ma non ignorava le strettoie di una generazione che aveva fatto dell’inciucio la propria idealità , e della poltrona il proprio credo. Poi si era fermato all’annoso interrogativo, che lo perseguitava da sempre , fin da ragazzo agiato, di buona famiglia borghese . Era un rimorso, un tarlo della coscienza che dovrebbe toccare tutti i meridionali di buona volontà :“Chi salverà il meridione ?
Il miraggio della new economy? Non certo l’ignobile trovata dei lavori socialmente utili , e i politici meridionali, ancorati al potere, come sempre, attraverso l’assistenzialismo e le pensioni di invalidità fasulle . Il sud è condannato ad essere sud , con tutti i suoi guai e le sue disperazioni . Serve solo come serbatoio di voti a buon mercato”

5. Nulla nasce dal nulla.

Così aveva scritto in uno dei tanti suoi editoriali su “Espresso Sud” , la rivista che aveva portato avanti passo dopo passo , sacrificio dopo sacrificio ,(dirà Nicola che è stata “ un’esperienza così complessa che diventa persino difficile da raccontare . Ma il destino ha voluto che il miracolo si compisse“) , fino a raggiungere livelli di assoluta dignità nazionale per contenuti e veste editoriale . Ma “nulla nasce dal nulla , e nulla senza travaglio diede mai la vita”, gli aveva fatto eco Ninì Quarta, ex presidente della Regione Puglia, citando Orazio. ”Sei stato riformista per scelta editoriale. Ma conservatore per necessità, di fronte al nuovo ( al nulla ndr ) che non c’è. Tu sei la dimostrazione esemplare che non mancano gli uomini che scrivono da uomini liberi , per non dover vivere tutta la vita in ginocchio” E ciò nonostante le iniziative qui al sud siano più difficili che altrove perché – aggiunge De Giuseppe – “c’è una immobilizzante massoneria di mediocri che scoraggia tentativi e entusiasmi , con critiche spesso ingiustificate e ingenerose…”
Quella passione , quell’entusiasmo , insieme ad una critica pungente e coraggiosa nell’affrontare problemi sociali senza preconcetti e senza scendere a compromessi , senza mai allontanarsi dagli scopi prefissi, che avevano evidenziato Crucillà e l’arcivescovo Ruppi , che gli dice: il futuro del Salento dipende da uomini come te che con fatica combattono contro l’indifferentismo culturale e l’apatia etico-sociale. E lo incita a perseverare nel trattare temi quali “lo sviluppo turistico, l’occupazione operaia, la tenuta e la stabilità della famiglia , la valorizzazione dei beni culturali, il rispetto delle tradizioni religiose proprie delle nostre popolazioni , valori immensi da salvaguardare e rilanciare con l’impegno di tutti ,appello che tu non hai mancato di fare ora stimolando i pigri, ora fustigando gli empi , ora suscitando dibattiti su problemi e programmi”.

6. Ricordi romani

Nicola è ormai nella storia del giornalismo salentino, “quello di destra”, dice qualcuno che sta dall’altra parte. Sì, è schierato a destra, ma in modo leale, schietto, onesto, senza fare mai il saltafossi , o il voltagabbana. Ma non è comunque uno che si esalti per gli elogi , i premi, le attestazioni di stima. E’ un piacere effimero. Ne fa un falò di sorrisi ironici e divertiti.
Del resto ha sempre detestato i fanatici, le melo-checche , le esagerazioni E’ sempre stato un coacervo, un crocicchio di sentenze provocatorie , di battute salaci, ma anche di lotte e di scontri. E nonostante il suo lunghissimo stato di servizio , quando parla di servizio non è mai pedante, mai professorale, anzi esattamente il contrario : gioca con se stesso e la propria ironia , talora può diventare sardonico , ma è anche pieno di specchi mascherati , di tic involontari, di depressioni improvvise , di cadute nella malinconia. Non sogna la luna . I suoi piedi sono ben radicati su quella terra che lo ha visto nascere , di cui ha vivo il senso, il gusto forte , dolce e amaro , delle cose che vi si trovano , terra ancora non del tutto globalizzata , per certi versi edenica ( se vai in certi posti del Capo non ti meraviglieresti di veder spuntare , tra le viti basse e ramate , e gli ulivi , un novello Gesù Cristo coi suoi discepoli) . Ma allo stesso tempo conosce bene anche i gangli del potere , e le sue memorie di Palazzo sono ancora zeppe di nomi, date, ricordi, aneddoti , teatrini vissuti nella lunga stagione romana …( il giovane Nicola aveva disinvoltura, charme , agilità, nonostante la sua mole da obelisco d’Amba Aradam , che gli faceva impaccio) Io non parlo mai di me, sono gli altri che devono cantare , ma non è vero. In realtà è un chiacchierone , parla , parla e parla accanitamente di sé, probabilmente senza accorgersene, perché è l’amicizia gli fa velo . Ma l’amicizia è anche questo , rispecchiarsi nel mercurio pulito della stima , e dell’affetto reciproco, della complicità, anche dopo aver passato una serata stravagante o folle. E tutto ciò fra noi due non è mai venuto meno , in oltre dieci anni di collaborazione. Anzi, se possibile, il legame si è rafforzato, è cresciuto. Nicola sa essere – quando vuole - prodigiosamente plastico nel mettere in prospettiva , in scena i ricordi , gli aneddoti, le gag , sa farli sbalzare , quasi come un racconto stereoscopico.
“Fu in quella grassa umidità delle notti invernali vicino al Tevere , quando la nostalgia ti trafigge come una punta di succhiello , che incontrai Fellini ravvolto in una sciarpa rossa infinita da parer vestito solo di quella : sai , Fellini con quella vocetta da checchina riminese , e il viso bianco , dilatato e disfatto che andava come a smarrirsi nella capigliatura in tempesta , già con un forte indizio di alopecia …”

