domenica 4 gennaio 2009

Beppe Fenoglio il guerriero timido



1.Beppe Fenoglio era tutto sincerità , incapace di qualsiasi tipo di menzogna , tagliato con l’accetta della Langa che “s'allarga al deserto del mondo quando l'uomo preferisce aprirsi la strada da solo”. Era un uomo di una dura tenerezza , un inscalfittibile guerriero balbuziente , trasparente e fragile come il vetro soffiato , un uomo immobile sempre in fuga inseguito da pallottole e pensieri , un timido e feroce Lawrence delle Langhe , (gli mancava solo il barracano) , uno che si credeva brutto , ma sapeva d'essere straordinariamente affascinante: "...hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma complessivamente sei brutto...Ma non sei poi così brutto. Ma come fanno a dire che sei brutto? ..Lo dicono senza... senza riflettere..." .

2.“Beppe – dice Davide Lajolo , suo impareggiabili biografo , amico e conterraneo- aveva la statura dell'olmo che il contadino pota perchè i rami nuovi siano alti e robusti. Era alto, con quelle sue gambe impossibili, lunghe, dinoccolate, quasi a ripeterne il motivo del naso allungato...Era solido come le piante nel vento, con i piedi e anche la testa piantati nell'avaro humus delle sue colline. Aveva la faccia disuguale , solcata da rughe profonde come lassù la terra screpolata ai margini dei castagni di confine....Me lo ricordo con quell'aria assorta in cui prendevano fuoco gli occhi grandi, lucenti nelle pupille dove nascondeva tutta la tenerezza. Era un " barbaro" civilissimo , con caratteristiche indelebili e non ripetibili, un 'irregolare' regolarissimo.
Anche le sue parole dei libri che cadono sulla carta sono "pesanti come la zappa quando cade sulla terra gerbida", parole che venivano da Alba, dove c'era la pena del vivere come realtà, il gusto del poco pane e il bisogno della dannazione, ma anche parole antiche , parole bibliche, da diluvio universale: «Il sole non brillò più, seguì un'era di diluvio. Cadde la più grande pioggia nella memoria di Johnny: una pioggia nata grossa e pesante, inesauribile, che infradiciò la terra, gonfiò il fiume a un volume pauroso ("la gente smise d'aver paura dei fascisti e prese ad aver paura del fiume") e macerò le stesse pietre della città».

3.Fenoglio è davvero unico , sia come uomo che come scrittore . Avvolta nel fitto groviglio di una inestricabile questione filologica, la sua scrittura , ritenuta per molto tempo neorelista o neoverista , era sostenuta da un tenace , disperato progetto di stile . Così disperato e appassionato da evadere dal proprio luogo naturale ( la lingua italiana, la sua radice dialettale ) e aggrapparsi , ri-radicarsi a un altro, estraneo , esterno, lontano territorio: la lingua inglese. Questa lingua che Fenoglio non aveva studiato all'estero , o in eleganti collegi internazionali , ma in un modesto Liceo di provincia ( dove peraltro era entrato per il rotto della cuffia , perché i suoi genitori volevano mandarlo al Tecnico) ; questa lingua straniera che aveva studiato soprattutto a casa, sui classici ( Shakespeare , Marlowe , Coleridge , James, Conrad) fu la lingua della sua salvazione. Anche se l’inglese di Fenoglio fa ridere chi la parla e la scrive come ad esempio la nostra amica Cinzia da Boston, egli era convinto di maneggiarla al meglio. Infatti annotò : "Potrà forse interessare questa piccola rivelazione: “Primavera di Bellezza” venne concepito e steso in lingua inglese . Il testo quale lo conoscono i lettori italiani è quindi una mera traduzione".
Ma Fenoglio non era solo un autodidatta , era un solitario , lontanissimo dalla società letteraria e dal mondo editoriale ." Era diverso da come siamo in genere noi letterati. Non si faceva avanti , non chiedeva niente a nessuno...E poi i suoi libri non erano prodotti finiti", dirà Bobbio, ammettendo di aver sbagliato giudizio su di lui.

4.La sua lingua in realtà era – dice Beccarla - una lingua filmata, tutta azione, in totale assenza di vibrazioni patetiche. In essa poco è concesso al piacere della descrizione, all'uso lirico; il paesaggio stesso, cui si dedicano rapidi eccezionali momenti, ha un carattere soltanto funzionale per l'azione, tanto è stilizzato, raccorciato al massimo”

Per tutta la vita , Beppe lavorò in una casa vinicola piemontese e non si spostò mai dal suo paese natale, la mitica Alba delle Langhe, e tuttavia in cuor suoi aspirava a diventare un "classico" nel senso vero della parola , ossia come chi tenta di trasformare l'esperienza in memoria , di affermare la memorabilità degli eventi narrati. E Fenoglio oggi è un classico della nostra letteratura , come sostiene Gian Luigi Beccaria: “ Se è vero che la letteratura è ciò che è cambiato di meno, da Omero a oggi, questo è il caso delle pagine di Fenoglio, che muovono quasi tutte intorno ai problemi ultimi, fondamentali, variati e variamente approfonditi lungo i secoli: il destino, la morte, la pace, la violenza, il cielo e gli inferi, l'eden e il caos, l'amore e il tradimento, il bene e il male.

5.Fenoglio è uno dei massimi scrittori del novecento ,uno dei pochi destinato a restare, un classico e lo è diventato, in virtù del suo stile di scrittura e di una sofferenza vera e profonda ( Mi ricorda un po' il "sii grande e soffri " del Giovane Holden ) . Memorabile in sé non è la Resistenza o l'esperienza partigiana del Nostro , ma possono diventarlo se entrano in virtù della scrittura , dello stile , nel tempo grande dell'epica, beninteso con tutte le limitazioni , le sofferenze , le degradazioni che la vocazione "epica" costa ad uno scrittore contemporaneo.
Qualche giorno dopo la sua morte , a soli 40 anni , per un cancro alla gola ,-“ Cristo, è ingiusta questa morte! Perchè non è venuta quando era cercata ogni giorno, ogni ora , ogni minuto in mezzo agli spari, alle imboscate , ai rastrellamenti, alla guerriglia? E' un incubo senza fine...Ora non vorrei morire, no, non vorrei proprio morire. E ricordò come aveva fatto morire Johnny: "La raffica non suonò più forte di un frullo di un uccello, ma Johnny si abbattè con una coscia e il fegato trapassati...qualcuno lo chiamava dal profondo del vallo, una voce già lontanissima...."- Felicino Campanello si presentò con un enorme scartafaccio sotto il braccio presso l'Einaudi. C’erano Elio Vittorini , Italo Calvino , la Ginzburg , e consegnò loro il malloppo : lì dentro c'era "Johnny il partigiano" e tutto il materiale inedito che aveva trovato nei cassetti di Beppe Fenoglio. A vedere la mole del libro il primo a rimanerne impressionato fu Vittorini : "Minchia!, - disse il siculo , - a Beppe gli si è allungato parecchio …il manoscritto!.... E anche Calvino e la Ginzburg scossero la testa. Lo lessero, o forse lo sfogliarono e basta , e non trovarono nulla di nuovo, nulla che valesse la pena di essere pubblicato. – “Felici' , - dissero in coro - riportalo al mittente” . Ma Lorenzo Mondo la pensò diversamente da loro – “aspettate un attimino “- e si mise ad esaminare l'opera , pagina dopo pagina , riga dopo riga e alla fine scelse - tra la seconda e terza stesura - i capitoli che riteneva fossero quelli capaci di esprimere meglio l'epopea fenogliana . E così , grazie a Mondo ( che poi entrò in polemica con la Corti , che rivendicava per sè tale merito) videro la luce “Il partigiano Jhonny ," opera di capitale importanza , uno dei più alti esempi di moralità letteraria e di grande rilievo stilistico , e “ Una questione privata “, che , in seconda battuta , stranamente , tanto piacque a Calvino , che da quel momento si diede
molto da fare , con convinzione, per far intendere al colto e all'inclita la grandezza e lo spessore di un autore come Fenoglio ,defunto ormai da 6 anni..

6.Ma Fenoglio non è tutta “ resistenza”. Uno dei motivi più costanti e pregnanti che inseguono la vita e il lavoro del Nostro è quello della donna e dell'amore."La donna di Fenoglio – scrive Lajolo - è insieme luce di poesia e ossessione senza scampo. Gli riempie il cuore e la testa" . Beppe soleva dire agli amici: - "quella donna mi sta nel cervello" - e contemporaneamente si batteva la mano sulla nuca persino con violenza per significare quanto la fitta fosse profonda.La prima "cotta" la prese quand'era ancora studente liceale , per " Fulvia", che troviamo protagonista in "Una questione privata" , un libro rivelatore anche per questo " dolorante amore". Fulvia è una ragazza di buona famiglia borghese , giovane ricca, molto bella, e corteggiatissima; forse ama , o è affascinata , da Fenoglio , ma si sottomette alle convenienze sociali e al volere dei genitori , senza mai però rinunciare completamente a lui .Gli svolazza intorno come una farfalla delicata , coloratissima, piena di profumi e di incertezze , continuando ad illuderlo e tormentarlo, facendolo passare dall' incantamento all'ossessione d'amore.Molte lettere giovanili di Fenoglio , pubblicate postume sotto il titolo di Lettere a donne immaginarie, sono ispirate da lei e rivolte a Lei , la giovane compagna di Liceo, a " Fulvia dannazione", a "Fulvia splendore" , una sorta di Beatrice tutta fenogliana, che entrerà in un modo o nell'altro nella sua opera , che darà parte di sè a tutte le donne protagoniste o comprimarie nei suoi racconti, ma le donne che hanno contato nella vita di Fenoglio sono diverse.

