lunedì 27 ottobre 2008

Il giardino dei ciliegi



1.La vicenda di Ljiubov Andreievna e della sua famiglia, simboli del mondo in dissoluzione della nobiltà terriera, la conoscete tutti. La donna, tornata da Parigi nella propria tenuta di campagna dove ha trascorso l'infanzia, si rende conto di quanto ami questo luogo e di come ogni angolo sia ricco di ricordi. Purtroppo però, a causa dei debiti, la proprietà dev'essere messa all'asta col suo grande giardino di ciliegi in fiore. A nulla valgono, del resto, i consigli dell'ex servo arricchito Lopachin, che insistentemente le suggerisce di tagliare gli alberi, lottizzare il giardino e venderlo ai villeggianti che, dalla città ormai vicina, sono interessati alle vacanze in campagna. Per altro, nessun'altra concreta iniziativa viene presa per salvare la casa. Semplicemente, fra una passeggiata all'aperto lungo il fiume, un ballo e un continuo rifugiarsi nei dolci ricordi del passato, si aspetta che l'asta vada deserta. Alla fine la tenuta sarà acquistata proprio dall'accorto Lopachin, mentre la donna e tutti coloro che la circondano dovranno andarsene..

2.Una regìa di stampo tradizionale pone di solito l'accento sulla crisi di una classe sociale, la nobiltà, e sull'affermarsi di un nuovo ceto più vitale , la borghesia, con il conseguente trasformarsi di mentalità, tema certo presente in Cechov , ma che ormai può dire ben poco alla sensibilità dello spettatore odierno.Ed è per questo che Lavaudant , il regista francese d’avanguardia , ha rappresentato recentemente a Genova il giardino senza ciliegi, senza fiori, senza foglie , senza rami, senza alcuna traccia che evochi una piantagione .Quello che accoglie l'azione è un luogo-o non luogo della mente , una sorta di candida superfice gelata da cui affiorano , come relitti, dei giocattoli meccanici e lo stesso armadio ne emerge come la punta di un iceberg. Negli atti successivi spariscono anche questi scarni riferimenti ambientali e tutta la scena è circondata da astratte tende bianche e spuntano sopra una lastra di ghiaccio figurette sparse e sgomente ciascuna di esse come incapsulata in un comportamento fisso, quasi compulsivo, priva di un' autentica possibilità di comunicare con gli altri e senza alcuna prospettiva di qualsivoglia cambiamento. Tutti i personaggi sono prigionieri di una propria piccola follìa o vaga ossessione.
Nessuno di loro , pur quando sono tutti alla ribalta, ha la capacità di incontrarsi con l'altro, ciascuno rimane come isolato nel proprio microcosmo. Una specie di itinerario della dissoluzione della parola, parola che ha perduto qualsiasi efficacia e non è possibile usare per esprimere qualsiasi sentimento. Siamo su un piano alquanto cerebrale , anche se non forza esplicitamente il testo, nel senso che le parole sono quelle di Cechov, ma ne altera i sottili equilibri poetici.

3.Va sottolineato che l’opera si può fare in diversi modi , in chiave verista, simbolista, metafisica e quindi nessuna sorpresa dalla regià di Lavaudant . C’è stato, in pssato , chi ha visto nel giardino dio stesso , uno e trino, ma va detto che Cechov era ateo. E chi ha definito il giardino il testo chiave della nostra epoca , una sorta di matematica delle futilità. Perchè tutto in questa commedia è convenzionale , banale, stupido,mediocre, inglorioso. Tutto è fatuo, le lacrime di Liubov e la sua storia d'amore , banali i sogni di Ania , irreali le fantasie di Trofimov , banali i discorsi di Gaiev , e banali i sospiri di Flirs. E' banale non solo il vissuto, non solo la mediocrità e la volgarità della vita, ma anche la favola della vita,, anche i sogni che nascono dalla vita. E' banale anche la poesia. Tutti dicono banalità, tutti fuggono da un problema essenziale e tutti sono gente mediocre per la quale Cechov non prova alcuna simpatia , presta a questi personaggi sono la sua impassibile intelligenza della pietà . Ebbene tutta la geometria del giardino, questa incantevole stupidaggine, questa sorta di vaudeville , diventa, non si sa come ,il segno infallibile della presenza e del passaggio della vita , futile nella sua decrepitezza e nella sua rinascita, futile nei suoi inverni e nelle sue primavere. Cechov non è mai autunnale, mai crepuscolare, è gelido e soleggiato , dolce e impassibile.

4.“E' sbagliato – scrisse Cesare Garboli sul Corriere della Sera di trenta anni fa - fare dei suoi personaggi foglie al vento come fa Giorgio Strehler nel suo spettacolo , al Teatro Argentina di Roma, con una Valentina Cortese che riduce Liubov a una vecchia zia svampita , neanche fosse un testo di Tennessee Williams…L’unico punto di forza della rappresentazione di Strehler è stata Monica Guerritore. Brava, non brava, poco importa , pensavo guardandola assonnata , la corta camicina da notte che scopriva gambe infantili e robuste , quanto sia un privilegio, a volte, essere eterosessuale . Sì, l’amore eterosessuale è difficile, costa tante energie; è sempre un’impresa, un viaggio nel buio . Ma si può sempre sognare di portarsi una Monica Guerritore a casa, tenersela stretta per tre , quattro giorni e poi venga pure la morte e avrà i suoi occhi”.

lunedì 20 ottobre 2008

Italo Tricarico pittore di vigilanti memorie insonni



1. Addio, Italo, pittore di vigilanti memorie insonni... Italo Tricarico non c'è più... Ed è perdita grave, è assenza che risuona quella di questo artista anarchico, ribelle, contro tutto e tutti , è come se mancasse lo spirito vitale del Salento coi suoi fichi d'india e i rovi e i profumi e il canto dei suoi colori accesi, vivi, che sapevano essere violini archi trombe e delicati passaggi di clarini, ci manca quella musica che ti va nelle vene e da queste nel cuore ti si accoglie; ci manca quel frangersi che è l'amore ascoltato, accolto, conservato , il rosso del mattino che rapido trascorre come ombra d'ala sulla terra; ma negli ultimi tempi, quando ci si incontrava ti vedevo sempre più spento, pallido, ritorto, vizzo , nei tuoi confini di quattro pareti sudate, nude, che sapevano di salso, e le tue ali ( alla Garcia Marquez) s'erano afflosciate , avvizzite , incollate le piume, era impossibile che potessi ancora volare, nonostante i tuoi sforzi , ti venivano meno le energie , ti stavi spegnendo come candela consumata.


2.Ma ti voglio ricordare quando eri l'Italo vitale che attraversava le pareti del cuore del Salento, come “ il più salentino tra i pittori “ come disse Antonio Mele . E parlava della tua arte come di un incanto puro, esplosione cromatica e sentimentale , di humus nobile e popolaresco, viscerale carnalità, di un poeta che anziché in versi , esprime coi colori il suo inno alla gioia di vivere , simboleggiata dal sole , dai girasoli , dal mare , dalla luna, dai pesci , dai papaveri accesi come fuochi luminosi dall’anima nera . E quei papaveri rossi, ma anche gialli e blu , ricorrono in quasi tutte le sue tele come i pescatori di Gallipoli , lemuri notturni stilizzati sotto la luna che inargenta il castello e la città bella , tra le reti, o nel grembo materno di case-lampare.


3.E poi quadri di fichi d’india come sogni di silenzi colorati , graffiti dell’anima meridionale , groviglio di crude dolcezze (le spine e il miele ) e di vigilanti memorie insonni, folgorazioni che lui solo sa cogliere dal torbido presente , o ascoltare nelle seduzioni delle voci e delle profezie , o tradurre dai segni tra macchie e siepi e muretti a secco, nella ridondanza di curve di una superficie ellenistica, nel remotissimo silenzio del primo giorno di vita che prepara gli accordi per i milioni di anni a venire con il diafano misticismo esoterico , nella trepida presenza di carne incredula , nella labile trasparenza di una bellezza barocca che fugge e suggestiona il contrasto , la dicotomia tra il caduco e il sublime.