7. La storia mi è venuta a cercare

La Sacra Corona Unita e il doppio binario , gli scippi , furti , rapine ,lo spaccio di droga e i voltagabbana , i pifferai , il ducetto di Traviano e l’Anas , il canone della Rai e l’attacco al prefetto che soccorre i più forti , i cacciatori di poltrone all’assalto della diligenza di Forza Italia , la sindrome di Stehndal e il turismo che non avanza , il primo ministro del Circolo della vela , D’Alema, e tutte le promesse mancate , le bare bianche del sabato sera e l’ euro del paghi due e prendi uno , i posti separati di Trenitalia e la balena bianca della Dc , il crocifisso indifeso e l’inquinamento del territorio ma anche delle coscienze , il botto della Parmalat e della Cirio e l’ineffabile Katia Ricciarelli dala voce perduta , l’attentato di Madrid e Fabrizio Quattrocchi, la morte di papa Woityla e la strage della Grottella , “un ponte ideale tra cronaca e storia” dice Fabrizio Cavilli

In oltre 30 anni di Espresso Sud , non c’è un argomento, una cosa, un aggettivo, una parola che non abbia scandagliato , il nostro aristocratico direttore , Apollonio , un greco alessandrino , di pelle olivastra , trapiantato in Aradeo, tempio e castello dei propri avi più prossimi. Ma lui ribatte:
“ Non c’è alcuna nobiltà che possa accettare se non l’addensarsi della storia” . E la storia più recente l’ha vista faccia a faccia , l’ha vissuta con i propri occhi, come inviato a Cuba o in Vietnam, e nel sud-est asiatico all’epoca dei grandi giochi contrapposti tra russi e americani ; o nel Golfo Persico e nel medio oriente all’epoca della caccia al petrolio…Finchè “la storia non è venuta a cercarmi direttamente in casa mia , nel Salento, con la Sacra Corona Unita , la “vucciria” , i massacri, il terrore , gli sbarchi degli albanesi , curdi, pakistani , le mille e mille fughe verso il Salento e la Puglia, arco di pace, terra dell’accoglienza e del sincretismo religioso.
E poi la cronaca , drammatica, ma più spesso grottesca, del nostro beneamato stivale, e di noi salentini ( di nascita o d’elezione) che siamo il tacco dello stivale, e dobbiamo calpestare tutti i rifiuti possibili. E poi i balletti politici, il gioco delle parti, la logica del potere. “Sono una specie di vecchio cameriere del teatro delle marionette, sono stanco, vorrei riposare. Lasciatemi qui, a Santa Maria al Bagno, dove un tempo i neretini portavano l’icona della Madonna a prendere i bagni”

8. Il Salento repubblica della banane e l’impazienza

Con Nicola , che non è più il buontempone della cravatta e della camicia al volo da Hamilton, o dei merluzzi sfiatati al mercato del pesce , della risata larga e ammiccante, che non fuma più, che non beve , si scivola sempre più frequentemente nella penombra della malinconia , e dello scetticismo. (Nulla cambierà: i ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”) , o verso luci indistinte, lontane, che strizzano l’occhio all’ottimismo o all’utopia , dove la Puglia si profila come la California italiana e il Salento Regione Autonoma? Una repubblica delle banane! “Basta che un solo uomo sia irrazionale perché altri lo siano . e perché lo sia l’universo. La storia universale abbonda di conferme “. Lo rivedo proiettare la sua lunga ombra sui marciapiedi del Corso , dove vede sfilare , sculettante , una top femmina mozzafiato , con tutti i crismi , le giuste misure , l’olezzo, il fascino stereoscopico . Nicola non lesina la sua viva ammirazione: complimenti , signorina! Grazie, molto gentile . Nicola l’ha già radiografata , registrata nella sua centralina menmonica . State pur tranquilli che la ritroverà, e la conquisterà, con l’occhio vivo saraceno, la voce suadente , profonda e oceanica , il sorriso aperto , che maschera la nervosa attesa, e quell’impazienza che lo uccide , che diventa sempre più panica ( ricordati, amico, che abbiamo perso il paradiso per impazienza) , che gli fa perdere incontri decisivi , promesse di finanziamenti…tessere di sopravvivenza. Ha l’occhio perso ormai che naviga verso pericolosi mari di malinconia. Ma basta una parola, un’idea, un quadro di Suppressa , il Mondrian salentino, per accenderlo di entusiasmi antichi. E’ attraversato da pensieri e lampi teatrali, quasi incatramato in uno strano incantesimo, la gioia fisica di toccare i ricordi, di ritrovare gli amici-fantasma , di rivivere la vita, che è prerogativa precipua degli umanisti. ”Ma io non sono umanista, non capisco un cazzo di poesia e di letteratura”.


9. L’inchiostro è finito

E’ un animale esigente che vuole a lungo nutrire la sua rivista , la sua creatura , con il meglio che c’è. Ed è per questo che s’incazza terribilmente quando sente parlarne con approssimazione, quasi una divagazione dello spirito. “Continuerò finché non m’accorgerò che l’inchiostro si è seccato , che l’inchiostro è finito . Allora dirò basta. La farò sopprimere, questa rivista, come si fa con le bestie a cui si vuole bene. Non serve scrivere soltanto per farsi delle pippe mentali , non ha senso. E pure sono in tanti a farlo nel nostro grande paese “.
Lo vedo impaziente, insofferente, ha paura di annoiarsi, come tutti i nevrotici…” Non si sa perché uno, all’improvviso, pur continuando a scrivere pensa di aver smesso definitivamente di scrivere , io non voglio arrivare a quella fase di automatismo , non voglio essere una telescrivente
che non sa fare altro che battere i tasti. Ma capita che un giorno ti passi la voglia di scrivere , perché scrivere non serve a nulla, anzi peggio: serve a lasciare tracce di te , quando preferiresti non esserci mai stato …Passano uno , due giorni e non hai preso ancora la penna, poi qualche settimana, poi qualche mese, e allora capisci di aver chiuso una fase della tua vita. E allora capisci di aver chiuso questa fase della tua vita. Forse ce ne sarà un’altra. Forse. Una cosa però è certa. Non vivremo mai più delle emozioni così scintillanti , degli autentici divertimenti , impagabili, caro amico . Mai più, ci pensi?
Ma quel tempo ancora deve venire. Torniamo indietro nel tempo , al tempo dei tuoi dubbi amletici. Rimanere o non rimanere nel Salento ?