7.Quando la morte, - che già gli ha tolto la parola, - lo stringe alla gola e Beppe sa di non avere più scampo , su piccoli foglietti raccomanda a tutti la sua bambina. Ed è per Margherita, "Ita" , l'ultimo scritto con mano virilmente ferma , nell'ultimo sforzo, prima che la mano si perda come la sua voce, come l'ultimo respiro."Ciau per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata. Cresci buona e bella , vivi con la mamma e per la mamma e talvolta rileggi queste righe del tuo papà che ti ha amata tanto e sa di continuare a essere in te e per te. Io ti seguirò , ti protegger, bambina mia adorata e non devi mai pensare che ti abbia lasciata. Tuo papà" Subito dopo chiude gli occhi, li serra stretti, ma non riesce a fermare le lacrime.

8.Poi, alla dieci del mattino di quella domenica 18 febbraio 1963 entra in coma e vi rimane fino alla morte, che arriverà ,col suo falcione , all'una e mezza di notte precise.
Si possono scomodare Dostoevskij e Shakespeare parlando di Fenoglio?Certamente, dico io. Beppe non è così immerso nel sottosuolo per ritrovare i semi della rivolta , come Dosto, nè scuote i fulmini dell'universo , mettendo allo scoperto l'eterno dramma umano, come Willy , e tuttavia ha anch'egli bisogno di affondare il bisturi nelle atrocità e nefandezze dell'uomo , per essere più forte di se stesso, della sua limitatezza fisica , della sua fragilità psichica. Usa il bisturi con quella disperata rassegnazione e ribellione della sua gente della langhe, una plaga , una specie di meridione del Piemonte. E riescead ottenere una cosa rara nella scrittura: non solo il distacco da sè, ma il controllo feroce dei suoi sentimenti. La vita povera e miserevole di questi
contadini la racconta, vivendola, con una spietatezza che non si ritrova neppure in Verga. E se Dostoevskij , pur rimanendo dalla parte dell'uomo, è animato dall’ardore di inabissarsi in Dio, Fenoglio è sradicato ogni misticismo fino al punto da far gridare ad uno dei suoi protagonisti: " DIO NON FU MAI CON NOI". Poco prima di morire lascia scritto al fratello Walter , su un foglietto ( la tracheotomia gli impediva ormai di parlare):""Funerali civili, di ultimo grado,
domenica mattina, senza soste, senza fiori, senza discorsi." E prima ancora, appena sedicenne , aveva scritto un altro biglietto , laconico, per il Parroco di Alba: " Da domani non vengo più all'oratorio". E non ci mise mai più piede, nè entrò mai più in una chiesa. E tuttavia non si sognò - mai – neppure per un attimo , di togliere il crocifisso ovunque lo trovasse. Per quello ebbe sempre il massimo rispetto.

Il grido silenzioso di Clemente Rebora



1. Clemente Rebora , un grande poeta da riscoprire ,” un autore ancora per pochi” , diceva Giovanni Raboni. E se ne rammaricava. Quei pochi sono coloro che non hanno un’ideologia dichiarata , ma contenuta , “come un oggetto”Ad esempio , la poesia di Pasolini sta all’opposto, e dice soprattutto ciò che dice ; non è un vero discorso poetico, ma ideologico . Quello di Rebora è invece “polisemia” della grande lirica. Teso al cielo per il quale è fatto, ma legato alla terra, il poeta è un’allodola che canta l'elegia dello schiavo consapevole. E ogni slancio verso il cielo della felicità pare destinato a ricadere dolorosamente al suolo:
.

“O allodola, a un tenue filo avvinta,
schiavo richiamo delle libere in volo,
come in un trillo fai per incielarti
strappata al suolo agiti invano l'ali”.

2.Le parole della sua poesia “ continuano a significare qualcosa che hanno già significato prima, segnate come sono, anzi 'deformate' da un uso anteriore, tratto che si trova, peraltro , nello stesso eccellente poeta milanese da poco scomparso. “Sul piano del linguaggio poetico,- osserva l’ottimo Antonio Stanca - l'aritmicità strofica, l'assunzione eccentrica di un lessico composto, sforzato a esprimere concetti inusitati nella tradizione letteraria italica (ad esclusione della concitata scrittura iacoponica) imprimono al messaggio ecumenico di Rebora il ritmo di una meditazione sconvolgente. Ma “non è confinabile nell'ambito della produzione poetica di matrice religiosa e cattolica, di cui del resto testimonia la forza e vitalità all'interno della regione italica. E’ un poeta della contemporaneità, capace di interrogare il mondo e che ci interroga, di gettare un ponte tra visibile e invisibile, tra fisica e metafisica e da questo punto di vista accostabile a Hopkins, Eliot. Un "reborismo" presente anche in altri autori successivi come Pasolini, Luzi, Turoldo. Nella sua ricerca dell'essenziale, opera alla radice e all'origine della parola umana. Biograficamente si chiude, si mura vivo, ma continua a cercare drammaticamente le parole che dicano l'illegibile della realtà”.


3.Ed allora eccoci ancora una volta a rifare le gerarchie letterarie del novecento , a ridipingere ,” nella penombra della fiamma” , un passato leggendario che non è mai esistito veramente come lo raccontiamo , o come ce l’hanno fatto credere , un passato in cu i ” l’amore – scriveva Rebora - “ pareva cosa umana” e la natura faceva dolce corteggio al passaggio lieve di un’umanità in pace. I sensi “ facevan le fusa, e zampilli i pensieri “, mentre i suoni degli animali, e il vento con le piante , e il mare con l’ onda lunga di risacca , si armonizzavano in un “misterioso concento” . Ma quella vita in cui il mare andava incontro alle notti e gli alberi erano fatti d’aria , e la luna si scioglieva nel sereno ,e tutte le ragazze erano più belle , gli uomini miti , i bambini giocavano felici , e le rose dell’aria fiorivano nelle strade , era un’invenzione della nostra fantasia ; era lontano, solitario e crudele , qualcosa di sottilmente minaccioso. Era il doppiofondo della notte , la luce “inesplosa” del Sottotenente Clemente Rebora che sta sul Carso, in attesa dell’annullamento di se stesso, purchè finisca la guerra. Che venga pure una pallottola e lo colpisca al cuore. Non ne può più di stare come i topi in attesa che tutto affondi. Viene ferito alla tempia dallo scoppio di una granata e ne rimarrà per sempre segnato. Lui sa , ha sempre saputo che , sotterrato sotto un suolo di paradiso, c’è un inferno di metallo e di morte, che aspetta gli uomini incoscienti per donare loro le sue fiamme devastatrici e la morte. E con quella infausta guerra fu ancora strage degli innocenti, il primo frutto portato dall’Incarnazione di Dio. Questo l’avrebbe ricordato molto più in là, Clemente, al momento dell’innamoramento di Cristo:…ammiccando l'enigma del finito / sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno scugnizzo, / dentro gemevo, senza Cristo.

4.Clemente Rebora era nato a Milano, nel 1885, da una laicissima famiglia di origine genovese: il padre, che era stato con Garibaldi a Mentana, tenne il ragazzo ben lontano dai preti verso cui nutriva una grande diffidenza, lontano dal pericolo di esperienze religiosa che gli avrebbero infrollito la mente e il corpo . Lo educò agli ideali mazziniani e progressisti, tanto in voga fra la borghesia ambrosiana del tempo.
Dopo il liceo, il giovane frequenta medicina per un anno a Pavia, ma non è questa la sua strada. Passa a Lettere: l'accademia scientifico letteraria di Milano - presso la quale si laurea - era un ambiente pieno di fervore creativo. Rebora incontra condiscepoli di grande ingegno, con i quali intrattiene appassionanti conversazioni.
Intraprende poi l'attività d'insegnante. La scuola è per lui luogo d'educazione integrale, per formare uomini pronti a cambiare la società; e proprio con articoli di argomento pedagogico comincia a collaborare a "La Voce", la prestigiosa rivista fiorentina per la quale scrivono Sbarbaro, Onofri e Jahier e narratori quali Boine e Slataper («gente che - avverte Gianfranco Contini - sentiva l'esigenza religiosa ... »). Pensa un'arte come testimonianza nuda, autentica, magari polemica, sempre carica di tensione morale ed esistenziale.Come quaderno de "La Voce" esce nel 1913 la sua opera prima: i Frammenti lirici. Il successo è immediato.
Il mio canto è un sentimento /che dal giorno affaticato /le ore notturne stanca: /e domandava la vita.
Alla fine di quello stesso anno conosce Lidya Natus, un'artista ebrea russa: nasce fra loro un affetto che li lega fino al 1919. Ma dopo la tragica esperienza della prima guerra mondiale , Rebora entra nel tunnel della depressione , che sembra senza vie d’uscita , una crisi profonda , totale , tormentosa , senza remissioni ,senza tregua. Solo alla fine, quando tutto sembra disperare , troverà l’antica strada del cattolicesimo cristiano .