4.Italo Tricarico dipinge tramonti , girasoli e fichi d’ india , musicanti guaritori , lune calanti, sciamani, tutto è trasformato nella sua mente , nella sua pittura , in una sorta di Eden gallipolino dove donne sensuali e bellissime sono fasciate di silenzio , sotto la casta luna, o immerse nelle olive , o nelle distese di papaveri , quadri fertili che fanno nascere mondi e qualcosa di vivo. Sotto il suo pennello il paesaggio salentino diventa emblema del mondo, si fa tenero e violento, denso di terrestre spiritualità , pregno di ancestrale irrequietezza ,
allucinata memoria arcaica , sentimento di solitudine, Eden agonico. Il tutto , in un linguaggio cosmico ed elementare come lo sono gli elementi della natura, in una sinfonia di toni e di spazi , in un’accensione cromatica che volge al rosso profondo, un inno alla sua terra, da cui un giorno dovette emigrare , con la famiglia , perché non ci poteva campare . Al nord , dove si recò a vivere , la sua arte si nutrì delle memorie di Gallipoli, di stucchi , gerani , mignani corti e stradine labirintiche , dei bassi e dell’odore di orina , della cultura popolare e barocca che gli si era appiccicata addosso , di quella vitalità pigra oscura fonda passionale cieca che se non trova sbocco diventa solo rabbia impotenza malinconia e nostalgia.

5. Nei suoi quadri rivivevano i ritmi e le stagioni di Gallipoli , e così riecco le focareddhe , le processioni dell’Urnia , la scapace di Santa Cristina l’acquarulu , la puzza di pesce , i tramonti da “bestie macellate”, il salnitro, la calce , le rocce ispide , la profusione di nero e la miseria. Erano come tanti spigoli per la sua anima che non trovava mai riposo e si voltava e rivoltava su quei cari umidi spinosi dolci infernali sublimi luoghi dell’infanzia , che intanto gli si andavano trasformando dentro e diventavano la sua ideale regione poetica , alimento perenne del suo estro , inesauribile fonte mitologica delle sue invenzioni

Arturo Esposito e il Simposio delle Muse




1.Dovrei parlarvi della poetica di Arturo Esposito , della sua straordinaria capacità di saper essere antico e moderno , allo stesso tempo , con riferimenti culti e certe risonanze interiori , ancestrali , quella sua tendenza epigrammatica che richiama i Penna e i De Libero, o quel suo saper creare , nella tensione alla parola assoluta , quella liquida levità dei materiali che compongono il verso, l’aerea , nitida e luminosa musicalità della parola , alla maniera quasimodiana , con aloni che risanno ora di ermetismo , ora di surrealismo. Ma c’è dentro di lui anche un Leopardi, un Kavafis, il primo Montale.

2.La sua poesia si dirama in diverse direzioni , ma trova la propria originalità e dimensione nella rappresentazione del paesaggio, un paesaggio che si fa si forma dentro di lui e diventa una sorta di primo mattino del mondo da lui rivisitato , riesplorato , un paesaggio arcaico e senza tempo , in cui registra le attese , le emozioni , le speranze ,forse i segreti del futuro , un paesaggio in cui riflette i colori dell’intero arco di spaziotempo che vi è sotteso, tempo che si fa eternità. Egli è rapito dalle stesse sue immagini . Come Rimbaud sembra voler dire: io notavo l’inesprimibile, io fissavo il turbine e non potevo più parlare.
Arturo h a scritto versi di una bellezza assoluta, che possono stare al pari dei massimi poeti, versi che non stanno in questo libro, l’ha scritti guardando da una terrazza il suo mare natio, il mare del Golfo di Sorrento, incastonato tra le montagne “Il mare travalica il finito. /La contemplazione dell'essere diventa mistero. / Il confronto, atto di fede”.

3.Scrive Mario Esposito, prefetto della repubblica , fratello amatissimo di Arturo, che ha ricordato questi suoi versi in occasione del primo anniversario della sua morte , che Arturo era sì un poeta, un intellettuale, ma soprattutto un uomo che amava la sua vita, fatta di versi, di amici, di tavole imbandite, così come fa il contadino con i suoi campi, il marinaio con il fraseggio di spuma del suo mare. Per lui quel premio che aveva fondato , Il Simposio delle Muse, era uno stato d’animo. Era la vita.

4.Ed è vero, verissimo. Lo posso testimoniare , avendo partecipato a diverse edizioni dei suoi favolosi , festosi e fastosi premi letterari , che erano dei veri e propri happening culturali , con una straordinaria incredibile cornice di pubblico e un parterre di primissimo ordine , con personaggi di grande spessore del mondo della cultura e dello spettacolo, attori, cantanti , intellettuali , poeti di grande fama come Raboni e la Spaziani , tanto per fare due soli nomi . In mezzo a questa profusione di grandi personalità che vede abitualmente impegnate una decina di professori universitari , facenti parte della Giuria , televisioni locali e nazionali , e una grande ricchezza e varietà di argomenti di carattere sociale e culturale, Arturo , il grande, inimitabile Arturo , era capace di far sentire tutti importanti e protagonisti , non trascurando nessuno , neppure i moscerini , con il suo carattere dolcemente tenace e la sua arte di farsi ora concerto, sinfonia , ora molla, batteria, vigile urbano che dirige il traffico impazzito , o dama di consolazione, a seconda della bisogna, sempre con grandissima fatica , - il suo sforzo immane avrebbe fatto secco tre uomini , mi dice qualcuno , ma era la sua grande carica di entusiasmo che funzionava da pila atomica e gli dava quell’incredibile energia nervosa , la grande sincera gioia del cuore , una costante festa dello spirito che tutto lo pervadeva , l’amicizia, la fraternità, il sentimento di pace, l’amore , unico, che metteva nel fare queste cose.

5.Ecco così doveva essere la poesia nell’antica Grecia, diceva Arturo, una specie di grande festa , la celebrazione dello spirito dell’uomo , della bellezza della natura , un banchetto che durava ore e ore, giorni e giorni, a cui tutti partecipavano , senza alcuna distinzione di casta o classe sociale. Ed era quel tipo di poesia , quel farsi dono collettivo della poesia, farsi carne , la cosa a cui lui maggiormente aspirava e riusciva a realizzare con il suo premio.
E non a caso , nella prefazione al libro , lo chiamo l’uomo dei simposi, la parte nobile del banchetto, il canto, la poesia, il dialogo. Arturo era un uomo civilissimo, colto , cordiale, pieno di grazia e gentilezza, di palpiti e sospiri , ma anche di bonaria ironia, di sogni, di fantasticherie , che aveva spiccato il senso del gioco , della rappresentazione scenica. Era un ragazzo che insegue i propri errori fatali , con tempie ancora ribollenti di passione , e gli occhi pieni di gioia di vivere.
Dice ancora meglio di me suo fratello Mario : “ Arturo era un saggio bambino che dipingeva importanti scenari culturali e sociali provando, però, l'emozione primordiale di chi gioca con la tavolozza dei colori”.

6.Ma lui era soprattutto un poeta, e non perché scrivesse versi. Ci sono moltissimi che scrivono versi , ma non sono e non saranno mai poeti . Arturo poeta nell’animo, nello spirito, nell’angolazione con cui guardava le cose , nelle emozioni che in lui suscitavano le cose meravigliose del mondo , nella nostalgica malinconia della bellezza perduta , per ciò che avrebbe voluto essere e n on era , e che forse era stato nelle sue vite anteriori ; Arturo era poeta dentro di sé e lo sarebbe comunque rimasto anche se non avesse scritto neppure un verso. La poesia – diceva Carrieri – non si fa, la poesia siamo noi, quello che avremmo voluto essere e non siamo. “ Alla malora le carte / cartigli e scartoffie/ …E’ follia, follia, restare chiuso in un calamaio/ come la seppia nel mare / che fa macchie d’angoscia e le sparpaglia”

7.Ma in realtà Arturo era anche uno scriba totale , a trecento sessanta gradi capace di scrivere di tutto e su qualsiasi cosa, sui tovaglioli di carta, sulla carta della spesa, sulle scatole di cerini, sui ritagli bianchi dei giornali. Spesso se ne stava con i suoi pensieri nudi e liberi , con le sue emozioni , a contatto con la natura, il mare , che amava moltissimo e ha descritto in centinaia di poesie sempre cambiando gli accordi , i registri , la musica , perché conosceva perfettamente la tecnica, la metrica , la rima, pur preferendo il verso libero. Gli piaceva talora andarsene a zonzo , sedere sulla pietra glabra caotica e rocciosa del Salento , come una “nuvola pensosa” , o accarezzare il fondo campestre , osservare il volo della vespa solitaria e gli sfilacciati sentieri , ascoltare la sinfonia della mosche , o il coro assordante delle cicale , aspirare il profumo del mirto , lasciarsi invadere dal fragore dei papaveri rosse e delle margherite di campo . “ La poesia non è scrivania / e tanto meno carta…La poesia è in alto e anche in basso/ dove crescono semi/ fiumi e vermi”.La poesia per lui che veniva da Sorrento , terra meravigliosa dei grandi poeti e dei grandi cantanti , la terra di Torquato Tasso e dei Caruso , era divenuta in primis la faccia del Salento , che amava profondamente, follemente : ”Vorrei abbracciarti ancora,/o mio Salento,/ per scavare nella tua terra operosa,/ tra le contrade, tra i giardini assolati,/ vicino alle tremule acque azzurrine/ e leggere, così, note antiche di canti; /leggere e spaziare, poi, con l’anima / nei paesaggi d’incanto ( vds. pag.23.).