10. Una nuova umanità.

Si dice che la diffidenza dell’uomo del Sud è nata da secoli di incomprensioni fra cittadino e stato , da Istituzioni che hanno sempre promesso e quasi sempre sono venute meno agli impegni. Una cosa è certa: i pugliesi non sono gli ultimi arrivati , hanno fatto grande Milano ,la metropoli delle nebbie , gli dice l’amico Feltri. Gli uomini del Sud, messi alla prova, hanno dimostrato che sono in grado di fare cose straordinarie , eccezionali, anche nel loro territorio. Basta decidersi a farle. E’ vero. Ma bisogna essere audaci, bisogna saper cambiare... Le motivazioni ci sono tutte . La decisione è presa ed è ferma. Nicola Apollonio rimarrà per sempre nella sua terra. C’è ancora spazio per un sogno premonitore, un sogno incerto , un sogno di mare, pianure e scimitarre saracene , ombre che lo inseguono, fin sotto la torre costiera, dove si è rifugiato col cavallo sudato, le ossa fradice di salnitro. Si risveglia, si domanda se è ferito o morto. Si chiede se continueranno a inseguirlo gli stregoni che un giorno hanno maledetto il suo nome , e hanno giurato il suo male sotto la luna di Aradeo...Ma non è nulla, nulla; è solo il freddo , il vuoto, il vento ghiaccio . E’ il dolore sordo per la perdita di un fratello, sangue di sangue; il ricordo delle sue sofferenze e quella notte di lemuri e di larve che assillano tutti i defunti , che indagano i nostri infiniti sogni addormentati dimenticati cancellati, che misurano tutti i perimetri degli astri e le lunghe barbe degli indovini che predicono sotto le finestre delle sua casa...Si sveglia di soprassalto, arriva a Santa Caterina di Nardò , sosta nella piazzetta dove c’è l’unico bar, con un cameriere assonnato, una ragazza sorridente , un pescatore di sardine e un cagnolino vagabondo. E’ questa la nuova umanità da cui ricominciare, gli dice una voce, la voce di speranza che aspettava. E’ una voce che viene da lontano, dalla grande croce di ferro sulla collina della piccola località di mare. E’ la voce di Don Tonino Bello. Il pretino di Alessano.
E lì vicino , a poche centinaia di metri , ci siamo ritrovati trent’anni dopo, il mio direttore ed io , come in un punto di fuga della memoria, un crocevia del tempo e lui contraddicendo il suo proverbiale cinismo (che è poi realismo a ben vedere) comincia a farsi sentimentale ( ma non so dire quanto sarcasmo e autoironia ci sia nelle sue parole) , e a dire che questi son posti dove vorresti venire a starci , a vivere per sempre:“Mi prendo un appartamento , magari non proprio sulla strada , e guardo dalla finestra il transito infinito delle cose.”E’ uno di quei posti – dico io - dove sarebbe bello andarci anche a morire, così appartati, quieti, discreti, in silenzio, con quella specie d’aria rosata che ti piove in faccia . E’ qui che ti rendi conto che il big ben , il grande scoppio iniziale, - come disse Eusebio Montale - non dette origine a nulla di concreto, una spruzzaglia di pianeti e stelle, qualche fiammifero acceso nell’eterno buio…e ciack, si gira. Tutto qui?
“ La verità è nei rosicchiamenti /delle tarne e dei topi/, /nella polvere ch’esce da cassettoni ammuffiti/ e nelle croste dei ‘grana’ stagionati./ La verità è la sedimentazione , il ristagno , non la logorrea schifa dei dialettici.”…E vabbè, - mi fa Nicola in tralice - torniamo a lavorare…o meglio a fare i giornalisti, che è sempre meglio che lavorare”.

Edoardo De Candia


1. Sono pochi, sono rari, i creativi. E lui , Edoardo De Candia, l’Anglo , Odoacre, il Vikingo , il Cavaliere della Notte, il Santo bevitore , il Matto di Lecce , lui lo era davvero . Una via di mezzo tra Ligabue , ( lo scemo del villaggio , grezzo, istintivo, infantile) e Van Gogh, uno che intingeva i pennelli nel proprio sangue, pittore per disperazione , emblema del dramma dell’artista che si sente escluso dalla società. E De Candia, come Van Gogh, come Ligabue , fu escluso dalla società e , come loro, morì pazzo senza che la sua arte sia stata riconosciuta in vita.

2.Che arte? Pensate ai fauvisti, ai Derain e ai De Vlaminck, più che a Matisse, a quei colori mobili e avvampanti che man mano si fanno sete di libertà, spazi di passione , ma anche labirinti , silenzi, incantesimi, deserto infinito , lontananza senza più ritorno. Ne parlai molti anni fa con Maurizio Nocera , un testimone, un amico , uno che lo ha assistito negli ultimi giorni di vita , con pietà commossa, fraterna , con amore vero dell’uomo verso “l’altro”. Uno che si è preso il suo ultimo vomito addosso prima che morisse , in quel torrido agosto del 1992 , all’”Opis” di Lecce dove Edoardo aveva camminato per centinaia d’ore fermo su un solo mattone, sempre lo stesso, con le decorazioni consumate dai suoi piedi nudi , per nascondere , occultare l’altro se stesso che gli rideva dentro , inafferrabile, indelebile, invisibile, equilibrista del nulla, consumato clown a cielo aperto , cielo chiaro, azzurrissimo, segno della dimenticanza.... Nocera ricordava i sospiri, i lamenti , le lacrime ( Oh, lasciatelo piangere, perdio!) di quell’enorme Don Chisciotte , tra le padelle e le flebo , il sangue e l’ orina: “Io ho fatto Tarzan, io. Ho vissuto nella jungla. Che ci faccio ora qui, nella merda?”, diceva.