5.Nel frattempo torna, faticosamente , all'insegnamento, optando per le scuole serali, frequentate da operai: da quel popolo semplice che egli, con slancio umanitario, ama. Si autoimpone un regime di vita molto austero, devolvendo gran parte dello stipendio ai poveri e spesso ospitandoli in casa. Appare a molti come una specie di santo laico. Ormai è in costante attesa di Dio. Lo si evince dai Canti anonimi:
…non aspetto nessuno: fra quattro mura /stupefatte di spazio /più che un deserto /non aspetto nessuno: /ma deve venire; /verrà, se resisto, /a sbocciare non visto, /verrà d'improvviso, /quando meno l'avverto.
Egli resta ancora “espatriato quaggiù, Lassù escluso».

6.Nel 1936 , superati i cinquantanni, Rebora diventa sacerdote rosminiano. E la sua poesia ,maturata e sofferta sotto il segno di una cupa problematica esistenziale , da poesia urto e contrasto, da poesia realtà, poesia mondo, diviene poesia fede ,ricerca di verità, ansia di certezze assolute – “urge la scelta tremenda/ dire si’ , dire no/ a qualcosa che so”
Dall’esordio con frammenti lirici, tra i frantumi di Boine e i trucioli di Sbarbaro, il nucleo poetico puro di Rebora, sostanziato di autobiografia vissuta , registra inquietudini e tensioni individuali e generazionali, dolenti nodi etici ed esistenziali all’alba del nuovo secolo. In questo periodo «la sua poesia appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è e agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».

7.Ma a ben vedere la poesia di Rebora è tutta religiosa (lo è anche quella che precede la conversione) , e nei “frammenti lirici” , e ancor più nei “Canti anonimi”, il senso religioso si esprime proprio come “sproporzione” che evolve in “domanda” di totalità, mentre gli attimi che scorrono sono come una morsa funerea che aggredisce brandelli di gioia. Nitidamente il poeta lo ricorderà nel Curriculum vitae: “un lutto orlava ogni mio gioire: /l’infinito anelando, udivo intorno /nel traffico e nel chiasso, un dire furbo: /Quando c’è la salute c’è tutto, /e intendevan le guance paffute, /nel girotondo di questo mondo….Al cuore, fatto per l’infinito, /non basta il buon senso, /la salute - epidermico colorito sulle guance -; gli è piuttosto necessario il Senso ultimo, la Salvezza….
Qualunque cosa tu dica o faccia /c’è un grido dentro: /non è per questo, non è per questo! E così tutto rimanda /a una segreta domanda...

8. Ordinato sacerdote, per un ventennio don Clemente spende le proprie energie in mezzo a poveri, malati, prostitute. Colui che camminando tra le tante parole (magari poetiche) si era imbattuto nel Verbo che si è fatto carne, ora non ha più bisogno di scrivere: la parola fa spazio all'azione di carità. Solo negli ultimi anni di vita, malato nella carne, tornerà alla parola poetica: Curriculum vitae, autobiografia in versi, del 1955; Canti dell'infermità, del 1957, l'anno della morte di Rebora, che ci sembra ancora di vedere” vibrare al vento , con tutte le sue foglie , pioppo severo che spasima l’aria in tutte le sue doglie” , e prega e spera nell’ansia del pensiero e di un grido silenzioso che prima o poi verrà.

sabato 3 gennaio 2009

Claudia Ruggeri La sposa barocca che corteggiava la morte



1.Angeli terribili , poeti maledetti, capaci di incarnare il genio salentino di questi ultimi trent’anni, quel maledettismo salentino delle terre rosse, degli eden perduti , capaci di gettare nelle strade l’angoscia , l’inquietudine , la solitudine , l’esuberante creatività, lo stupore, la meraviglia , il furore autodistruttivo delle loro esistenze, un mazzo di coriandoli e di scintille sparse in una sera di carnevale, così tanto per illuminare la notte , salire in vetta a se stessi, per poi chinarsi giù a guardare l’effetto che fa . Sono dame e cavalieri che danzano coi loro invincibili sguardi visionari per occhi braccia e cuore e si giocano tutto per un sorriso , per un po’ di vivacità , tutto in una sola partita , in un solo salto, in un solo volo , in un colpo solo di dadi , capaci con la voracità delle loro passioni indecifrabili e definitive di dare un calcio in culo a tutto, alla vita bastarda , ai sogni, ai miti, alla fabulazione , alla gloria , alla sete disperata d’amore , e di prendere a sassate quella scheggia infranta che è la propria infanzia, “ persa su tutte le piste” , ma anche di irradiare fasci di energie così potenti e musicali che ci daranno luce e ombra e suoni ancora per chissà quanto tempo, come le stelle morte che noi per tempo immemorabile continuiamo a vedere brillare nel cielo e a sognare.

2.Parliamo di De Candia , Toma, Verri, Ruggeri, che ritroviamo come d’incanto , in chiave metaforica , tutti al Mocambo di Sternatia , paese grecanico , fatto di storie, leggende, dèi e miti , luogo del sabbath e delle oscure celebrazioni iniziatiche a cui tanti prendemmo parte nelle nostre vite anteriori , le Bacchiadi fatte di foglie di viti e vino novello, eccoli i nostri angeli neri bere lu mieru fino allo stordimento, quel nettare rosso e generoso, che fu immancabile compagno - dice Salvatore Colazzo- dei loro riti letterari , delle loro “performances” , comprese quelle della nostra amata Claudia Ruggeri , creatura fragile e deliziosa, di una suprema grazia, come una farfalla coloratissima , “il nulla che si fa carne e vola”… E volò davvero questa affascinante ragazza borbonica , impeccabile in ogni suo gesto , in ogni sua movenza , per grazia e soavità femminile, anche quando era ciucca e non si reggeva in piedi , e gli amici la portavano a casa (tutti , a Lecce, sapevano dove abitava ) , o le offrivano ospitalità , perché sapevano che era una bellezza rara , un fiore bianco notturno che si offriva al mondo per presto svanire . E Claudia , che aveva dentro di sé tutti i gridi d’amore e il canto mortale del Cigno , si fece man mano sempre più invisibile , dissolvenza di se stessa , enigma di lampi di luce e zone oscure, dubbio perenne fra aspirazione al sentimento religioso e sentimento esistenziale , fra storia e metastoria, tra fuga e condanna, fra l’essere carnefici e l’essere vittime , fra l’incertezza e il caos dell’oggi e il triste e melodioso delirio del domani . Claudia era fatta di tenerezze di petali di rosa , ma anche del rumore sordo della linfa che sale nelle piante tropicali , di fuochi elettrici , di fragili corde barocche , “esprit nouveau” e forza vitale che si nutre di evocazioni del passato. Era pudica , se non casta, timida, ingenua, sentimentale , a dispetto dei suoi comportamenti fra l’esaltata e la denigrazione sarcastica , o di allegra sfacciataggine nell’affrontare situazioni scabrose , che la faceva apparire talora cinica; quest’angelo beffardo, che fa acrobazie sulle cornici delle cattedrali di Lecce e del Salento , in realtà si portava dietro il suo calvario di sposa barocca (“t’avrei lavato i piedi/ oppure mi sarei fatta altissima/ come soffitti scavalcati di cieli/ come voce in voce si sconquassa/ rnando folle ed organando a schiere/come si leva assalto e candore demente/alla colonna che porta la corolla e la maledizione/di Gabriele, che porta un canto ed un profilo/che cade, se scattano vele in mille luoghi”)e i suoi mille volti in silenzio, Madonne della Sconfitta, o dell’Incertezza, Madonne della Nostalgia di una vita già vissuta, da Beatrice minore , un fantasma di nuvole immersa nella sua solitudine, che amava , come la Dickinson ( Sarei forse più sola/ senza la mia solitudine) , ma che era senza speranza ( La speranza non mi è amica), senza avvenire. “Io mi sono sempre fatta in pezzi e tutti i miei versi sono frammenti argentei del mio cuore….”Ardeva le sue passioni in fuoco-porpora , in fuoco-bianco, in fuochi barocchi. Cercava per giorni interi una parola , un aggettivo, non li trovava , ed aveva paura di divorarle, trasformarle nell’aria che respirava, in una veste di pace che non poteva avere: “ amore/ t’avrei dato la sorte di sorreggere/ perché alla scadenza delle venti/ due danze avrei adorato/ trenta/ tre fuochi, perché esiste una Veste di / Pace se su questi soffitti si segna/ il decoro invidiato”..
Era una creatura inadatta a vivere, come De Candia , del resto, come Toma , ma aveva una grazia suprema, come tutte le creature immaginarie, che stanno su questa terra, ma appartengono ad un altro mondo, ad un'altra dimensione, vengono tra noi solo per un breve transito, sono di passaggio … E poi c’è la sua poesia, di cui hanno parlato tanti, di cui si continua a parlare come di una epifania. (“Avrei scritto il mio libro camminando…Ah, ditemi quando ho aperto il mio quaderno!”)
Insomma, qualcosa so di questa musa inchiodata alla vita e alla morte da vocaboli di fuoco , la cui libertà era il legame e il richiamo delle stelle , che amava dire , (con le parole della sua amata Emily) , che un pizzico di follia fa bene a primavera perfino al re, ma Dio protegga il clown che riflette questa scena tremenda che è la vita, questo intero esperimento verde che è il giardino della vita , come se fosse suo, come se gli appartenesse. E invece no. Non è così per la vita dei poeti.