8.Il Salento per lui erano in particolare due dimore , Tuglie , dov’erano i suoi grandi fraterni amici , Antonio e Mimina , e Gallipoli , con il suo mare greco. Il Salento è stato per lui “ un’avventura verso l’infinito” . Il mare di Gallipoli , quel mare vetro fuso che riverbera sul bianco della città, in quell’atmosfera onirica, gli dava – leopardianamente - il senso di infinito con “gli annunci dell’oro di sole…/le geometrie di vele / che hanno attraversato secoli, / le navi che hanno solcato/ onde d’oriente, onde d’occidente , onde che “non gemono”, ma sono “fuochi bianchi di mare acceso”

9.Fuochi bianchi di mare acceso, verso bellissimo , ma quei fuochi Arturo li ha inseguiti davvero , come si inseguono le nuvole o le stelle , come si insegue un sogno ad occhi aperti , e chissà forse l’ha raggiunti quei fuochi, che erano un volto , una mano gentile, un melograno , una bandiera svolazzante . .Mistero… Anche a noi capita talvolta di guardare così le cose , con l’occhio infantile, trasognato, con l’occhio del poeta che guarda e vede le cose che non dovrebbero esserci, le cose che non ci sono per gli altri , che passano in fretta in fretta , e dicono sognatore, visionario, folle al poeta , che forse è l’unico che sa vedere la realtà vera delle cose e il loro transito . Che è il vero profeta dei nostri tempi. E allora così potremmo salutare Arturo Esposito , il nostro poeta , coi versi profetici di un altro poeta, il suo amico milanese Giovanni Raboni, che fu l’ultimo e il più grande dei premiati dall’ideatore-fondatore del Simposio delle Muse , in occasione dell’ultimo concorso a cui Arturo partecipò. E noi davanti agli occhi non avremo che la calma distesa del passato/ a ripassare senza fretta / fermando ogni tanto l’immaginazione ,/ tornando un po’ indietro , ogni tanto/ per capire meglio qualcosa, / per assaporare un volto, un vestito…un albero antico”

Tuglie, 11 ottobre 2008 Augusto Benemeglio

Diario di un parroco gallipolino




1.Don Armando , sabato, 11 ottobre , un crepuscolo in faccia al mare, con un oceano di persone che sono venute da ogni dove per omaggiarlo , dallo Scoglio, dal Borgo , dalle più lontani propaggini della "città bella" , dai confini messapici con Alezio, Sannicola, Taviano , al traguardo con la marina dei taurini di Nardò e di Porto Cesareo. Eccolo il mare greco , pieno di mieru e di iodio , che il vecchio don Armando Manno respia a pieni polmoni. E questa immagine per me significa respiro del tempo , memoria , immagine che s’avvolge su se stessa e si siede sulla poltrona con quella grande tonaca nera che tutto avvolge , e poi si soffia il naso e ti strizza l’occhio , come fanno i vecchi amici che tornano a trovarti all’improvviso , dopo un lungo viaggio chissadove , e tu l’accogli con gioia, gli apri le braccia ,lo fai riposare su di te , gli offri il the e gli parli core core , o l’ascolti guardandolo diritto negli occhi.


2.Don Armando è tutto questo , calore, amicizia, conforto , ombra lunga del ricordo, che si fa elegiaco, talora malinconico, ondata di nostalgia , profumo intenso di mare , onda di risacca della Purità , Gallipoli , la sua storia, una larga fetta di storia che ha attraversato la mia esistenza d’ignaro giovane ufficiale delle capitanerie di Porto come una folata di vento, un turbine, una tempesta “perfetta”. Gallipoli , il mio Sturm und Drang , una lunga passione , sentimento e fantasia che non smemora, che non muore, anzi che perdura , come tutte le cose che s’incidono profondamente nel cuore , e lo segnano in maniera indelebile , un lungo calco d’amore che durerà per sempre, fin quando vivrò, come la mia amicizia per don Armando Manno, il prete più prete che abbia mai conosciuto , così fiero e orgoglioso d’esser prete da non togliersi mai i segni, i distintivi, i simboli della sua condizione di sacerdote , il crocifisso , il colletto rigido bianco , e quella sua sottana nera nera, lunga lunga , pesante, ingombrante , che non si toglieva mai , neppure per andare a letto. Ed è forse con qualche riluttanza che non si è fatto più fare la tonsura, la chierica , di cui andava parimenti fierissimo.

3.Tutta la sua esistenza , respiro a respiro, grammo a grammo , ansito ad ansito, atomo su atomo, è interamente riversata , fusa nel crogiolo del sacerdozio , anche quando l’essere prete gli costerà amarezza, disillusione, dolore, solitudine , lacrime e disperazione . E’ voluto essere prete ad ogni costo, fin da piccolissimo , quando tutto lo allontanava da quel percorso misterioso , e lo è stato fino in fondo , fino al sacrificio talora doloroso della rinuncia e dell’obbedienza che gli costerà lacrime e sangue.

4.E tutto ciò emerge fin dalle prime pagine del suo libro, “ Ricordi di un sacerdote gallipolino” , tip. 5 emme, 2008, in cui rievoca , in particolare , i tempi memorabili e favolosi degli anni 70-90 , in una prosa semplice, piana, fatta di scansioni , evocazioni, elegiaco gioco della memoria che rivisita , con amarezza, ma senza acredine , anche i tempi dolorosi dello scacco e della umiliazione, un libro che è un dono prezioso per tutta l’intera comunità gallipolina , un libro – scrive Gino Di Napoli – di 70 pagine scorrevoli , sincere, che si leggono piacevolmente ed evidenziano l’amore , la lealtà e la trasparenza del comportamento di Don Armando , il suo costante richiamo ai punti di riferimento del suo sacerdozio , Don Milani, Martin Luther King, Don Primo Mazzolari, ( a cui va aggiunto l’amato curato d’Ars , suo santo prediletto, n.d.r) , coerenti interpreti del messaggio cristiano e testimoni di indimenticabili battaglie per la diffusione della scolarizzazione, per la libertà, per il sostegno ai più deboli e per l’uguaglianza tra gli uomini , messaggio che il Nostro ha sempre posto in sintonia con l’obbligo dell’obbedienza ai superiori, anche quando le loro decisioni non sono condivise. E Don Armando non ne fa un mistero. Dice perché, talvolta, non le ha condivise. Ma obbedisce. Sempre, rispettando la gerarchia ecclesiatica, come gli è stato insegnato fin dagli anni del seminario.