3.Il meraviglioso privilegio dell’arte – scrisse Baudelaire – è che lo spaventoso, espresso con arte , diventa bellezza , e che il dolore ritmizzato , articolato , riempie lo spirito di una gioia tranquilla... Ma non è così, non è così, protestava Maurizio. La sua vita è stata solo inferno, senza requie…la morte è stata per lui liberazione. (“ Non ho paura della morte, vorrei morire per non soffrire”)
A San Pio , al suo funerale , un funerale povero , di quarta classe , eravamo tutti atei , silenziosi. Nessuno che sapesse rispondere al prete, nessuno che volesse dire un amen. “Esce di scena un artista che amava la notte il mare e l’aria aperta” , disse poi Tonino Caputo, rievocando gli anni dell’infanzia e della giovinezza e i viaggi a Roma. Sembrava un funerale alla chetichella, da consumarsi in fretta in fretta. La bara e il corteo entrarono nell’ingresso di servizio per lavori in corso al portone principale della Chiesa, la cerimonia fu rapida, scarna, essenziale, da tomba sul mare , mancava solo un fischio prolungato, lontano, e la bara che scende giù , nel gorgo, coi marinai ritti sull’attenti, a poppa della nave. Un funerale davvero povero e grigio, con quattro gatti, i pochi amici veri, e una serie di flash irrelati di memoria, che ciascuno si portava con sé.


4. Edoardo che ride con quella sua risata fragorosa , ride e scorreggia , scorreggia e ride , e poi orina addosso all’amico dall’alto del susino, come farebbe Tarzan con Cita nella jungla. Con il fotografo e Antonio Verri , - raccontava Nocera – una sera siamo andati a casa sua, con tante belle domande in testa . L’omone era abbronzato , beveva vino e birra a gogò , ma non diceva niente. Edoar, barbaro giocoso , ti ricordi di Frances, la marsigliese , di quel Natale passato con lei alle Cesine ? , gli diceva Verri ; e il falò dei quadri che bruciasti alle spalle del Castello Carlo V, tu insieme a Saverio Dodaro, te lo ricordi? E l’olandese volante con la sua Ford tulipano , l’auto-dormitorio-ufficio-alcova? Quante scopate in quell’auto, eh? E lui: “Natale , Pasqua , e gli altri giorni . Tutti uguali , tutte cazzate…Gli artisti sono tutti merdosi…”.
E la musica cinese , e la filosofia orientale , il pagliaro della spiaggia di San Cataldo, dove passavi le tue notti insieme ai sorci e mettevi da parte le patate bollite anche per loro? Sono tutte cose – continuava Nocera - che trovi in quel gioiello di libro che è “Edoardo”, Edizioni d’Ars, 1998, di

Antonio Massari, fraterno amico d’infanzia di De Candia . E’ uno che vive da molti anni a Milano, uno in gamba, che ha trovato la propria strada. E’ il figlio del celebre pittore Michele, lo ricorderai, uno dei più significativi della stagione d’oro leccese. E’ pittore anche lui ed è bravo, ma è anche uno scrittore vero , uno che scrive da dio.

5. Edoardo fu il primo figlio dei fiori del Salento , uno di quelli che fate l’amore non fate la guerra…(“Solo amore amore, niente altro, solo amore. Senza amore noi muti rabbrividiamo ”) , ma non ha mai mosso un dito per fare qualcosa di concreto , con costanza, con applicazione, con serietà. Niente. “Solo pittare , sempre pittare, e lavorare mai”?, gli dicevano padre e madre. Ha fatto di tutto per annientarsi…Alla fine i genitori lo hanno fatto rinchiudere in manicomio e così sono riusciti a fargli perdere quel minimo di contatto con la realtà , realtà che non capiva e non amava. ( “I miei genitori erano colpevoli, ma i medici erano ancor più fessi e colpevoli di loro”)
Lecce gli stava stretta, lo soffocava. E allora eccolo a Roma , la Roma della dolce vita di Via Veneto, delle trattorie e delle baldorie trasteverine , delle passeggiate sotto i platani barocchi , i musei foderati di travertino . “Si beveva e si leggevano poesie con Carmelo Bene e Ugo Tapparini , si leggeva spesso “Il poeta contumace” di Corbiere tradotto dal grande Vittorio Pagano , quello dell’atto definitivo. Sì beveva e si andava a donne , si beveva e si
pittava , si faceva arte…. Con la vendita dei nostri quadri Carmelo affittò il teatro - laboratorio in via Roma libera dove ci fu la prima minzione in pubblico da parte di Alberto Greco, il pittore argentino morto suicida a Parigi, e subito dopo quella dello stesso Bene. Edoardo dormiva , o stava sotto i monumenti , gli archi e le colonne , pieno di stupore , come un gatto randagio o un Cristo a ridere , a gola aperta e denti scoperti.

6.Molteplice e simultaneo , nodo continuo e vitale . Insonne fumatore che dialogava con i merli e dava da mangiare ai piccioni di piazza Duomo, che gli facevano ressa attorno, gli facevano un concerto d’ali , un comizio grigio, come a un San Francesco salentino. E lui rideva , rideva con la bocca ormai sdentata, e non sapeva più dove mettere la lingua . E quella pancia dilatata e orribile , quel viso ultimo stravolto , muto , assente .
Maledetta puttana della morte, eccolo il Cavaliere nero , stremato, l’ex gigante , il vikingo di via Monte Sabotino che fa rutti e scorregge ad ogni angolo di strada , il cavaliere visionario con la carne nera e bucata , pieno di pustole , pus e sangue , e croste di sabbia . Eccolo , il più talentuoso dei pittori leccesi , il pattinatore folle dei marciapiedi , il pettinatore delle comete d’agosto che dipinge nudo i suoi nudi quadri , le suo opere d’arte tra l’informale e il materico , e l’arte del corpo , eccolo col foglio di carta a terra , pieni di cerchi spezzati e colori intensi , segni folli , accesi, malati , eccolo che dà pennellatacce rosse e disperate (“ il rosso è il colore del fuoco , del sangue, del vino , della vita”), e lui , maldestro gigante , brutto e cencioso, con il culo di fuori e lo scroto pencolante ( “Io sto sulle palle a loro e loro mi stanno sulle palle a me”) Eccolo “nel vano tentativo , durato tutta una vita, di trascinare nel maleodorante antro angusto la radiosa aristocrazia del mare e gli spazi profumati di luce , dei boschi, con il vento che lievemente gli accarezzava la bella chioma stinta di alghe selvagge” . E poi fuori da quel tugurio eccolo per le strade di Lecce lungo la teoria , la processione dei Bar , ormai tutti chiusi per lui, Santo Bevitore, tranne uno, che non vuol far sapere chi è. No, non era un bel vedere questo mendico cencioso, questo carro armato di stracci e di sporcizia che si spostava da una strada all’altra della città, ormai privo di sé e di qualsiasi aggancio con la realtà. L’avevano voluto pazzo a tutti costi e tale s’era ridotto, dopo centinaia di elettroshock , anni di ricoveri, migliaia di sedativi e docce fredde. Era ormai per tutti lo scemo del villaggio, il pazzo di Lecce.