3.Pensate a quante tremende vite di poeti abbiamo conosciuto, da Holderlin vagabondo per le strade del mondo, o chiuso come un pazzo furioso nella torre sul fiume, a Baudelaire paralizzato, cieco da un occhio che articola a fatica le labbra per dire con un filo di voce : “Bonjour Monsieur”; da Verlaine , tra i rifiuti di Parigi , che contende cicche ai barboni , alla Cvetaeva , coi capelli incollati dal sudore e dal fango, morta di fatica e disperazione , che sale su una seggiola , getta una corda sopra una trave e s’impicca... A Esenin che va a morire , senza più identità, né contadino, né borghese, in un bagno pubblico, a Pavese, con il suo vizio assurdo, che si spara un colpo di pistola in una camera d’albergo…E poi c’è Claudia , che fece il “folle volo” , perchè la vita vera non esisteva più. “L’autentico non c’è in nessun luogo. Non c’è più verità; e su questa terra ( ma non esiste nessuna altra terra, nessun altro cielo) , non possiamo scoprire nemmeno un raggio di luce”.
Era sempre vissuta tra i contrari, speranza e disperazione, passione e disprezzo, furia e dolcezza, creatura accesa di estasi e violenza estrema…
Sì, va bene, amigo, ma come mai è diventata un fatto letterario nazionale una poetessa che ha pubblicato in vita un libretto bizzarro ( L’inferno minore) che sembra la parodia di Dante , e presso una rivista del tutto sconosciuta ? Come e perché ci si è ricordati di Claudia Ruggeri poeta dopo che per tanti anni nessuno ha parlato di lei , tranne il gruppo della “Fondazione Verri” (il poeta con cui in un certo senso Claudia fece sodalizio) e con esiti tutt’altro che entusiasmanti se è vero , come è vero, che le manifestazioni andarono pressoché deserte , secondo la testimonianza resa da Stefano Donno, uno dei suoi biografi ? Come è nata questa fioritura di scritti su di lei, di libri , di florilegi, di Concorsi di poesia a lei intitolati ? Molti fra i critici maggiori la considerarono ( e tuttora la considerano ) solo una dilettante , una liceale con qualche velleità poetica, che saccheggiava un po’ tutti i grandi poeti , da Shakespeare a Dante , da Cavalcanti a Melville , da Carrol a Zanzotto, da D’Annunzio a Saba, da Campana a Beckett ( Solo oggi i suoi plagi diventano un “modus operandi” , perché “dire è ri-dire, scrivere è riscrivere, parlare è citare” ) . Insomma, perchè ora si parla di Claudia come di una grande poetessa salentina , al pari di Verri e di Toma ? Mauro Desiati , ad esempio, dice senza mezzi termini che Claudia Ruggeri scriveva divinamente, che la sua poesia è ricca di arrovellamenti lessicali, di figure estreme , una piccola epifania postmoderna, dove echeggia una semantica inconsueta che mischia parole di origine trobadorica, iperletteraria, dialettale, straniera, aulica, ma anche quotidiana, dice che ha inventato una sorta di nuovo barocco. Dice che entrare nella sua poesia ti fa sentire Alice nel Paese delle Meraviglie, perché scopri tutto un mondo fatto di figure inquietanti, ai bordi dell’onirismo, come se tutta la sua poetica fosse stata maturata in uno stato di veglia, in un grandioso passaggio dal sonno comatoso alla vita.
Questa che ora interroga t’arruescia l’inizio/ t’avviva a questo inverso cui un dio non corrispose/ Tu sei l’oggetto in ritardo/ l’infanzia persa/ su tutte le piste/ l’incrocio rinviato."
Desiati dice che la sua “rimane un esempio unico di poesia, una poesia “ingioiellata”come diceva Fortini , ma inedita. Una poesia colma di citazioni e rimandi, “aulika” , fatta di amorevole saccheggio, poesia fatta di lava, sangue e dolore. Poesia che sorprende il lettore, lo meraviglia, per l’uso spregiudicato del dialetto, dei modi di dire, delle citazioni colte, della frasi fatte, delle parole inventate, degli arcaismi e delle parole straniere. Claudia, poetessa della meraviglia”.

4. In realtà , pochissimi conoscono la poesia di Claudia , e ancor meno sono quelli che la comprendono proprio per il pastiche del linguaggio , che non è per nulla facile, né popolare , ma la Ruggeri ha indubbiamente una sua originalità cristallina , una raffinatezza barocca ed ermetica allo stesso tempo , soprattutto il fascino del mistero e della bellezza, che era in lei , nella sua essenza ; e la bellezza in questa nostra era è ormai in fuga , se ne è “ ghiuta”, o sta per farlo; Claudia significa grazia e gentilezza , e noi viviamo il tempo della volgarità , della maleducazione , della perdita d’ogni forma ; Claudia significa attesa, stupore e mistero, e noi abbiamo perduto anche questi sentimenti che danno un senso all’esistenza. E’ per questo che una creatura come lei , fatta di pura poesia , in trasparenza , doveva essere per forza riscoperta e amata, prima che fosse troppo tardi; e oggi se ne rammemora il giorno in cui apparve, sfolgorante , sullo scenario letterario salentino , nel 1987, quando era una fanciulla stravagante e bellissima di diciannove anni, con una gonna lunga e nera fino alle caviglie, un cappello rosso , e quei versi tra cielo e inferno che lasciarono stupiti gli spettatori .Recitò una poesia che sembrava la partitura di una scena teatrale per spettatori non sprovveduti. “Assomiglia più a una prosa lirica che non ad una vera e propria lirica in versi” , disse Donato Valli . E subito ci fu chi le consigliò di darsi al teatro , perché – dice Sergio Rotino - era anche un’ottima lettrice , e le sue stesse poesie non rendevano sulla carta quanto come venivano lette da lei stessa. Come cultura e scrittura non era catalogabile, aveva un suo modo di rielaborare, una forza enorme, ma fuori dagli schemi…”.

5.La sua voce – scrive Desiati - sembrava provenire da chissà quali distanze, un canto distorto, quasi fosse il canto d’amore di una Furia. Potremmo parlare di modulazioni recitative improntate su categorie tonali-performative della separazione, del lutto, della distruzione.
Ma Claudia non aveva bisogno di far teatro , lei stessa era una figura teatrale vivente , anzi era una medium straordinaria , divina , in tutto ciò che faceva . Non era un fiore freudiano che fiorisce in una sola notte . Era una stele, un obelisco, una bellezza della natura e dell’arte che dura per sempre . .
Era troppo sensibile, - scrive Desiati - , sensibile a tutto, anche alla vita, era fatta per la poesia, per fare della sua vita una poesia, una scelta netta che lei traduce in Lamento del Convitato con queste parole: “e quale mai s’invera Canzoniere da questo tanto intentato Io,/ se al grande giro di attorno, di nada, soltanto, mento, spio ?”
Claudia possedeva anche un garbo mondano, una grazia squisita e inafferrabile, era deliziosa, spiritosa, tagliente, amabile e crudele, piena di tatto e di violenza, voleva brillare, scintillare, essere leggera, venire amata e ammirata, aveva un senso acutissimo della forma, il dono della pura creazione, la perfezione suprema a cui poteva giungere. Avrebbe potuto far tutto , se l’avesse voluto: l’attrice , la show girl , la Mata Hari, la donna fatale , l’incantatrice di serpenti , la Sherazade. Per capirlo, basta guardare quel suo profilo, bellissimo, col nasino perfetto di una ninfa appena sbocciata nei boschi di Pan , con quelle mani sulla testa piena di ricci neri, quella posa di gabbiano in riposo, e quegli occhi distesi in un orizzonte infinito, o in una preghiera infinita, o in un pensiero infinito , e quel nasino diritto , piccolo, con due nari deliziose , angiporto di tutti i destini incrociati, e le labbra profumate , carnose, da piccola dea che scende per un attimo sulla terra per mostrarsi nella sua luminosità abbagliante , con i guanti bianchi, a rete, come una diva d’antan , o le ragnatele di Aracne che tesse, tesse con le sue mani lunghe e affusolate , la maglietta nera , come il mistero, l’intrigo, la tenebra, il velluto che corre e si dipana nei suoi occhi d’incantesimi… Come se avesse un male/ a disperdersi/ a volte torna/ a tratti ridiscende a mostra/ dalla caverna risorge/ dal settentrione/ e scaccia per la capienza d’ogni nome/ che sempre più semplice/ si segna/ ai teatri/ che tace/ per rima/ certe parole."