5.Un libro che è l’uomo e il suo stile , semplice , diretto, immediato , senza fronzoli od orpelli, pragmatico, che va alla sostanza delle cose . Un libro che racconta la sua storia di semplice prete, i fatti accaduti che a Gallipoli tutti conoscono , con i loro risvolti , i loro piccoli segreti , le loro conseguenze talora impreviste , il loro divenire , il loro farsi tempo e materia della storia di questi ultimi cinquant’anni di Gallipoli ( “la storia siamo noi”) , citando personaggi favolosi che hanno attraversato la sua e nostra memoria come lampi che illuminano e squarciano il cielo , o flashes irrelati al magnesio , a partire dal suo insegnante Agostino Cataldi, insigne storico , i vescovi Margiotta e Quaremba, i sacerdoti don Sebastiano Verona, Monsignor Alberto Tricarico , don Francesco Buccarella , Mons. Corvaglia, Papa Nanu , al secolo don Sebastiano Natali , l’onorevole Foscarini , Franco Zacà, Cicci Primordio, Simone Giungato , e tanti altri,

6.Un libro tutto permeato del suo spirito , del suo modo di porsi alla gente , di raffrontarsi alle situazioni , agli eventi della sua epoca , quel suo essere semplice schivo, bonario, disponibile , che all’occorrenza però sa essere ostinato , determinato , incisivo , passionale , uno che sa lottare , strenuamente , soffrire e piangere per raggiungere gli scopi che si è prefisso. Libro - scrigno di memorie preziose , dunque. Memorie che in parte sono state da me vissute, condivise, sofferte, gioite insieme a lui , all’epoca del quartiere degli “indiani” , della zona 167 , di cui facevo parte anch’io fino a poco tempo fa. Ci ho vissuto per quasi un trentennio, in quel quartiere , che un tempo chiamavano “ La Vasca” e lì , trentaquattro anni fa , - quando non c’era praticamente nulla , neppure l’illuminazione - , lo inviò il suo vescovo , Pasquale Quaremba , dicendogli: “ vai lì da missionario , ma non spaventarti per le difficoltà che incontrerai , Non c’è ancora il tempio , ma ci sono le anime , anime che con noi sono la chiesa …non posso lasciarle senza pastore …Tu sarai il loro pastore ….”(vds. pag.42)

7.E questo prete figlio del popolo , che si sentiva vocato fin da fanciullo , - Dio lo chiamava , ed era in ogni voce , quella del mare , quella del vento, quella delle foglie dei lecci o dei limoneti , ma anche la voce della schiera dei diseredati , affamati , bisognosi , di una Gallipoli infinitamente povera , dove si riusciva a stento a sopravvivere ai lunghi dolorosi inverni e al libeccio sanguinario. Dio lo chiamava , ma la realtà , la dura realtà rappresentata dalle sue carenze nello studio, dalle scarse risorse economiche della famiglia , dalle istituzioni ecclesiastiche che allora avevano larga facoltà di scegliere fra i tanti che desideravano entrare nei Seminari , lo respingevano. Gli sembrava che tutto lo respingesse , anche una poliomielite al piede destro che lo costringerà a zoppicare per il resto della sua vita , e la falsa pietà della gente. “Ma quando Dio chiama – scrive don Armando a pag.8 – prepara la strada anche se ci sono enormi ostacoli. “ . E quella strada non passava per Gallipoli, ma per un piccolo centro ligure , Berteggi, nei pressi di Savona , dove viveva una zia del piccolo Armando. E così questo ragazzo povero , senza apparenti risorse, se non una strenua e illimitata volontà, anche grazie alla benevolenza dei chierici liguri , di cui conserverà eterna gratitudine , riuscì nell’impresa di essere ordinato sacerdote nella sua città , nella chiesa delle Carmelitane Scalze, quasi sessanta anni fa.

8.Tante volte Armando mi ha parlato con nostalgia di Savona , della sua “formazione” ligure , di cui conserva perenne ricordo , della sua prima tonsura - “O Gesù che incoroni la mia testa di un pegno radioso d’amore, incorona la mia vita delle più elette virtù, perché un giorno tutta sia consacrata a te”.
Lo vediamo nelle foto , questo pretino timido, introverso, mite , che sembra stare quasi sempre in disparte , un po’ pensieroso, spaesato , preoccupato forse di dover essere sempre all’altezza di quel privilegio meraviglioso che gli era stato dato , essere sacerdote , della grande responsabilità che gli era stata data, essere pastore di anime , e pregava intensamente per sentirsi degno del proprio ufficio e dell’abito che indossava . Ma poi lo vediamo farsi , man mano, sempre più solido, forte, sicuro di sé e dei suoi mezzi, vediamo rafforzarsi il suo grande smisurato orgoglio di essere prete , pur rimanendo profondamente umile , modesto, appartato. Armando , lo abbiamo detto, la tonaca la portava e la porta tutto il giorno, come una divisa da carabiniere , con la differenza che non smette mai d’essere in servizio , 24 ore su 24, tutti i giorni, i mesi, gli anni, una vita . E certamente non perché gli dia dei privilegi, - quelli ormai sono passati da un pezzo per i preti, se mai ci sono gli insulti, - ma perché egli è profondamente prete, e quella è per lui una seconda pelle , una pelle del corpo e dell’anima . Egli è prete fino in fondo, fino alle midolla, lo è stato , lo è da sessanta anni, un’intera esistenza, un privilegio, una gioia, ma anche una grande responsabilità.

9.Ricordo il nostro primo incontro , nella casa di via Pascoli, dove allora abitavamo , mia moglie ed io . D’intorno c’era ancora il profumo della calce viva ,l’odore dei ginepri della villa del dottor Errico , e rimasugli di conci di tufo sparsi qua e là. Era un quartiere senza nome, ancora, e senza parrocchia. Un quartiere senz’anima, proprio perché non aveva una chiesa. Ma poi venne lui , un prete umile e fiero del suo sacerdozio , un figlio del popolo con la stola e un antico sogno da plasmare. E fu subito ecclesia , ma una chiesa a cielo aperto , con tante anime affamate e assetate di Spirito Divino. E subito la notte non fu tanto buia per molti credenti , e il giorno prese la forma della mano di Dio.

10.Tu , Armando, eri il nostro pastore , e celebravi la Messa negli androni dei
condomini, nei garage , nei sottoscala , in strada , dove la tua 850 Fiat faceva da altare e confessionale . Quello fu un tempo felice, caro don Armando, perché l’uomo accettava l’amore e la battaglia con la stessa letizia. La canaglia arrivista non s’era arrogata ancora il nome di “popolo” e non c’erano Centri di Interesse, né contributi regionali da elargire per quartieri poveri e gente disagiata. Al massimo si faceva qualche libera sottoscrizione per far sopravvivere famiglie indigenti. In quell’aurora vilipesa che sorgeva ogni giorno noi tutti celebravamo cantando e operando la nascita di un quartiere, la nascita di una chiesa, la nascita di una nuova comunità, quella di San Gerardo Maiella. Tu , Armando, sacerdote per sempre , come Melchisedec , eri allora il parroco di una chiesa virtuale , c’era solo una grande buca , un mucchietto di conci di tufo , e una gettata di cemento. Ti rifugiavi nella piccola cappella di Sant’Isidoro , tra l’odore di muffa , di colla e cartapesta , ti davi da fare con la scuola materna sita in Corso Italia , t’ingegnavi con le radio locali , ed era tutto un fervore, un fermento, un senso di attesa e di speranza che oggi non esiste più. Ricordo l’esultanza e il calore di quei pomeriggi invernali , con fiumi di ragazzini che mi facevano ressa , mi toccavano con le loro manine , si sedevano sulle mie ginocchia, volevano attenzione, ascolto, avevano fame di carezze, amore, come tutti noi, del resto. La vita senza amore non vale nulla. E questo tu l’hai sempre saputo, l’hai sempre detto, l’hai sempre insegnato.

11.E poi lo ricordo , don Armando , da vero amico, - forse lui ne ha perduto traccia e memoria - quando rimasto solo per diverso tempo, a causa di un’operazione al cuore di mia moglie, m’offrì ospitalità presso il seminario. Ogni giorno mi recavo lì a consumare i pasti, grazie a lui, che era l’economo , e a don Primaldo, che ne era il direttore , e di cui conservo un ricordo straordinario, dolce e ricco di empatia. Ascoltavamo insieme la musica di quell’epoca, lui prediligeva il Bee Gees, io un po’ meno.
Poi ci sono tanti altri momenti magici trascorsi insieme a don Armando, che sarebbe troppo lungo elencare , il periodo delle recite, Il caso Gesù, al castello angioino, ma anche la Santina di Gallipoli, che è nata nella mia mente solo grazia a lui, all’epoca in cui era parroco a San Francesco d’Assisi. Fu lui a raccontarmi la storia di Lucia , mostrandomi le reliquie e tutte le lettere che aveva scritto per il suo confessore . Mi fece vedere anche quella mole impressionante di attestazioni per grazie ricevute. Ed io mi innamorai perdutamente , - e ancora lo sono, - di quella creatura celeste, come m’ero innamorato molti anni prima della sua, della nostra città, Gallipoli.
Non c’ero al tempo delle tue lacrime, quando dovesti lasciare la tua parrocchia, che avevi visto nascere , mattone su mattone , pietra su pietra, calce su calce, croce su croce, speranza su speranza. Ero stato trasferito a Roma, dove sono rimasto per circa quattro anni. Venivo solo l’estate, ma non partecipavo più alla vita sociale e pubblica.
Ma naturalmente sapevo del tuo pianto disperato e caldo nelle braccia del tuo vescovo e del fazzoletto che t’aveva donato per asciugarti le lacrime, quel fazzoletto che tu conservi ancora gelosamente tra i tuoi ricordi più significativi della tua esistenza , sapevo del tuo “ obbedisco” doloroso , e pur necessario per rimanere prete, soldato di Cristo e della Chiesa.