7.Un tempo prendeva la strada per il mare , a San Cataldo , undici chilometri di timo , di odori di sabbia , per fare il bagno nudo integrale , e dipingere qualche marina , un viaggio nel colore, con le cabine senza pareti , e il mare che debordava nel vuoto che delimitava i grandi fogli da disegno , e poi il disegno fulmineo , le donne nude e prosperose , il geometrismo fallico , i suoi dialoghi con la vagina ante litteram , i tanti disegni erotici di stampo picassiano.
Mastodontico tumulo di carne con un’anima fanciulla , che dipingeva a larghe pennellate come un Matisse salentino, creatura kafkiana , metà sogno e metà circo ambulante , replay impossibile di un mondo che non esiste più , che forse non è mai esistito , la tua non fu la morte lenta e inesorabile del trasgressore. No, non ci fu alcun eroismo. Tu avevi lasciato questa terra inospitale molto tempo prima , in punta di piedi. Quello che parlava agitando le mani come mannaie era solo un ectoplasma , un fantasma invendicato , un anima implacata e amara che cercava ancora un paradiso che non c’è , una pace che non esiste. Il tuo riposo del guerriero, del ribelle creatore , il riposo del settimo giorno , nell’appagamento dell’uomo e dell’artista incompiuto non c’è mai stato. Tu , Edoardo, sei fallito in tutto, perfino “artisticamente”, se è vero come è vero che nonostante celebrazioni, libri, simposi, film su di te, di amici ed estimatori, ancora nulla di concreto han fatto le Istituzioni, i Critici d’arte che contano, i Grandi Mercanti Nazionali e Internazionali. Tutto ti hanno sottratto i raccoglitori di sterco , gli affaristi a buon mercato . Un poco alla volta ti hanno svuotato del tutto , completamente , finchè è rimasto solo il Matto , un uomo disabitato , una gigantesca crisalide , un immenso involucro , un buco nero , un deserto con gli ultimi fuochi, gli ultimi bagliori per stupefatte parole di cristallo e fulminei incontri. ( “Non ho amici, io sono solo, sperduto, abbandonato”). Ma questa è forse la sorte dei veri profeti, la sorte dei veri poeti.

8. Ricordo l’ultima stretta di mano , l’ultima immagine della sua stanza-cella-catacomba , l’ultima beffa , con le marine a cinquemila lire e gli oli e le tempere sciolte nell’acqua dell’Adriatico , paesaggi ghignanti che si disgregavano il giorno dopo come nelle dissolvenze narrative di Borges. Splendido e dannato , teorizzatore di farisei , amico del manicomio, gran campo di grano bruciato , anima diseredata , anima da negro , drop out , ultimo
della terra , amara radice , sempre perennemente in fuga dal microcosmo salentino, dalla “maledetta Lecce” da cui non potevi star troppo lontano.…No, - diceva Antonio Massari - quello che mi stava davanti non era più Edoardo , che era alto come il più alto dei pini di San Cataldo , non era più Odoacre il maestoso , il nauseato, il puro, il bellissimo ….In fondo la bellezza è qualcosa di difforme e niente di più…Non più illuminazioni , né canti di Maldoror , non più Sartre e Juliette Greco, ma una sedia , un povero letto, una prigione putrida che puzza di piscio , di vernice e roba andata a male. E un corpaccione nudo, sgraziato, lento a muoversi, lento a comprendere, tornato analfabeta come un uomo delle caverne. Pitta non sa che cosa , non mi riconosce più, non sa più parlare , nemmeno cogli occhi..

9. Rivedo quella sua marina con le spume che camminano , quella marina sbarrata dagli alberi listati a lutto per il controluce , e gli alberi e i giunchi in primo piano che sono sbarre di prigione composte con tre pennellate . Sabbia mare e cielo. Il mare. L’unico vero suo grande amore , il mare che lui amava e da cui si sentiva riamato. Un paracadute, una pianta , un giglio e un bacio sulla bocca …e poi verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

10. Vendeva marine a diecimila lire ai passanti di via Toma: “Vuei cu tte li ccatti?” Non ne ho comprati nessuno , dice un barista. Che peccato, chissà quanto valgono adesso, vero? Niente, non valgono nulla. Non avere rimorsi, barista-birraio leccese. Sono come lui. Campioni senza valore…Poco prima della morte era bello come un Cristo deposto .Non dipingo più, diceva, non ho testa . Era immenso come un campo di grano dentro un piccolo letto stretto , una sedia e un comodino un armadietto coi ritagli di carta , la finestra aperta, l’aria agonizzante come in un orinatoio pubblico; al di là della porta a vetri un cane latrava , lui si era risvegliato, madido di sudore. Gli asciugai il viso col fazzoletto. Se lo lasciò addosso, come un sudario. Erano le prove mortuarie. “Lo rivedo in fondo al tunnel di tigli camminare come sul fuoco”. Era un creativo, ma sai a questa latitudine nostra, a questa latitudine del tacco, la
fantasia, la creatività non basta , ci vuole di più, ci vuole carattere , ci vogliono le palle e lui , pur essendo un gigante ,le palle non ce l’aveva proprio. Anzi. Era di una sensibilità femminea, come spesso capita alle nature creative.