6.Aveva dentro di sé un’impazienza tragica , come quella di una condannata a vivere, e tuttavia era capace di rendere lieve e luminosa ogni cosa che faceva . Aveva una tristezza fonda e inspiegabile , che a tratti le si poteva leggere sulle labbra e negli occhi , e tuttavia ciò non la incupiva mai , anzi la rendeva inesprimibilmente chiara , netta, linda come il sole a mezzogiorno. Aveva scoppi di un’allegria nervosa , isterica , eppure ciò la rendeva morbida e affascinante come un crepuscolo mattinale: “amo la festa che porti lontano/ amo la tua continua consegna mondana/ amo l’eden perduto/ la tua destinazione umana/ amo le tue/ cadute/ benché siano finte/ passeggere."
La poesia di Claudia Ruggeri – scrive Desiati - è dotata di irruenza tanto da scardinare la continuità metrica. Questo però è vero fino a un certo punto. Spesso si trovano all’interno dell’ Inferno Minore metri classici assolutamente non causali: dentro in limine troviamo i martelliani: “prima che il subbuglio ammorza e che asciuga la guazza...” mentre in lamento dell’Amante addirittura degli endecasillabi: “la sua sparizione non ebbe l’ordine/ degli organi; l’anello che cattura..
Endecasillabi, o versi martelliani , che siano , non so quanto casuali, un fatto è certo: Claudia cercava di dire tutto , di possedere tutto, credeva di poter scomparire, di rendersi invisibile , come l’aria, o un tratto di matita che si cancella , e diceva agli amici che la incontravano spesso ubriaca per le strade di Lecce , Riconoscete la mia chiara nascita di poeta , io sono refrattaria, assente, i limiti che un tempo mi salvavano, sono ormai superati. Io sono ad un tempo una cosa, un pensiero , un ‘immagine che mi permette di manifestare tutta la coscienza del creato , tutto ciò che sfugge , che è misterioso, che ci strappa a noi stessi , che ci perde. Io cerco quel che non ho mai cercato , ciò che non può essere cercato, Io sono il vuoto abortito , la ricerca scavata, l’ invisibile in un universo di vetro. La mia immagine è antica, così antica , che ha l’età della mia memoria, di mio padre, di mio nonno e di tutti i miei avi che hanno sparso le loro ombre: “la memoria finta da usare / come un nome, questa memoria insomma divina / indifferente di un calcio e di ossa, di un debole / dèmone mosso a pena a cerchio (leggero leggero / lo spirito ragazzino, e ciò sottile sottile / indistinto, destinato)”.

Era un prodigio bianco e rosa, barocco e rococò, una malinconica soggetta a euforie e depressioni egualmente violente , con un’immaginazione ardente che gli faceva condividere tutte le passioni e le sensazioni, finchè non risuonò la nota vera che si nasconde nel vivere falso, tra le parole che deformano il desiderio, la fiamma mobile e atroce dei sentimenti , la sempre rinnova forza di sogno, l’infinito di passioni concentrato in ogni minuto dell’esistenza , come negli sguardi di Claudia che sconvolsero tutti, perché là dietro , lontana , sepolta quasi inavvertibile , s’annidava la musica del cuore , come l’ultima eco di una sinfonia d’amore che si allontana, quel cuore simile ad un’immensa tastiera, che non riesce a suonare.

7.Ma l’avete vista bene , questa lamentatrice da inferno minore , questo uccello notturno , questa poeta maledetta salentina che canta i suoi versi non con l’arpa o la cetra , ma con la virile spada , e il fragile cristallo dei vetri infranti: “cavami da le piume gli insulti lo sfrenìo / la velocità indifferenziata che era danza / o salto, che ormai non muove semplicemente / mi rende probabile”
L’avete vista mentre scioglie il suo canto , con quei versi pazzi , che stridono sulle rotaie di un treno facendo scintille , versi farfalle colorate , senza misura e senza schemi , senza vere ali , versi che non sanno volare, né rimanere in terra , versi dannatamente barocchi , seppur nuovi, diversi, folgoranti , improbabili, che ti arrivano come una dissonanza di schonberghiana memoria , o lo smembramento di un pensiero, o un frammento di vicenda fantasmica, e che tuttavia ti affascinano, t’ammaliano , s’inarcano come un cavallo imbizzarrito , o una chitarra di vento curvo che t’imprigiona nella sua spirale di sensi? L’avete vista quando alza le braccia come ali bianche di un gabbiano in riposo , e si mette poi le mani sul capo per un posa verso l’eterno ? L’avete vista questa dea splendida e nera che consuma ogni giorno il mondo con la sua presenza, come se fosse l’ultimo giorno . Avete visto le sue lacrime versate per le strade di Alessano , dove rincorreva l’ombra di don Tonino Bello, il magnifico guerriero della pace? , l’avete vista , la “nostra” Claudia mentre sale già una scala , su su , verso il cielo ?
Claudia è qui , tra noi , e domani è ancora il suo avvenire . Si è solo sparsa un po’ come fanno le stelle nel cosmo, o la sabbia nel mare , o i raggi di un sole bellissimo e nero. Nero come il suo colore preferito e il perire delle cose , il loro precipitare nella precarietà , e nel nulla . Ma lei , ripeto, sta qui tra noi , invisibile , in attesa , sul ciglio della strada di via…. , a Lecce, nascosta sugli alberi dove “Ci sono foglie / Così stanche di essere foglie /Che sono cadute”.
Granelli di polvere , qualche fiore disseccato nei vasi , e poi il vuoto, il vuoto. Buco nero. Dicono gli ultimi testimoni che era una ragazza perennemente pallida , dai capelli scuri , dagli strani occhi radiosi, che emanavano uno sguardo di misteriosa freddezza. Amava la ragione geometrica , era affascinata dalle tenebre , dai misteri e dai trucchi che si oppongono alla ragione, giocava con queste tenebre e questi misteri, con gli orditi segreti della sua mente. Era pallidissima , la voce estremamente debole, quasi un sussurro. Aveva compreso che davanti a lei non c’erano più libri da scrivere e da leggere

8.Tutta la sua vita era stata dominata dalla passione della poesia , una forza tremenda che diventa un destino contro il quale non è possibile porre rimedio alcuno. Aveva sempre una profondissima insoddisfazione di sé , di come era lei e della sua poesia pazza fatta – scrive Stefano Donno - di “scheletri, frammenti, embrioni di altre poetiche nelle quali si aggirava inquieta e irrisolta la sua voce in un abuso ubriacante di arcaismi, di poeticismi, di imperfetti metricismi…poesia ardua, nella lingua e nelle figure, ambiziosa, quando non pretenziosa, impelagata nelle inattuali evocazioni del Mito, ma per questo singolare e degna di recupero”.
Era insoddisfatta del mondo che la circondava , e aveva un istinto di autodistruzione tragico , un desiderio di fuga , da tutto e tutti , soprattutto da se stessa.
Lo stesso Donno dice che poteva essere salvata , dice che a Lecce c’è gente che poteva salvarla , sostiene che ci sono persone che hanno avuto grosse responsabilità circa la sua morte, ma che non l’ammetteranno mai.
Ma non è così. Claudia era candida , stupita , orgogliosa , eroica , piena di un’immaginazione ardente e romanzesca , aveva tutto per amare la vita , invece amava l’abisso, era come una cieca errante , una pellegrina abbandonata sulle rive di un desolato naufragio (Il naufragio era la sua vita) . Aveva l’anima pura di una colomba angelica , era una creatura celestiale , che si era incarnata sulla terra , ma non sapeva viverci. Era inadatta a vivere fra di noi. E lo dice lei stessa:La mia caduta è un esilio in altri cieli, in altre vite: “Dedico a Te questa morte / padula – ché sei l’Arteficiere - ; impiegane / la festa, se pure alza l’Avverso, lo cattura”.

9.Chi è puro muore giovane. La morte giovane è segno di elezione spirituale. E’ così che vogliono gli dei. Ed è così, Claudia, che tu sopravvivi all’eterno, al di là di un’altra Maria Corti che venga a scoprirti come altro “ poeta maudit” salentino, con quel volo folle,quel gesto definitivo, irrevocabile, già scritto nel libro del tuo destino, quel volo senza ultima parola dell’Angelo di Dio, senza suoni. Ma solo silenzio.Il silenzio che ascolta il silenzio. E’ l’una è trenta di notte, il giorno 29 novembre 1993 e Ti lanci nel vuoto dal balcone di casa tua :… e volli / il “folle volo” cieca sicura tutta / Volli la fine delle streghe volli // Il chiarore di chi ha gettato gli arnesi / Di memoria di chi sfilò il suo manto / poggiò per sempre il Libro…”
E’ qui quel tuo Libro poggiato per sempre, è un libro di un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine, un tempo perduto che solo l’arte riesce , talvolta, a ritrovare. Sei tu, Claudia, che talora mi chiami non so da dove , e mi dici , Ricordati che dopo la morte ci sarò. Sono così sicura che ci sarò, dillo a mia madre , ai miei amici. Potrete leggermi nei vostri occhi, nei vostri pensieri, nel vostro cuore, perché il mio nome non muore, il mio nome di sposa barocca salentina, il mio nome è per sempre nel libro, e la morte è l’apoteosi di quel nome. Tu sai che la parte femminile dell’uomo è il sonno, e cos’è la morte se non un sonno più lungo, diverso? . Ogni dimora è il luogo prediletto del riposo, lo spazio è compagno del sole, il sogno delle nuvole. La mia preghiera è quella del granello di polvere alla montagna, della goccia d’acqua all’Oceano, del soffio di fuoco al sole. Io sono l’onda che si rinnova e la schiuma , il sale , l’aurora e il crepuscolo. Ricorda tutto ciò.Ma al centro di ogni meditazione c’è il mare , con le sue minacce e le sue manette , il mare che ti conduce nelle sue prigioni nelle notti d’estate, il mare di tutte le avventure , di tutti i destini .