12.Ecco, quel gesto , quel conservare il fazzoletto del tuo vescovo intriso delle tue lacrime , quel vescovo che è pietoso e “carnefice” ad un tempo, poichè è lui che ti depriva della gioia di conservare quella parrocchia pazientemente attesa, vagheggiata, sognata per oltre dodici anni , è lui che dà ad un altro prete quella “tua” creatura appena nata e sarà l’altro a coglierne tutti i frutti - , quel fazzoletto-teca-custodia delle tue lacrime , della tua amarezza e infelicità, quel gesto di filiale accettazione del tuo destino , diviene ora - a distanza di tanti anni - il simbolo estremo , l’emblema , il vessillo, la bandiera del tuo essere prete, oserei dire della tua grandezza di uomo e sacerdote , sacerdote per sempre , al modo di Mechilsedec, fino alle estreme conseguenze, fino all’abbraccio di Dio.


Gallipoli, 11 ottobre 2008 - Sede dell’Associazione Marinai d’Italia - Augusto Benemeglio

domenica 5 ottobre 2008

Tutte le donne di Puccini






1, Manon, Mimì, Tosca, Butterfly, Turandot, tutte le donne di Puccini

Pigro e geniale , nevrotico , strafottente e timido , goliardico e primitivo, amava stare in compagnia e , allo stesso tempo , sentiva il bisogno della solitudine; era legato in modo quasi morboso alle brume del suo lago di lucchesia ( “gaudio supremo, paradiso, vas spirituale, reggia…abitanti 120, 12 case”), amava le scapestrate compagnie maschili , le scorribande tra i falaschi , il rompere della quiete di una natura selvaggia , i colpi di fucile, le imprecazioni e le bestemmie della sua gente – e tuttavia non sognava che di fuggirsene al più presto, andare a Milano , là dove si poteva far carriera, dove l’aspettavano la fama e la gloria, la ricchezza e le belle donne. Questo era Giacomo Puccini .


2. Sensibile e cinico, estrovertito e angosciato (all’improvvisa e rumorosa allegria , spesso becera, faceva seguito la malinconia e l’inquietudine, la cupezza), fumatore accanito e lavoratore fantasioso, ma discontinuo , disposto ad amare e a soffrire con una passione senza pudori, quasi sempre sopra le regole, come i suoi personaggi, ma spudoratamente bugiardo , fanfarone e infedele. Questo era Giacomo Puccini.

3.“E’ stato - scrive Federico Diotallevi – un grandissimo, immenso musicista , il vero autentico erede di Verdi, interprete e cantore del melo’ italiano nel mondo , al di fuori dei patriottismi un po’ forzati di altri operisti coevi, ma anche un sommo puttaniere, se mai ce ne furono , uno che ogni lasciata è persa , uno che il sesso ce l’aveva stampato in testa e dal sesso fu dominato interamente per tutta la sua esistenza. Si raccontano aneddoti boccacceschi su di lui , fin da quand’era ragazzo e frequentava già , nonostante avesse solo quindici anni, i bordelli di Lucca. E poi amori ad ogni latitudine , di ogni età, razza, religione, consumati in treno, negli alberghi , nelle pinete e nei tuguri, sulle spiagge di Viareggio o nella campagna di Forte dei Marmi, nei camerini teatrali. Vicende talora scabrose di cui si occupò anche la cronaca rosa e nera , come ad esempio la sua relazione con Corinna, una ragazza torinese di ventun’anni (“Sono - dirà di se stesso, con spietata sincerità - nevrotico, isterico, linfatico, degenerato, malfattoide , erotico , musico-poetico) , o quella , drammatica, legata al suicidio della servetta di casa Puccini , Doria Manfredi , una ragazza diciassettenne, invaghitasi del celebre e ormai attempato musicista lucchese e perseguitata ossessivamente , crudelmente e ingiustamente , dalla compagna e convivente di Puccini (che diverrà poi sua moglie), Elvira Bonturi. Quest’ultima , - che era stata moglie di uno dei migliori amici di Giacomo, Narciso Geminiani, e già madre di due figli, aveva abbandonato il marito e s’era rifugiata, anni addietro , a Milano, in casa del musicista , suscitando grande scalpore e scandalo a Lucca, - conosceva assai bene il maestro e il suo antico “vizietto”. Ma stavolta aveva sbagliato, poiché l’autopsia rivelò che la ragazza era illibata, e fu costretta a pagare i danni ai familiari.

4.Le donne contrassegnarono tutta la sua esistenza , furono ( insieme alle sigarette che iniziò a fumare a soli dodici anni ) una costante nella vita di Puccini , fin da bambino, quando rimase orfano del padre Michele , a soli cinque anni , con un fratello più grande e ben cinque sorelle . Fu allevato in una famiglia in cui le donne – scrive Pinzauti - dovevano apparirgli inconsciamente un’ossessione, l’incentivo di precoci curiosità e turbamenti , e quasi un incubo di dolcezza e di costrizioni”. Le donne lo soffocavano d’affetto, d’attenzioni, ma anche di ansie, di divieti , d’ attese e di frustrazioni. In questo vero e proprio gineceo, con la madre, cinque sorelle e una serie infinita di cugine e zie, si snoda la breve stagione dell’infanzia di Giacomo, che segnerà il proprio destino, insieme al pianoforte che suonava (non bene) fin dai quattordici anni nelle chiese e nei locali pubblici di villeggiature , per comprarsi le sigarette (già a quindici anni fumava in modo accanito) e – dicevano le voci – andare nelle case di tolleranza. E poi il mare di Viareggio, o le brume di Torre del Lago , gli scorci di palude , i deserti autunnali coi rami secchi che bruciano amari nelle campagne serali , le acacie ubriache di profumi, in primavera, le vie strette e polverose d’estate.


5.Una città dai confini malcerti che trascolorava tra la campagna e il mare , un microcosmo toscano di ciechi organisti matti di vino donne e incenso , tutti matti i musici Puccini , i vivi e i morti, dirà la madre Albina Magi, per spiegare la propria faticata vita di vedova perduta in un’eterna veglia , con sessantasette lire al mese di pensione , sette figli da mantenere e i problemi del quotidiano ; e poi la nonna , avara e inflessibile, la zia “nera” , energica e mascolina , la zia “rossa”, anacronistica e seducente , e le cinque sorelle, la prima, Ramelde, tagliente e impietosa, l’ultima, Iginia, che poi si fece monaca , tenera, ingenua come una bambina, tutta pietà , santini e preghiere. Per un fato che perseguita la famiglia da generazioni, gli uomini sono morti quasi tutti precocemente ( il padre Michele muore a 51 anni ) , vittime d’incidenti o dei propri fallimenti, e l’amore che si riversa sul piccolo Giacomo è a un tempo capriccioso, avvolgente e rabbioso, frustrante , pieno zeppo di remore e di tabù di natura religiosa, soprattutto quello della madre. Infatti Puccini trasferirà , inconsciamente , il suo senso di colpa , nei suoi personaggi femminili, a partire dalla sua prime opere, nell’Anna delle Villi e nella Fidelia di Edgar , donne – come avverrà anche in seguito - che pagano con la morte il loro amore “colpevole”. E anche l’attrazione sessuale , che Puccini subirà per tutta la sua vita, sarà sempre sentita , più o meno inconsciamente , come un tradimento della Madre , se non addirittura come un inconfessabile sentimento incestuoso.