11. Molti anni dopo questo incontro con Nocera , un altro amico comune , un poliedrico, che ha diversi registri, diverse scansioni, diverse tonalità, diversi gradi di sensibilità , e una lampada sempre accesa con cui cerca “l’uomo”, parlo di Elio “Diogene” Scarciglia, poeta dell’immagine , mi fa avere un suo libro con annesso documentario in dvd dal titolo emblematico, “Sembra quasi che il sole tramonti”, Terra d’Ulivi, 2007 . Ed è per me come un volo di Icaro . Vi ricordate quel famoso quadro di Matisse , quella figura appiattita e nera nel
cielo azzurro durante la sua caduta libera tra le stelle? Il figlio di Dedalo , sciolte le sue ali di cera al sole , continua a precipitare nella notte cosmica simile alle notti insonni di Edoardo , in fuga perenne dalla realtà, dai suoi mali e dalle sue angosce. “Me ne fotto della vita, con la morte ho un rapporto , con la morte…Me ne vado in cielo , me ne vado in mezzo agli angeli, alle sante, alle madonne” . Elio , ha realizzato un’opera di scavo, di grande sensibilità, in cui arte e vita vanno insieme fino alle estreme drammatiche conseguenze. “Bisogna dire – scrive Carpentieri –
che il documentario affronta la figura di De Candia dal suo interno, in una sorta di dimensione - e forse proprio per questa lenta per ritmo - che lo mette a nudo e lo rivela in tutta la sua complessità emotiva …seguendolo in un percorso temporale a cui danno immagine il giovane Emanuele Scarciglia ( molto somigliante nel ruolo di Edoardo) e voce tanti volti noti della cultura leccese, alcuni dei quali amici storici dell'Artista”. Elio ha voluto spazzar via ogni residuo di retorica sul clichè tardoromantico dell’artista maledetto , ha bruciato sull’altare della verità e dell’onestà intellettuale ogni falso sentimentalismo, ha fatto un falò d’ogni pregiudizio , ma anche di ogni dietrologia . Si è sforzato di mettere a nudo , e a fuoco, il personaggio , nella sua complessità, nelle sue mille e una sfaccettature, personaggio che lui non aveva conosciuto, in quanto si trovava lontano da Lecce e dal Salento. Ed è riuscito a mio avviso a restituirci un Edoardo vivo , con la sola forza dell’immagine e dell’evocazione Nessuna immagine patinata o convenzionale, nessun volo pindarico, nessuna forzatura , ha fatto parlare e vivere il pittore attraverso i fatti, le sue parole e le testimonianze di tutti quelli che l’hanno conosciuto . Poi ha steso il tutto su un grande pannello, come un grande unico quadro, e , per velature, ne ha
delineato i contorni, sfumato le immagini in un narrato essenziale, con musiche originali di Andrea Senatore . Poi ha raccolto tutte le opere che poteva , tempere e disegni , le ha fotografate da par suo , e ne fatto un libro , un mazzo di fiori straordinario dai colori incredibili , che stanno lì a testimoniare il talento mostruoso di questo artista originalissimo, unico, con una energia , “una forza extraumana che imprime nel suo segno eroico forte di secoli, di millenni” , come disse Raffaele De Grada.
Scarciglia non ha toccato una virgola del poema tragico che è stata la vita di Edoardo, eppure nulla è più suo di questa ostensione che il pittore leccese fa di sé stesso, vera e propria sindone di carne e sangue, ostia consacrata all’arte con la sua faccia da strega spagliata, la bocca sdentata, le bave e li dderrutti .Lo fa rivivere percorrendo traiettorie rischiose, insidiose, “in un flusso di ricordi, emozioni, allucinazioni…un ritratto ispirato e poetico…un omaggio commosso ad un artista che attende ancora il riscatto”.

12.Sì, questo gigantesco danzatore di nuvole si è spezzato mille volte prima ancora di esibirsi al pubblico- , e parliamo di palcoscenici importanti, Milano, Roma, Firenze, Parigi, Londra ( “La moglie inglese di De Gasperi aveva spedito i miei disegni ad un’accademia a Londra, così mi hanno invitato”) , - con la sua grazia suprema, quella grazia e leggerezza che ritroviamo nei suoi dipinti, nei suoi disegni che si fanno sempre più essenziali, infantili, assoluti .


13.Basta vederlo all’inizio del film quando fa il Tarzan nella jungla di un giardino leccese , inseguirlo nelle marine leccesi, alle Cesine, dove era stato “con una marsigliese bionda, alta robusta…e poi con una sedicenne di Francavilla che sembrava un ‘amazzone”…e poi a Torre Venere , a Torre dell’Orso, a Sant’Andrea , alle Pajare , e in tutte le marine in cui faceva il bagno nudo ( “perché mi sento libero e fresco , naturale , a contatto diretto col sole e col mare. Le pezze me dannu fastidio” ), inseguendo il vento , i gabbiani e i sogni vesperali, urne d’azzurro, scintillazioni di linee, increspature, fratture tra finzione e realtà, linguaggio e idealità, tra volere e potere , tra aspirazione e fine. Il mare diventa tutto per lui , non può farne a meno, tutti i giorni , a piedi, estate o inverno, va al mare, mangia coi topi, dorme nei boschi, tra i pini marittimi , gli eucalipti , il rosmarino e il mirto , o “inthra li pagghiari “ , come scrive Antonio Massari nel suo più volte citato bel libro. Il mare è finestra e specchio dell’anima , silenzio e lungo vuoto , passato e futuro, angoscia e felicità. Non può farne più a meno, come dell’arte a cui è stato chiamato ancor prima di nascere.


14. ”L’arte può tutto, l’arte è vita , - dice Edoardo- , e tutto si può permettere un artista , ogni cosa, la più assurda , la più fottuta, tutto…. Io so’ Picasso e Michelangelo , Klee, Mirò e Braque…io so’ il vento , io so’ il mistero…Gli altri vivono a spese degli artisti…Gli artisti creano e loro?...Tutti parassiti , tutti magnaccia” . E ride con l’ebbrezza del cuore, il canto e il grido che si fanno colore vivo, passione, il prodigio che si fa linea, paesaggio, orizzonte marino, corpo di donna nuda, e poi giù, giù, senza più difese, senza sovrastrutture , senza compromessi , senza spazi in cui trovar riparo, senza nessuna possibilità di sfuggire al proprio destino di “diverso”, di angelo martire dell’arte , eccolo affondare nelle tenebre, nella fredda notte , e un brivido lungo di fronte alle palude degli uomini dabbene, a quei mostri spaventosi di indifferenza che siamo tutti noi quando attraversiamo le strade di Lecce , o di qualsiasi altra città del mondo , senza accorgerci di calpestare anime fragilissime ,meravigliose e nude come la sua.