10.E un sabato pomeriggio , Claudia venne a Gallipoli e vide il mare , il mare pioveva dolcemente dalla serra di Nardò , poi lo vide come pozza ai piedi del Rivellino, e dietro la torre del castello angioino dove Albertazzi aveva fatto Jacopo da Lentini nello spettacolo di Federico II litigando con gli spettatori che lo spernacchiavano dalla piazza delle barche dei pescatori, (Amore è uno desi[o] che ven da' core/per abondanza di gran piacimento;/e li occhi in prima genera[n] l'amore/e lo core li dà nutricamento.), rivide quel mare con le barche colorate, quel mare di cartolina, spaziò con quel suo sguardo che sapeva andare lontano, lontano, oltre Santa maria al Bagno, Santa caterina, Porto cesareo. E disse, Questo è il mio mare. Ma lo disse a se stessa. Non avvertì nessuno. Si distese sulla spiaggia e ascoltò scorrere la quieta nenia dell ‘onda di risacca che sciacqua e risciacqua l’anima come fosse un pezza calda. Il mare le era d’accanto , con i tempi e i ritmi delle onde, della Balena Bianca , del Pequod e del capitano Achab, e l’anima bianca di strani fantasmi , il tempo oceanico, il battito dei remi e lo schiocco delle vele , le nuotate interminabili, l’inverno che stringe le onde nei lacci del ghiaccio.
Visse i suoi giorni in una conchiglia. Chiudeva gli occhi come se fosse cieca e respirava insieme ai pesci, alle alghe, ai gabbiani di Sant’Andrea, a sera si illuminava di luna di stella e di maree (“Trovarsi nel vuoto/ aspettare le maree / interrompere il fiume di pensieri”)
S’era fatta blu azzurra pensosa profonda mistica , sapete quei quei blu mentalis di cui Kandiskij andava pazzo, e aveva un essere vivo dentro il cuore della morte, un essere in piedi, diritto, verticale, ma invisibile, dove l’aria e l’acqua passavano e ripassavano con un ritmo disteso, sereno, ma ineluttabile. Quando riaprì gli occhi, non aveva altri sguardi ormai che per l’infinito , ma un infinito minore .

martedì 9 dicembre 2008

Ascolta , turista ignaro



1.Ascolta, Turista Ignaro.
Ci sono più momenti per vivere l’estate nel Salento:
Vai a Roca , sulle rovine del castello di Maria d’Enghien,
dove il mare ha un suo sapore, una sua salsedine gagliarda
che dà timbro e colore al paesaggio.
Troverai i paesi addossati l'uno all'altro,

le case-rifugio,
l’architettura spontanea per l’uomo-pescatore e per l’uomo-artigiano.

E d’intorno un forte odore di timo a liberar i polmoni da vecchie incrostazioni.
E poi visita la Grotta della Poesia ,

in cui l'uomo scrisse i primi versi in mille lingue (ma forse erano solo gridi),

in cui Carmelo Bene fece il suo ultimo recital

e D'Alema l'ultima virata salentina, con la sua Icaro dall'ali di cera.

2.Soffermati , poi, ad Otranto , con il suo Castello aperto,

e la sua storia , più tragica che grande , di Nostra Signori dei Turchi,
e la Cattedrale che sorge come una conchiglia,
e lo splendido pavimento-mosaico di Frate Pantaleone,
una Bibbia illustrata per i poveri, con la figurina dell’Asino arpista
nella quale si riconobbe Florio Santini, lucchese-salentino dal cuore che non brucia.
Medita sugli ottocento martiri , sulle loro ossa a cielo aperto e sugli inconoscibili echi di silenzio che da quel momento ti verranno inevitabilmente incontro , tutte le sere ,
sul lungomare di Otranto, perché è proprio qui nella città più orientale d’Italia , dove ti svegliano all’alba i corvi neri con il gelato in mano che verrà la tua ora , “L’ora di tutti”, di cui parla Maria Corti, l’ora in cui ciascun uomo è chiamato a dar prova di sé.


3.Prosegui lungo la costiera troverai la Grotta dei Cervi ,un trekking per lo spirito,
E poi Santa Cesarea , la Zinzulusa , Castro Marina, indi Porto Tricase e il Ciolo di Gagliano

conle ghirlande dei pescatori e le pajare sentinelle di mare.

Per arrivare a Leuca la bianca, finibus terrae , luogo dell’oltretomba.
Guardala dall’alto questa città fantasma , che non esiste , guardala dal Santuario di Santa Maria dalle altezze del gran faro-obelisco di tufi e di calce sulla cui cima siede eternamente un angelo giallo, ammira le ville silenziose schierate come ancelle pudiche in preghiera sul lungomare
e ricorda che è qui che i salentini dopo morti fanno ritorno, col cappello in testa.
Ed è solo qui che potrai incontrare , nelle grotte marine, la sirena bianca , veloce e cieca , che Enea lasciò come testimonianza del suo passaggio.

4. E poi se un poco rimane del tuo tempo prezioso visita Vereto e le miniere di Ugento , si trovano entrambe alle spalle del mare- , dai cui scavi vedrai riemergere , come d’incanto , la civiltà messapica, che i romani rasero al suolo , perché alleati degli spartani di Taranto. Rivedrai per un attimo il mitico re Artas che cavalca insieme due cavalli di rame nel fulgore di un tramonto obliquo e l’antico porto di San Gregorio sulla lieve serra omonima ,
un fortino che ammaina il suo grido in attesa della lunga coda d’un cane notturno.

5.Infine sosta a Gallipoli, la città-bella, col suo grande nucleo isolano legato alla terraferma da un ponte su un braccio di mare, oltre il Castello Angioino, il Rivellino e la porta di terra. Perditi per un paio d’ore nel labirintico storico , con la casbah araba , miracolo di architettura rimasto intatto, gli effluvi e i colori dei gerani che traboccano dai vasi allineati sui mignani , e i riverberi della luce sulla calcina che gioca nelle corti e l’odore di salnitro , e il vento che fa danzare losanghe colorate , e la gente ospitale , fervida , generosa , creativa e fantasiosa. Poi immergiti nelle due riviere , da un lato rocce grige e dall’altro sabbia bianca e mare greco.
A Gallipoli – Isola della Luce , sosta presso la Fontana Greca ad ascoltare le voci delle tre fanciulle racchiuse nell’anima del tempo e dell’antica pietra , e forse scoprirai che qui è la fine del tuo viaggio, la fine di ogni viaggio.

domenica 7 dicembre 2008

Alda la rossa e la poesia nell'antica Grecia



1.Qualche anno fa , al Sant’Angelo di Gallipoli, in occasione della consegna della targa d'argento “L’uomo e il Mare “ ad Angela Buttiglione ( profeta in patria ) per meriti culturali, era presente una sua cara amica giornalista Rai, allora tenuta in panchina , Alda D'Eusanio detta “La Rossa” , che ora sta andando fortissimo in uno dei tanti programmi d’intrattenimento pomeridiano. Bene, la signora D'Eusanio, donna affascinante e di grande spirito, alla fine della manifestazione legata al Concorso di Poesia in Vernacolo Salentino “ Luigi Sansò “, in cui c'era stata anche la rappresentazione teatrale di un mio atto unico, “I Naufraghi” , si soffermò a parlare con qualcuno di noi e disse: “ Credetemi se vi dico che sono davvero meravigliata. Questo è un paese in cui tutti fanno poesia, tutti parlano di poesia, qui la poesia è come il bere, il mangiare, l'andare a dormire, il fare l'amore. Sono affascinata e sbalordita , ma ditemi: forse qui non siamo più in Italia ?”


2.La sua domanda poteva sembrare anche sibillina , tenuto conto che poco prima aveva detto alla sua amica Angela di non aver capito praticamente nulla delle poesie dialettali e della commedia , in cui il personaggio principale recitava in dialetto gallipolino, e tuttavia c’era nelle sue parole un che’ di stupore e di sincera ammirazione . Ma in effetti la D’Eusanio non era andata poi così lontana dalla verità, se consideriamo che la popolazione salentina discende in gran parte dai Greci e ci sono tuttora sacche in cui si parla il grecanico. Questa è “Magna Grecia” e la gente ha inscritto nel suo DNA , nella sua memoria atavica la grande poesia popolare greca, quella degli aedi, quella di Omero per intenderci ed ecco del perché tutti si sentono un po’ poeti, anche quando sarebbe meglio che facessero altre cose.


3.Ma com'era questa poesia greca di cui tanto si favoleggia?
Ce la spiega Odisseo , quando descrive ad Alcinoo , re dei Feaci, la gioia che colma gli invitati mentre odono i cantori, e le sale sono piene di di pane e di carni, e il coppiere attinge il vino nel cratere e lo versa nelle coppe. "Questo mi sembra nell'animo una cosa bellissima", dice Ulisse.
La gioia che suscitava la poesia omerica nasceva dalla pienezza dell'essere, era per l'appunto un piacere corporeo , come quello del cibo, dell'amore, del bagno, della danza; un piacere che impegnava tutto l'animo e il cuore.Come in nessun'altra tradizione occidentale, la poesia era gioia, ma i greci sapevano come fosse tragica la gioia nel mondo luminoso di Apollo. Perchè la la cetra che dà gioia è lo stesso strumento dell'arco che dà la morte. Quindi il poeta era un arciere: la sua canzone una freccia che non sbagliava mai la meta; e la corda dell'arco vibrava come le corde della cetra. La poesia era allora tutto, una forma di spettacolo completo: musica, danza e teatro: c'erano i cantori, con le lire e le cetre, c'erano i danzatori che si esibivano per ore, mentre gli ascoltatori consumavano il loro banchetto.