6.Tutte le sue donne saranno, come lui, vulnerabili e insicure, malate di solitudine e malinconia, malate d’amore. Contrariamente a ciò che scrive in certe lettere , in cui appare cinico e calcolatore artefice dei suoi personaggi teatrali, che sembrano essere studiati a tavolino, Puccini amò profondamente tutte le “sue” donne , a partire dalla Manon Lescaut , “donna leggera e impudente , amante infelice, peccatrice senza malizia “, come la definì lo stesso abate Prevost, porto accogliente e caldo , tante volte fantasticato dalla sua indole ardente e sensuale. Una donna , insomma, tutta carne e sesso, di quelle che fanno impazzire con i loro capricci e la loro imprevedibilità, ma che alla fine ripagano i loro amanti in una morbida pienezza di sudditanza e di abbandoni, anche se sono destinate a rimanere “sole, perdute, abbandonate in lande desolate”, e a maledire la loro bellezza . Puccini ebbe il merito – scrisse un suo acerrimo critico – di sentire in sé “una certa poesia animale” , fatta di intimità e comprensione delle piccole gioie e degli umili dolori, con una sensualità facile che ha sinceri ritorni di candore compassionevole.
Quella poesia gli veniva dalla sua terra, Lucca - allora facente parte del Granducato di Toscana – , dove era nato il 22 dicembre 1858, in una famiglia in cui si respirava musica da quattro generazioni, (per un secolo e mezzo la dinastia dei Puccini ,maestri di Cappella , organisti, insegnanti ,aveva assicurato una continuità alla vita pubblica musicale lucchese) , e pur non mostrando doti musicali particolari e non fosse neppure il primo dei maschi , era stato designato l’erede dei Puccini . Non deluse le attese, ma fu solo grazie ai sacrifici e alla determinazione della madre Albina , che potè completare i suoi studi al conservatorio di Milano e divenire in capo a pochi anni uno dei più acclamati autori di musica operistica. Rispetto ai vari Catalani ,Leoncavallo, Mascagni, Giordano , Puccini aveva un miracoloso istintivo senso teatrale e grandi capacità di seduzione, in particolare sul pubblico femminile, sia con armonie e melodie sentimentali, che con il suo fascino personale d’uomo contraddittorio, dicotomico. Da un lato “bestia , birbante , maschilista , uomo da bettola e da bordello” ,dall’altra signore elegante, raffinato , amante della modernità e dell’avventura ( comprò il “bicicletto”, diverse vetture, i primi motoscafi, ebbe numerosi incidenti automobilistici); era quasi illetterato (componeva versi di una banalità soncertante , filastrocche scurrili e sgrammaticate che facevano inorridire Illica e Giocosa) , e tuttavia seppe cavare il meglio dai suoi librettisti , che erano i migliori verseggiatori sulla piazza ; la sua musica si rifaceva alla grande tradizione italiana e tuttavia fu moderna , sempre attenta, sorvegliata, aggiornata alle novità strumentali francesi e alle avanguardie viennesi.


7.Dopo la Manon, del 1893, ecco Mimì, che scopre andando a vedere a teatro, a Parigi, Vie de Boheme di Henri Murger . Se ne innamora subito e pensa di metterla in scena , nonostante Leoncavallo ci avesse pensato prima di lui e vantasse quindi dei diritti “morali” di primogenitura (Murger era morto da quasi quarant’anni, senza eredi ). “Egli musichi, io musicherò”. Ne nacque una querelle che si trascinò per diverso tempo, anche sui giornali, ma alla fine la sua Boheme, “audace esperimento di tecnica scenica impressionista”, messa in scena il 1° febbraio 1896 a Torino, fu un trionfo, e rimane ancora oggi l’opera più replicata al mondo, insieme alla Traviata di Verdi, mentre nessuno ricorda l’opera omonima di Leoncavallo. Puccini ci aveva lavorato sodo , per tre anni , durante i quali aveva messo a dura prova la pazienza dei suoi librettisti, Illica e il panciuto Giacosa , che si sfogò con l’editore Ricordi (“Sono stanco morto del continuo rifare, ritoccare, aggiungere, correggere, tagliare , riappiccicare , gonfiare a destra e a sinistra, vi giuro che a fare libretti non mi ci colgono mai più”). La storia di Lucille detta Mimì, morta tisica a ventiquattro anni nell’Ospedale di Pitiè , che farà piangere il pubblico di intere generazioni, veniva direttamente dalla cronaca del tempo , la Boheme era uno spaccato sociale della vita dell’epoca che Murger conosceva bene , ma Puccini ne fece qualcosa di straordinario, sia dal punto di vista musicale che poetico. Ne fece il simbolo stesso della ricerca della bellezza , balsamo e consolazione ideale delle quotidiane inquietudini. Voleva cadenze accattivanti, ora comiche, ora tragiche e sentimentali, che però non dovevano celare la sostanza amara e disincantata della vita ( “Voglio il riso e il pianto, la delicatezza e la volgarità, la malizia e l’innocenza, l’inquieta e malinconica solitudine che è dell’uomo, voglio carne umana , dramma rovente, sorprendente quasi, razzo finale, anche se è tristezza, malattia e morte”)


8.La musica di Puccini punta al cuore dei personaggi , facendo delle loro passioni l’autentica molla teatrale, la sua Boheme non è la cronaca di un ambiente , come quella di Murger, ma un’operazione idealizzante della memoria. “ Mimì deve morire , non in forza di un processo drammatico,ma solo in quanto allegoria d’una giovinezza che non può evolversi se non nella memoria. La fioraia Mimì, dalla bellezza esangue, rappresenta la trasfigurazione delle passioni indelebili dell’animo umano, la fugacità della giovinezza , delle illusioni e degli amori senza tempo. Mimì è il ricovero emozionale , poesia autentica delle piccole umili cose e dei giganteschi sentimenti che non hanno età...E subito dopo Mimì, semplice , affettuosa , la naturalezza fatta musica , ecco la Tosca , che sparge le sue fragranze e i suoi profumi nella Roma barocca della fine settecento del Papa Re , a Castel Sant’Angelo; profumi così intensi da far infoiare lo scellerato sbirro, Scarpia, che la vuole a tutti i costi. La Tosca di Puccini non somigliava molto a quella del dramma di Sardou , né alla Sarah Bernhardt che l’aveva portata sulle scene di tutti i teatri d’Europa .In Floria Tosca Puccini cerca quelle assonanze e quelle sintonia con la propria sensibilità , ne rievoca le proprie origini contadine e popolane , la propria orfanezza (anche Tosca è un’orfanella convertita al canto) e ne fa un personaggio tutta fragilità sentimentale e sessualità , un simbolo d’amore e di libertà che si fonde con il mirabile paesaggio descrittivo dell’alba su Roma ( “E lucevan le stelle”) , la densità della scrittura armonica, la pasta inquieta dei timbri strumentali e il finale con una delle marce funebri più disperate e crudeli di tutta la storia del teatro musicale.


9.E dopo Tosca, con cui aveva inaugurato il ventesimo secolo, proprio a Roma, ecco la Butterflay , tragica vicenda della giapponesina sedotta e abbandonata dall’ufficiale di marina americano ( quando vide la prima volta il dramma di David Belasco al Duke of York’s Theatre di Londra , Puccini ne fu talmente entusiasta che chiese subito il permesso dell’autore per trasformare Madame Butterfly in un’opera lirica) , che mise in scena il 17 febbraio 1904 alla Scala di Milano con un insuccesso pilotato (boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate) Dirà Puccini: “Come sono stati crudeli questi “buoni” milanesi e quei cani di giornalisti, con quale livore si sono scagliati . Mai io credo sia accaduto , con tanta rabbiosa e biliosa veemenza” . Le critiche furono velenose, si parlò di operetta , musica frammentata senza originalità di idee, drammetto kitsch, puro estetismo, sostanziale friabilità, opera indecente, o scaltro rimaneggiamento di materiali musicali preesistenti, ma Puccini fu difeso nientedimeno che da Giovanni Pascoli, presente alla prima, che fu facile profeta: “Caro nostro e grande maestro, la farfallina volerà; /ha l’ali sparse di polvere/ con qualche goccia qua e là,/gocce di sangue, gocce di pianto./Ma volerà, volerà…. E , infatti, solo tre mesi dopo a Brescia, l’opera ottenne un grande successo.
Secondo la Pampanini, che fu una straordinaria Butterfly, l’emozione musicale , in quest’opera, sembra nascere da lontananze misteriose, è come se Puccini fosse stato realmente in Giappone, con quei profumi notturni orientali, quelle indefinibili angosce e quel senso di poesia che approda a vere e proprie modificazioni interne del linguaggio sonoro pucciniano, certamente un’opera innovativa, d’avanguardia, una delle realizzazioni più perfette del teatro operistico del novecento.