15.Edoardo si è oscurato man mano , nei bordelli, nelle carceri, nelle osterie a bere “vino e malinconie”, tradito e abbandonato dagli amici, ma anche dai tramonti, dai notturni del proprio destino , che erano dentro di lui, inadatto a vivere in questo mondo dove i pastori fanno saltare , a pietre, i denti ai vari don Chisciotte di turno, dove ogni giorno viene impiccato o bastonato un poeta , come capita a lui , a Bari, dove viene massacrano di botte , mezza faccia ridotta a “marangiana” perché si permette di “disfiorare appena una ragazza ( “Pure qualcuno ti disfiorerà, bocca di sorgiva”) . Torna a casa. Non può più dormire con la finestra chiusa, e la povera madre, di notte, d’inverno, la chiude. Allora lui scardina infisso e bussola e scaraventa tutto in giardino, sotto i due limoni e il mandarino dormienti. Il padre lo fa rinchiudere in manicomio, oggi “Opis”, Ospedale Psichiatrico Interprovinciale Salentino. E qui gli cingono le tempie con la corona non d’alloro , ma elettrica. Una lunga serie di elettrochocks e di docce gelate, l’ultimo affronto alla sua dignità. E l’ anima si fa man mano estranea a se stessa , l’anima diventa prigioniera , non sa più sfuggire alla trivialità del “progresso” in cui si traveste il tempo finale, non sa più ritrovare il profumo dei fiori e quello del mare cobalto blu, in mezzo alla immondizia e al catrame, all’odore del sangue e dell’orina degli ospedali. Che cosa orrenda, che lamento e che grido di dolore senza fine, che bandiera di carne sanguinante, povero Edoardo , tu, anima libera e gioiosa tra i venti e le nuvole , i boschi e le stelle , rinchiuso come animale in gabbia! Quel manicomio di Lecce è il nostro vivo rimorso , le macerie di una memoria tutta da ricostruire e da ricomporre.... quella tua esistenza sospesa tra il mistero e l’irrealtà.
.

lunedì 17 novembre 2008

Giacinto Urso: saper fare i cittadini




1. Quando compì gli ottanta anni, Giacinto disse basta. Lasciatemi alla mia vecchiaia , che è un dono. Lasciate che ne faccia un dono a me stesso . Ottanta giri di boa, ottanta giri di vita solari, trasparenti, incredibilmente belli , come possono esserlo i sogni del prato , o delle vele sul mare , le signorine con l’ombrellino di Monet , i notturni di Chopin , o i capelli biondograno di una fanciulla che ti cammini di fianco . Come possono esserlo gli occhi misteriosi di un vecchio come lui , che si è imbiancato tutto, capelli , barba e pelle , quella pelle saracena che ha perduto l’antico olivastro, ma il suo sguardo d’iridi castane si è fatto più luminoso, più maestoso.


2.Parliamo di "don" Giacinto Urso , l’onorevole, il presidente , il difensore civico , il galantuomo specchiato , sia nei modi che nelle azioni. Uno che sa essere poeta con lo sguardo che si inazzurra di mare salentino, sospeso com’è tra Nociglia e Marittima , la patria dei “Nuzzo” ( tra i migliaia c’è anche il mio “Uccio Nuzzo”, sottufficiale al demanio, che , nei lontani anni settanta , portava all’onorevole il rinnovo della concessione per un varco di accesso al mare) .

3.Dicevamo dell’Urso poeta nello spirito , ma lui è conosciuto soprattutto come uomo concreto, pragmatico, uomo d’azione, che ha passato una vita intera al servizio della gente ( e non è un modo di dire, ma piuttosto un modo di fare). Ora, a ottanta anni , voleva riposare, voleva meditare sul senso dell’esistenza e sul senso della morte . Che volete da me, sono uno che non ha mai impugnato la spada, nessuna Gram, né Durendal, né Joyeuse , né Excalibur , uno che non ha varcato alcun mare, nessuna frontiera , né scalato alcuna montagna.


4.Sono un uomo semplice , devoto di una vita fatta di principi elementari e rigorosi, vita da contadini del Salento, la mia terra, la mia patria. E se ne andò a meditare su Parmenide di Elea , sulla sua dottrina secondo la quale l’universo, compresi il tempo e lo spazio e forse anche noi, non è altro che un’apparenza o un caos di apparenze. Ma Nicola Apollonio gli ricordò i Codacci Pisanelli , i Ciampi, gli Andreotti , i Montanelli, i Nobbio , perfino le Levi Montalcini , tutti vivi esempi di grandi vecchi che sono stati , o sono tuttora , sulla breccia. E poi – gli disse - tu sei sempre stato un uomo onesto e coraggioso , uno che non ha mai vissuto i drammi dell’onore, che non è stato mai inseguito dalla vergogna di aver ceduto alla paura , mai stato inseguito dalla tua coscienza morale che ti impone sempre, incessantemente , di cercare il bene, per riscattare qualche sua debolezza, fino al sacrificio estremo di te stesso . Sei stato deputato per cinque legislazioni, Sottosegretario alla pubblica istruzione, Presidente della commissione sanità , Presidente della Provincia di Lecce e per molti anni Difensore civico della stessa , Sindaco di Nociglia, Presidente di non so quanti Enti e Isitituzioni e ti sei rivelato per quel che sei, un libro aperto , che distribuisce pillole di saggezza e di buonsenso ; sei un uomo onesto e illuminato, che si è dedicato sempre agli altri, che non ha mai vacillato di fronte alle proprie responsabilità. Non puoi mollare ora. Aspetta ancora un po’, Giacinto ...

5.E lui si lasciò convincere, soprattutto in nome della antica amicizia, continuando a scrivere per Espresso sud nella sua storica rubrica “parliamone insieme”. Con grande soddisfazione e gioia per tutti gli affezionati lettori, che riconoscono il suo indubbio fascino carismatico proprio nel suo atteggiamento improntato sempre a modestia , umiltà, buonsenso, saggezza. Ma forse il suo segreto vero , quello che gli ha dato giusta fama e considerazione , è stata la tolleranza in un paese di intolleranti e faziosi come il nostro , irreparabilmente provinciale, polverulento e prosaico la sua parte. Anche da politico , Giacinto Urso non è mai ricorso al sistema del melodramma per difendere i diritti della sua regione, e della sua gente, non ha mai fatto ricorso a iperboli o a toni enfatici, per farsi ascoltare e prendere in considerazione dalla gente.