4.Ora noi in quella serata , che rimarrà legata alle presenze di Angela Buttiglione e Alda la Rossa , non abbiamo fatto certamente un revival della poesia greca antica, né nulla di straordinario e memorabile, ma gli ingredienti ( poesia, musica, danza, teatro, atmosfera ) c’erano tutti e sono stati quelli che forse hanno stimolato l'immaginazione di una "forestiera" sensibile come Alda D'Eusanio, che con il suo linguaggio talora in colorito romanesco, si è soffermata divertita a fare i complimenti ai poeti dialettali e agli attori della piece, firmando molti autografi. E’ stata gentile, Alda la Rossa , anche perché è venuta a Gallipoli per il solo piacere di stare con un’amica e fare conoscenza di una città e di una terra che non aveva mai visto prima. Alda non ha ricevuto alcun premio, né ha avuto prebende di qualsiasi genere, anche indirettamente. Del resto il nostro non era il Premio “Balocco” e lei non è la Sofia Loren , che per la sua comparsata ha intascato il modico assegno di 200 milioni ( Qualcuno dice quattrocento) di svalutate lirette, quasi la metà dei quattrini che ci son voluti per far erigere una sorta di ridicola “Torre Eiffel” sul Corso per l’ultimo giorno del millennio.

5.Fatta questa rievocazione che vuole essere anche un atto di speranza e fede perchè la poesia possa tornare ad avere quel significato gioioso di una volta, vorrei spendere altre due parole sulla poesia dialettale , una poesia che è stata per secoli sinonimo di comico, burlesco o grottesco e che non ha avuto una propria dignità dal profondo, ma gliela hanno conferita grandissimi poeti borghesi quali il Porta, il Belli, il Tessa, che erano dei grandi reazionari che , come dice Cattaneo, si finsero plebe per affilare coll'acerbità popolare l'ottusa verità. Questi signori regredivano a livello di servi, prestando loro con sapiente mimetismo la parola di cui erano storicamente deprivati, per esprimere più liberamente ed efficacemente il proprio pensiero. Hanno "registrato" il linguaggio del mondo popolare, il suo fervido disordine pulsionale, lasciandolo però chiuso nel loro ghetto.

6.Ora le cose sono cambiate. I poeti dialettali , grazie alla scuola e all'istruzione, sono divenuti soggetti di storia, protagonisti della loro storia e rivendicano il loro diritto di partecipare alla cultura egemone; anzi, ora che la lingua italiana è arrivata ad un porto sepolto, ad una via senza uscita nè ritorno, i poeti dialettali si propongono come modello di integrità linguistica e antropologica, dicono che lo strumento dialettale è una musica alta che si può realizzare con strumenti etnografici, che è la vera lingua viva, lingua autobiografica, lingua del profondo, che risale verso gli idomi dei padri e dei nonni, che ha più spessore e valenza, perchè è incontaminata, integra, fedele alle proprie origini. Questo processo è già avvenuto al Nord , qui al Sud , e in specie nel Salento invece si stenta a decollare, anche se non mancano tenaci e valorosi studiosi come Donato Valli e poeti di assoluto rispetto come Nicola G. De Donno . Anche in questo senso segniamo un ritardo di una ventina d'anni. Speriamo che a partire magari da …ora ci si possa avviare su una strada sicura , che è importante pe ril futuro della poesia , ma anche per il pieno recupero dell’identità di un popolo ; una strada che, chissà, magari ci riporterà , passettino su passettino , alla gioiosità della poesia omerica?
E allora inviteremo di nuovo Alda la Rossa, ma stavolta , temo, non verrà più solo per diporto.

Sulle vie del barocco leccese


1. Eccomi ancora una volta a Lecce , con Mimmo Anteri, sulle vie del barocco, dove un tempo fiorivano i limoni e le cattedrali , ” case del sole e di Dio”. Un barocco arioso, elegante, vero godimento per gli occhi , - dice il maestro Anteri , - ma anche la gente salentina è formidabile ,generosa , ti accoglie a braccia aperte , è pronta a mostrarti tutto quello che ha. E’partecipativa, generosa. Se è vero che ciascuno di noi emana una propria musica, sulle facce della gente leccese tu puoi ascoltare la sinfonia del del barocco, che si spande per tutta la città, da porta Rudiae alla magnifica Piazza Sant’Oronzo, dal Palazzo dei Celestini, a Santa Croce, con la facciata che è una teoria di figure ricche di valori simbolici, un vero e proprio trattato applicato alla pietra; e qui le note si fanno corteo di decorazioni architettoniche che esplodono come dalle canne di un grande immenso organo di maggio dalle chiese, case e balconi , dagli stemmi e portali, un effluvio di fiori, frutta , nastri svolazzanti , colonne tortili, cornici fastose, balaustre a trafori, frontoni ricurvi , putti e mascheroni con la pietra leccese , calda e dorata . Lecce è tutta una sinfonia barocca, ma il barocco leccese è molto diverso da quello francese, o da quello spagnolo arabizzante. E’ il prodotto di artigiani e artisti pieni di fantasia , architetti esuberanti,come lo Zimbalo, che avevano però il senso vivo della geometria e il gusto classico rinascimentale, conoscevano Piero della Francesca e la Divina Proporzione . S’avverte una pulizia mentale che ingentilisce lo stile. In queste opere c’è una vera e propria raffinatezza spirituale che diventa anche finezza di comportamenti umani. Io credo che Lecce sia unica nel suo genere,certo è anche greca, bizantina, è anche normanna , araba, moresca , spagnola, borbonica, ma è barocca la sua anima più autentica, che si riflette nei suoi palazzi e chiese , un’elegia d’angeli, santi e frutti di pietra, una sinfonia di fregi , pinnacoli ,cariatidi che fanno coro su un portale o un balcone , e ti lasciano costantemente meravigliato. E senti , dentro di te , l’odore del miele, squarci d’infanzia lontana che ti richiamano le splendide rosacee melegrane di Ercole Pignatelli, o la musica di Boccherini , Tartini, Corelli , Scarlatti, che scandisce il suo ritmo arioso , largo per le vie di Lecce.

2.Ma tra i tanti illustri visitatori entusiasti della capitale del Salento , - da Federico II a Goethe , da Valery a Papa Giovanni Paolo II - c’è stato anche qualcuno che ha detto a chiare note che il barocco leccese è il parto di un’anima morbosa e cervellotica , e che la regione salentina è attraversata da linee di follia , - cose che ben esprimono certi suoi geniacci come Vanini , Comi, Ciardo, Bodini , Pagano, Barbieri, Toma, Verri, Eugenio Barba e, da ultimo, il grande Carmelo Bene. “In fondo il barocco- ha detto Cotroneo , che ha messo radici a Otranto- “non è che la continuazione di ciò che hanno lasciato gli arabi , il contrasto fra la sensazione profonda di pace e il posto dove aleggiano le passioni”


3.Del resto i primi a parlarne in negativo erano stati artisti salentini come Suppressa e Bodini che scrive: “ Lecce è una città falsa , immota, ferma al seicento eterno , categoria del barocco, dove l’ozio e il capriccio ricamarono la sua tenera pietra e dal puro invisibile nacquero i colori e cose avvertite ed espresse solo per un allarme preistorico: la lucertola in fuga contro l’enorme cosa immobile del cielo pitagorico, nervature di dinosauri affioranti dal velo di terra, terra del nulla , della nudità, delle nuvole, dove i tarantolati passeggiano sulle volte delle assurde chiese insieme agli angeli”, - e come Ugo Ercole d’Andrea , che rafforza quel concetto, chiamando la sua città “Lecce la morta , che ama solo lo sfavillìo degli ori barocchi e inganna perfino la morte” , o lo stesso Carmelo Bene che dichiara essere il Salento una specie di “bordello di culture .


4.Qui son passati tutti, per secoli e secoli, ciascuno lasciando il proprio retaggio, greci, romani, bizantini ,normanni, arabi, spagnoli , ecc. mai curandosi di chi c’era Questa è una terra votata alla morte. E’ nel suo destino tragico, anzi grottesco, perché è una morte arcadica, barocca”. E anche l’ammiraglio Renato Fadda , un sardo qui trapiantato che ammira molto l’intelligenza dei salentini, dice chiaramente : non ci fossilizziamo con il barocco. Qui tutto è barocco, c’è il premio, la regione, la geografia, la via , anzi le vie: ragazzi , guardiamo oltre . Noi veniamo dal mondo greco , nel nostro Dna c’è ( ci dovrebbe essere ) l’amore per la cultura , il teatro , la filosofia , l’arte, la bellezza , invece poniamo tutto al secondo posto rispetto al benessere economico, questa è la verità. Detto questo, non posso fare a meno di confermare , come ha detto qualcuno, che Lecce è la più bella città del meridione. Ma forse per recuperare quella bellezza, l’incanto e il senso del fascino e della magìa che emana la città salentina , dobbiamo tornare ai poeti forestieri, a Marino Moretti che venne a Lecce tanti anni per il Giro d’Italia , evento che si è ripetuto poco tempo fa. A fine corsa , quando i corridori, stanchi , si ritirarono nei loro alberghi e lui , come giornalista culturale , poté finalmente visitare un po’ la città , scrisse.“ Quando scende la notte Lecce riluce come una rosa d’argento.Noi credevamo di arrivare in una città e siamo entrati in un fiore, per essere più precisi in una rosa. Così appare Lecce nel cerchio antico delle mura corrose e violente che chiudono morbidi intrighi di strade , tra case chiare disposti a larghi cerchi intorno al suo cuore di marmo. Bianca sotto la luce siderale, silenziosa e raccolta, Lecce è una rosa d’argento. A rivederci , città bionda e gentile , porta d’Oriente, rosa d’Italia ,città linda come un salotto , dai palazzi ricamati, le chiese come giardini e gli alberi come castelli”.