10. Quella veglia notturna di Butterfly, il senso della solitudine che l’avvolge, il sonno del bambino, il celeberrimo coro a bocca chiusa , sono questi segni di modernità che è già sottile inquietudine di sé stessa, e forse dello stesso autore, che presagisce la propria decadenza d’uomo arrivato, d’uomo accasato ( Puccini ha compiuto 46 anni e si è sposato con Elvira, a seguito del decesso del marito di quest’ultima), apatico e circonfuso di luce , che non ha più niente da dire, come aveva scritto Illica il 25 aprile 1904, ma i tormenti di Puccini uomo moderno cominciano proprio allora. Comincia a viaggiare, si guarda intorno , avverte che è già vecchio per i critici e i musicisti più giovani, Debussy, Strauss, è umorale, provinciale , si fa mandare le camice e i colletti da Londra, descrive come un ragazzo il lusso delle cabine che gli vengono riservate sui piroscafi, si reca Buones Aires e poi a New York dove è stata allestita una stagione pucciniana. Scrive alla sorella Ramelde: “ Ah, se sapessi il porco inglese ! Come mi secca a non saperlo. Quante donne ! E quante mi cercano e mi vogliono. Anche vecchietto si trova volendo e come!...Basterebbe alzassi un dito …E che forme le donne di qui , che culi sporgenti e che personali, che capelli! Roba da far drizzare il campanile di Pisa!”Ed ecco che dalle bellezze americane nasce un’altra donna, la Minnie della Fanciulla del West, opera che andò in scena al Metropolitan la sera del 10 dicembre 1910 con un successo di pubblico solo apparente. In realtà qualcosa si è modificato, si sono ribaltate le posizioni:fino alla Butterfly era stato Puccini a portare avanti i suoi personaggi e a muoverli con un attaccamento che poteva apparire perfino sadismo, questa volta sono i personaggi a mostrarsi da soli, quasi non volessero lasciar spazio al Puccini, geniale inventore di melodie, e a costringerlo, invece, parola per parola, ad interessarsi dei loro sentimenti, insomma qualcosa di pirandelliano. In questo caso l’impeto tragico diviene enfasi fuor d’ogni misura . Siamo in presenza di un sostanziale senso di distacco fra l’opera d’arte in sé ed i sentimenti del suo creatore. Che poi sono alcuni caratteri distintivi non soltanto della musica novecentesca, ma di gran parte della produzione artistica del nostro tempo. Anche Mosco Carter , che aveva esaltato le sue eroine che s’inquadravano negli schemi freudiani, tutte sconfitte e “condannate”, tranne appunto Minnie, liquida sommariamente l’opera definendola un disfacimento del melodramma e definirà la successiva e incompiuta Turandot , un sarcofago del melodramma, la fine di un modo di concepire il teatro musicale.


11.E’ il rovesciamento delle posizioni tra i personaggi e il suo autore, tra Puccini e le sue donne. Puccini è ormai avviato al tramonto e quest’opera è la testimonianza di una crisi , siamo lungo un crinale fra le inquietudini linguistiche ed espressive che separano l’Ottocento dal Novecento.
Puccini era un artista celebre e un uomo ricco. Ormai si poteva concedere tutto, il motoscafo che lo veniva a prendere a Torre del Lago per andare a Viareggio, fucili, motori, automobili, orologi, vestiva con eleganza, era un gran signore alla mano, ma a nessuno sfuggiva la sua indomabile malinconia, la sua accentuata tristezza , che egli stesso riconosceva essere senza ragione. La sua amante ,la baronessa Josephine von Stangel , una giovane signora di Monaco di Baviera divisa dal marito, che Puccini aveva conosciuto sulla spiaggia di Viareggio verso la fine del 1917 , gli propone di abbandonare la moglie Elvira e di farsi un nido altrove, ma Giacomo, per quanto lo desideri, non ha il coraggio di un gesto che avrebbe suscitato uno scandalo troppo grande e preferisce continuare la strada dei piccoli sotterfugi e degli incontri segreti. Ciò gli provocava ansia e malumore, ma la vera angoscia era quella di non trovare un libretto adatto alla sua ispirazione, cercare altri personaggi femminili. Gli propongono una collaborazione con Dannunzio, ma lui rifiuta: Il poeta porta male al teatro lirico , scrive nel novembre del 1918 , in lui manca sempre il vero e spoglio e semplice senso umano. Tutto sempre è parossismo, corda tirata, espressione ultra eccessiva.Accetta di mettere in musica il famoso Trittico , in cui troviamo “Il tabarro”, un grand guignol, un’opera mancata con zone geniali, e poi “Gianni Schicchi” , un personaggio umoristico tratto dalla Divina Commedia, capolavoro d’equlibrio e di saggezza ridente, e infine “Suor Angelica”, con al centro un altro personaggio femminile, un’armonia di femminee delicatezze , con una musica di una mollezza quasi pascoliana, ma anche un dolce sogno virginale solcato da un momento di strazio.

12.Siamo alla fine della prima guerra mondiale e Puccini ha un assillo sempre più crescente: “rinnovarsi o morire? L’armonia d’oggi e l’orchestra non sono più le stesse.”Avverte l’esigenza di cambiare, ma non sa ancora esattamente come, in quale direzione. Ha scarti di malumore e di nostalgia uniti ad un’insaziabile e mal dissimulata curiosità nei confronti del nuovo. Vuole stupire il mondo con una nuova opera , qualcosa che gli dia nuovo entusiasmo, nuova linfa, nuova vitalità e quando l’amico Renato Simoni , alla stazione di Milano , gli propone di pensare alla messa in scena della fiaba gozzaniana “Turandot” , la storia della bella e crudele principessa misantropa, la cosa lo affascina , gli sembra adatta per realizzare le sue nuove idee. Conosce la fiaba perché è stata già messa in musica da Ferruccio Busoni e rappresentata a Zurigo nel 1917, ma lui intende farne qualcosa di fantasmagorico. Un’amica gli parla del lavoro teatrale messo in scena anni addietro in Germania da Max Rehinardt , gli promette che gli farà avere delle fotografie. Puccini s’entusiasma, chiede a Simoni di esemplificare il testo , di renderlo snello ed efficace , di esaltare la passione amorosa di Turandot che per tanto tempo ha soffocato sotto la cenere del suo grande orgoglio. Pensa ad un personaggio da realizzare “ attraverso il cervello moderno”, ma passano due anni e il lavoro non va avanti , perdura il suo malumore, quel senso di annichilamento . Gli sembra di lavorare per le ombre, gli sembrano sforzi inani , tutto inutile. “Ormai il pubblico – scrive all’amico Simoni – non ha più il palato e il gusto per la musica ; ama, subisce musiche illogiche , senza buon senso. La melodia non si fa più, o se si fa, è volgare. Si crede che il sinfonismo debba regnare , invece io credo che è la fine dell’opera di teatro. In Italia si contava, ora non più.”


13.I dubbi e le inquietudini dell’artista , il timore di perdere contatto con la realtà circostante, con le nuove correnti musicali , ora non avevano più - sullo sfondo- le nevrosi erotiche d’un tempo, che erano quasi del tutto tramontate , ma diventavano più intime e logoranti nell’incubo della vecchiaia. Pensò addirittura di sottoporsi ad un trapianto ghiandolare di ringiovanimento di cui si erano avuti esperimenti in cliniche di Parigi e Berlino. Era ricco e famoso , ma niente più gli dava la gioia, la soddisfazione, l’orgoglio di un tempo , né l’enorme gettito dei diritti d’autore, le proprietà che aveva sparse un po’ ovunque, gli amici , la caccia, i viaggi , le sue automobili. S’immerge nel lavoro della Turandot con i soliti momenti d’euforia e abbattimento, incertezze , contraddizioni, ripensamenti, e , come sempre , Puccini scarica tutte le colpe sui suoi librettisti, che erano invece intelligenti, colti e devoti a lui. Ci vogliono altri due anni, dal marzo 1922 al febbraio 1924 , per finire la strumentazione dei primi due atti, ma quello che lo angustia è il terzo atto , di cui non riesce ancora a vedere il logico sbocco drammatico.Accusa , come al solito , i “poeti” di trascurarlo, ma in realtà avverte inconsciamente che si è avviato lungo una strada senza uscita , fatta di esperienze composite che devono essere ricondotte ad un’unità .