6.Ha messo sempre al primo posto la dignità personale, la fierezza di uomo del sud, ha trovato sempre il coraggio di dire la verità, per sgradevole che potesse essere. Dopo sessanta anni di attività pubblica , ha continuato il suo impegno con lo stesso entusiasmo , la stessa determinazione , lo stesso desiderio di conoscere , di imparare, di perfezionarsi , di quando aveva vent’anni . Uomo onesto e saggio , d’accordo, ma anche uomo che crede negli ideali , che abbraccia l’orizzonte luminoso della Messapia, la terra fra due mari , la penisola salentina immersa in un oceano di luce , “ con la sua corsa di uliveti piantati in una terra rossa e grassa che d’improvviso precipita nelle acque maldiviane dello Jonio e dell’Adriatico” ; l’uomo dai due volti profetici che scorgono il passato e il futuro , l’uomo del conforto e del coraggio , che dice ciò che pensa , e denuncia ritardi , pressappochismi e scadenti furbizie nella roulette turistica salentina , capace di fare autocritica , e di dire un no , quando è necessario .

7.Uomo vocato alla difesa della giustizia , garante delle conquiste sociali e civili che il popolo stesso democraticamente si è dato, ma anche fortemente critico, quando occorre, anche bei confronti della sua gente. Non aspettiamoci – dice – “uomini della provvidenza”, ma aiutamoci da soli che Dio ci aiuta, e nessun discorso da “lacrime e sangue”, ma piuttosto rimbocchiamoci le maniche e produciamo da noi stessi la nostra qualità della vita e la nostra salvezza. Da antico cultore dei valori della democrazia, si è sempre richiamato alla Costituzione, la Bibbia del nostro vivere civile, letta dal non più del 5 per cento dei cittadini italiani.


8.Nel suo volume “ Storia e storie” dice che è facile essere i cittadini , molto più difficile ( e stimolante ) è "fare i cittadini “ E fare i cittadini è il miglior modo per esserlo". Elementare , Watson! Sì, ma è un monito prezioso e impegnativo , un programma d’intenti per ciò che finora non si è fatto, il dovere civico. Diciamolo pure che oggi è una cosa che riguarda pochi .


9.Sono molti quelli che se ne fottono dello stile e della forma, ergo della buona educazione. E invece no, dice Giacinto. Bisogna "fare i cittadini" proprio per recuperare quella forma perduta , e poi “”perché è un compito originale che si personalizza in ognuno di noi e consente di esprimere talenti e modi di vita, sentimenti partecipativi e propositivi, tesi a caratterizzare la società e la comunità, ad affrontare la quotidianità, a risvegliare la buona memoria storica e a renderci protagonisti del futuro. Concede la libertà di opinioni, la diversificazione di pensiero, l'inclinazione ad unirsi agli altri, l'intraprendenza a saper costruire la "città dell'uomo", piccola o grande sia la terra delle nostre radici””.


10.In occasione della presentazione del libro gli è stato chiesto di fare un bilancio di questi 60 anni di vita pubblica e lui ha detto ma che volete che bilanci faccia, ho vissuto intensamente , tentando di promuovere e raccogliere il meglio che ho saputo fare in un campo così magmatico e insidioso , da sabbie mobili , qual è quello dell’attività pubblica. E ho commesso un sacco di errori, omissioni, debolezze , perché sono un uomo e un uomo non può essere perfetto , può solo aspirare ad esserlo , e ci vuole sempre l’aiuto del padreterno. Ma un dato mi risulta costante. Sono stato severo con me stesso, le indulgenze le ho riservate al mio prossimo: ho vegliato nell’impegno e non mi sono mai risparmiato nel fare il cittadino in senso compiuto, totale, ascoltando tutti , dall’usciere al mio venditore di sigari , ho cercato di essere vicini a tutti , di dare a tutti un sorriso, una parola buona, un po’ d’affetto , facendo tesoro degli insegnamenti di tutti, perché qualsiasi essere umano ha qualcosa da insegnarti, ed è sempre più quel che tu ricevi dagli altri piuttosto che quel che dai.

11.Che futuro avrà questo paese? Non sono ottimista, a dire il vero. Ma non aspettiamoci aiuti dall’alto. Il Buon Dio ha ben altro da fare. Il futuro ce lo facciamo da soli , è nelle nostre mani, di noi cittadini, di noi elettori, ma dobbiamo avere il coraggio di uscire allo scoperto , mentre oggi tutti sembrano voler vivere nelle proprie tane e costruirsi rifugi antiatomici , bisogna uscire e fare veramente i cittadini.

12.In fondo ho cercato sempre la normalità , ma la normalità , in ogni tempo, è dura da perseguire , e si sconta pagandone un alto prezzo. Ora con quella stessa normalità che lo contraddistingue , traversa il prato di Nociglia, quel prato che calpestarono mamma Virginia e papà Vito, il fratello Antonio e la sorella Elena, e dice basta davvero. Ho quasi ottantatre anni , caro direttore, e stavolta mi metto a riposo, ringraziandoti di tutto lo spazio che mi hai concesso per esprimere il mio libero pensiero. Sono al tramonto , è un dato innegabile , e voglio tramontare bene , senza far credere di essere un astro perenne, sarebbe ridicolo. Ma rimango a disposizione, come fanno i vecchi soldati della riserva, o meglio quelli della ausiliaria, che pare sia stata abolita . Insomma, la penna non la depongo ancora del tutto. Ma tu, insieme a tutti i tuoi collaboratori, continuate a percorrere questa strada, è utile, è importante, è necessaria per il Salento , la Puglia e per il Sud d’Italia.

13.Ed eccolo, lo vedo, ora, attraversare quel prato verde del sogno , e perdersi nell’ora di quella sua sera, lieve creatura fatta di notti e giorni , di memoria e di oblio, come tutte le creature , quasi un sogno fuggitivo , ma un sogno che dura, e che durerà ancora a lungo nel tempo.