I tre di Santa Maria



1.Un fine Marzo a Santa Maria al Bagno , frazione di Nardò, insieme a Nicola Apollonio e a Mimmo Anteri , artista cosmico alla ricerca dell’unità dell’anima , che vive per arrivare al “centro” , per raggiungere l’ansietà dei rossi ( parliamo di colori, ovviamente) , come una Santa Caterina da Riva Levante. Ci troviamo dinanzi al mare rugginoso della costa neretina , in una trattoria fatta di tufi ,calce , salnitro, solitudine e ricordi , anche nobili, come quelli , ad esempio, che custodisce la vicina piazzetta circolare , metà moresca e metà “liberty piccadilly” , che dà sullo stabilimento ex Malignano, cuore del piccolo centro balneare. E’ qui, infatti, senza grancassa, senza fanfare e senza sbandierare chissà quali eroismi , che gli abitanti del “neretino” conquistarono la loro medaglia d’oro al valor civile , per solidarietà umana, conferimento che è stata attribuito poco tempo fa dal presidente Ciampi al rappresentante della collettività, il sindaco di Nardò . E’ qui, in questo piccolo villaggio popolato da pescatori, noto ai salentini soprattutto per le “Quattro colonne”, cioè le rovine di una imponente torre tra le tante volute da Carlo V per il presidio della costa, che trovarono rifugio, ospitalità e assistenza gli ebrei scampati all’olocausto ; in questo trampolino ideale proteso sul Mediterraneo e quindi verso la nuova patria d’Israele la stella di David brillò con vigore , passione e speranza e proprio sulla piazzetta ,dov’è ora il bar Piccadilly , fu realizzata la Sinagoga e nella masseria Mondonuovo il kibbutz. Qui sostarono più di settecento ebrei e , tra loro, grandi personaggi della storia di Israele come Golda Meyer , testimone di un matrimonio celebrato il 26 febbraio 1946, David Ben-Gurion e Moshe Dayan rispettivamente futuri presidente del consiglio e ministro della difesa.

2.Siamo da Ginetto , nipote di Ninetto Filieri , ittiofago neretino e mio prezioso collaboratore nella Compamare Gallipoli di qualche…lustro fa. Siamo , forse, esattamente nel punto in cui circa mille anni fa sbarcarono i monaci basiliani , con le loro icone bizantine , e portarono appunto la Madonna , Santa Maria , ai bagni. Poi costruirono delle vere e proprie città sotterranee, ipogei, e santuari a cielo aperto di cui è andato perduto quasi tutto, tranne la vecchia abbazia di Santa Maria dell’Alto con un affresco di notevole qualità risalente al XIII secolo, ma che oggi fa da sfondo ad una discoteca ai piedi della serra della riviera neretina
Sorgeva accanto all'Abbazia della Madonna dell'Alto un Monastero di frati eruditi , che fu fondamento della formazione scolastica del classicismo nella terra d'Otranto fino a tutto il XVI secolo. E ciò lo testimonia un allievo d'eccezione , AntonioDe Ferraris , detto il Galateo, che sostiene che la scuola di Nardò era un centro di prestigio almeno quanto quella di Casole , a Otranto, e costituiva una vera e propria Università degli studi dell'epoca . "Al tempo di mio padre, - scrive il Galateo - "convenivano a Nardò da ogni provincia di questo regno tutti i giovani disposti ad educarsi al culto e all'ingegno". Vi studiarono gli intellettuali religiosi e laici più rappresentativo dell' Umanesimo salentino, tra cui il predicatore francescano Roberto Caracciolo , il filosofo Francesco Securo , che lasciò un impronta di insegnamento nello studio di Padova per cui era detto " Pater Academiae Patavinae " , il monaco Pietro Colonna di Galatina , che operò in Roma , e lo stesso Galateo che rimane il testimone più illuminante della letteratura salentina del secondo quattrocento e i primi anni del cinquecento. Il Galateo affermò più volte che alla tradizione greco-salentina appresa sui banchi dell'istruzione superiore neretina doveva l'amore per il pensiero di Aristotele :"Qui ho ricevuto i primi fondamenti dell'istruzione letteraria" .

3.Ma secoli prima c’erano stati i coloni romani , ci avevano costruito un approdo e qualche villa estiva nei paraggi, e ancora prima di loro, agli albori della storia , una lunga teoria di civiltà di cui è rimasto ben poco , o nulla ( parlo dei salentini , dei messapi, ma anche dei tarentini spartani). Su queste pietre c’è la storia storia, caro direttore, dico a Nicola. E lui , di rimando , sì , quella storia che non è magistra di niente , perché oggi, come allora , continua a vincere il peggiore, anche se poi non si sa più quale sia il vincitore e il vinto. E in fondo non ha nessuna importanza perché , - come disse Montale, - l’avvenire è già passato da un pezzo, è inutile starci a perdere la capa. “Può darsi che ammetta qualche replica, dato l’aumento delle prenotazioni, ma con un palmo di naso resteranno gli abbonati alle prime; e col sospetto che tutto involgarisce a tutto spiano”

4.A Santa Maria al Bagno ci siamo ritrovati come in un punto di fuga della memoria, un crocevia del tempo e il mio direttore, contraddicendo il suo proverbiale cinismo ( tipo quello del suo vecchio amico Feltri , cinismo che è poi realismo a ben vedere) comincia a farsi sentimentale ( non so quanto sarcasmo e autoironia ci sia nelle sue parole) e a dire che questi son posti dove vorresti venire a starci , a vivere per sempre:
“Mi prendo un appartamento , magari non proprio sulla strada , e guardo dalla finestra il transito infinito delle cose.”E’ uno di quei posti – dico io - dove sarebbe bello andarci anche a morire, così appartati, quieti, discreti, in silenzio, con quella specie d’aria rosata che ti piove in faccia . E’ qui che ti rendi conto che il big ben , il grande scoppio iniziale, - come disse Eusebio Montale - non dette origine a nulla di concreto, una spruzzagli di pianeti e stelle, qualche fiammifero acceso nell’eterno buio…e ciack, si gira. Tutto qui?“ La verità è nei rosicchiamenti /delle tarne e dei topi/, /nella polvere ch’esce da cassettoni ammuffiti/ e nelle croste dei ‘grana’ stagionati./ La verità è la sedimentazione , il ristagno , non la logorrea schifa dei dialettici.”…

5.Intanto è apparso Ginetto che ci porta, senza preamboli, un po’ di antipasti crudi e cotti, poi un risotto e…basta. Tutti a dieta? Io sono l’unico che prende un secondo, una frittura mista, una trasgressione come quella che poco prima Mimmo Anteri aveva consumato nell’eden di Porto Selvaggio, esattamente nei pressi della Torre Uluzzo, che sovrasta la grotta della “ Tannata”, rimanendo in bilico, come un’irreale figura sospesa nell’aria, tra le intersezioni delle linee immaginarie di rette e parallele che uniscono la protome che formano le nuvole a quella invisibile cattedrale d’aria , luci e ombre che è la storia del Salento, storia non sua, dice Carmelo Bene, ma il sangue dei martiri di Otranto – anche se sembra valere meno di quello di Pietro Micca o Pier Capponi – era sangue talentino, così quello dei morti che difesero le mura dall’assedio dei Veneziani quattro anni dopo, nel 1484. E qui, oltre alle torri che ancora vediamo alte e solenni sulle serre di Santa Caterina, c’era la mitica Torre del Fiume , che,prima di crollare su se stessa, era la guardia feroce dagli assalti pirateschi a protezione delle preziosi sorgenti . E se accostiamo appena le orecchie nelle fenditure del terreno carsico, come facevano gli indiani, possiamo ancora udire le grida neolitiche delle Veneri di Parabita, le danze mezzo arabe e mezzo greche , le pizziche e tarantate della grotta dei Cervi, le voci che dal tempio di Maryam si alzano come i gabbiani sulla Torre dell’Alto Lido.

6.Usciamo da questo tempio radiale degli appuntamenti con la memoria collettiva, usciamo in mezzo a questa lingua rocciosa e puntuta che sta proprio al traverso dell’Isola di Sant’andrea, a poche centinaia di metri di punta dell’Aspide, il serpentello caro a Cleopatra, che separa le due località balneari neretine, Santa Maria e Santa Caterina . Sembrano tornare i basiliani , con le loro grandi icone bizantine , le tavole di legno dipinte e istoriate d’oro , le teste circolari, gli sguardi arrurri , le barbe profumate di incenso , le labbra pallidissime, le preghiere e le danze. “Noi – disse Celine -non cambiamo mai !Né calzini , né padrone, né opinioni, oppure cambiamo troppo tardi, quando non ne vale più la pena“
Ma ecco che passa una nave , dall’isola di Sant’Andrea dirige nel porto di Gallipoli, la seguiamo con lo sguardo . Il tempo di uno sbadiglio nell’umidore grigio di marzo e la nave è nei pressi del molo foraneo. Incredibile a quale velocità si viaggia oggi! In altri tempo Scigliuzzo l’ormeggiatore avrebbe fatto in tempo a prendere la granita di limone e il caffè , e magari anche a fare una pennichella prima che…. Ma sai, questo è il tempo del realismo non più magico, mi dice Mimmo Anteri, e chiudiamo la partita.