14.Capisce che deve dare un taglio netto e definitivo al passato , con le vecchie regole del melodramma. Era partito dalla passione amorosa di Turandot, ma i sentimenti di questa donna sembravano emergere soprattutto come la componente di un misterioso ed affascinante rituale scenografico; l’unico personaggio che richiamava le sue eroine , deboli e destinate ad amare e a morire d’amore, è quello che non c’era nella fiaba drammatica del Gozzi, Liù, che conserva intatta la felicità musicale e la delicatezza delle intuizioni liriche delle sue donne , per il resto naviga in un mare di incertezze. L’ultima delle sue donne non è Turandot, ma Liù, “che va sacrificata –dice - perché questa morte può avere una forza per lo sgelamento della principessa”. Intuisce che non ce la farà a finire l’opera. “”Io ci ho messo in quest’opera tutta l’anima mia , ma non so se potrò finirla in tempo” , anche se scaramanticamente ne fissa l’esecuzione alla Scala per l’aprile 1925. Ma già nell’aprile del 1924 giunge l’evento irreparabile del suo “mal di gola” che lo affligge da diverso tempo: si tratta di un tumore maligno. Continua a sperare, o fingere di sperare ( sa che la madre e la sorella suora erano morte dello stesso male) , in agosto scrive agli amici di stare benone , soffre solo di una fastidiosa faringite e tonsillte , parla di caccia e in Ottobre si reca a Torre del Lago, per l’ultima volta. Il 3 novembre scrive a Clausetti , per la Turandot: “Occorre una donna eccezionale e un tenore che non scherzi. Non averla finita quest’opera mi addolora. Guarirò per finirla in tempo?”


15.La sera del 4 novembre Puccini parte per Bruxelles , accompagnato dal figlio Tonio: all’Institut de la Couronne , diretto dal dottor Leodux , dove sarebbe stata tentata la cura del radio , unica possibilità di salvezza, gli avevano detto a Firenze. Puccini farà un po’ da cavia e sarà la prima vittima illustre delle pionieristiche terapie anticancro. Operato il 24 novembre , - tre ore e quaranta minuti di sala operatoria , dolori atroci, impossibilitato a parlare , - Puccini scrive su un taccuino: “Caro Magrini , la Maremma è ancora bella?, si va a caccia?”. Per qualche giorno l’atroce supplizio sembra avviato a risultati positivi ( “Puccini en sortirà”, dice Ledoux) , ma alle nove di sera del 28 novembre una sopraggiunta crisi cardiaca ne segna l’inevitabile fine. “Ho l’inferno in gola, mi sento svanire”, scrive Puccini sul taccuino. Sono le sue ultime parole. Ormai non c’è più niente da fare. Arriva l’ambasciatore italiano , poi il Nunzio Apostolico che si intrattiene qualche minuto da solo e gli impartisce i sacramenti. L’agonia dura quasi tre ore. Alle undici e mezzo di sabato 29 novembre 1924, il cuore di Puccini cessa di battere.. Un attimo prima di morire forse rivede in un flash tutta la sua vita: pianista e organista adolescente a Lucca, studente e autore di pezzi orchestrali a Milano , cacciatore sul Lago di Massaciuccoli, i primi successi, il benessere, la fama, i grandi viaggi ,gli amici, le donne e il fumo , la nomina a senatore del Regno d’Italia . Rivede la galleria dei suoi personaggi femminili, le sue “grandi” donne, figure indimenticabili, fragili come onde di mare ,ma non arrendevoli, eroine struggenti che conquistano il cuore della gente, riascolta la sua musica di straordinaria forza narrativa e di miracolosa precisione teatrale , la sua musica che ci fa ancora sognare e commuovere , e si firma , con malinconica autoironia , come usava fare negli ultimi mesi della sua vita: il vostro “ sonatore del regno”.

sabato 4 ottobre 2008

Don Tonino Bello scopritore di stelle





1. “Era un poeta, era uno scopritore di stelle. Ma era , soprattutto, un santo, e i santi sono rari, sono persone che portano sulle spalle anche le nostri croci, ma con gioia, con un amore illimitato, a prova di tutto , i santi sono i giullari di Dio, come San Francesco d’Assisi , che portano un soffio di speranza sulla salvezza dell’uomo, nonostante tutto…”. Mi vengono in mente queste parole di don Riboldi , ora che fervono i preparativi per un evento degno della nostra massima attenzione , il decimo anniversario della morte ( 20 aprile 2003) di don Tonino Bello , il “ fratello vescovo” , il profeta della chiesa del grembiule , “l’uomo tutto evangelico” , le cui spoglie mortali si trovano nel cimitero di Alessano, nella sua piccola patria natìa, dove c’è un ulivo che fa ombra e musica sulla pietra tombale e un arco di pace , in pietra viva , che guarda a oriente. E tutt’intorno i bianchi gradini , il silenzio e la preghiera , un piccolo sacrario dove molte persone s’adunano per un saluto, un’orazione , una meditazione, un lieve bacio , spargendo profumi di nostalgiche memorie.



2.A pregare su quella tomba c’era stato anche lui , Riboldi, il vescovo di Acerra , qualche tempo fa. E poi era venuto a Taviano, nel cuore del vecchio Salento contadino e artigiano , quello più autentico, per celebrare l’ anniversario ( il terzo o il quarto?) della morte di “Tonino” , per offrire le proprio testimonianze sulla figura del vescovo di Molfetta , venerato in tutta la Puglia come un santo da migliaia e migliaia di persone che custodiscono come preziose reliquie i suoi ultimi sguardi ,le ultime parole di poeta di Dio : “ Che cosa faranno gli alberi stanotte, quando suoneranno a stormo le campane? Come reagirà il mare che brontola sotto la scogliera , all’annuncio della risurrezione?… L’angelo farà fremere le porte dei postriboli? E le montagne danzeranno di gioia attorno alle convalli?…Non c’è amarezza umana che non si stemperi in sorriso. Non c’è peccato che non trovi redenzione. Non c’è sepolcro la cui pietra non sia provvisoria sulla sua imboccatura. Anche le gramaglie più nere trascolorano negli abiti della gioia. Le rapsodie più tragiche accennano ai primi passi di danza. E gli ultimi accordi delle cantilene funebri contengono già i motivi festosi dell’ alleluja pasquale”.


3.Don Tonino , l’ex pretino direttore del Seminario di Ugento che giocava a pallavolo , mettendosi sempre con la squadra perdente , agitando le bandiere di stracci colorati
dei vinti , anziché i lucidi gagliardetti dei dominatori ; Don Tonino, l’ex parroco di Tricase che suonava la fisarmonica nelle feste patronali, che giocava al calcio con i ragazzi dell’oratorio, su campi sassosi e impolverati , ( era ala destra , il Garrincha con la tonaca ), ma con lo sguardo sempre attento agli afflitti , ai poveri, ai diseredati. ; Tonino , il pretino della porta accanto - uno di noi - che ti parlava con la luce negli occhi e il sorriso aperto disteso buono , ostinato testardo testimone della gioia , che conquistò tutti , giovani vecchi donne bambini tiepidi e bollenti, credenti e non , parroci di campagna e cardinali , perfino il papa che infatti lo volle fare vescovo a tutti i costi , nonostante lui non ne volesse sapere ( per umiltà, ovviamente) e come tale invece conquistò… quasi tutti; tutti tranne i preti (sic!) , i “suoi” preti che lo ostacolarono , lo avversarono , lo calunniarono , si mutarono in zelanti delatori , pur di mandarlo via da quella diocesi che gli era stata affidata, ma, intendiamoci, probabilmente sarebbe stata la stessa cosa in altre diocesi perché il pretino di Alessano era un uomo che pretendeva di applicare il vangelo alla lettera (date da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, una casa agli sfrattati, visitate gli infermi , i carcerati, ecc.) .



4.Avrebbe comunque trovato ostacoli sul suo cammino, perché la Chiesa non sempre manifestava , come lui , la “grande passione per l’uomo” , anzi spesso s’attardava all’interno delle sue tende , dove non giungeva il grido dei poveri, o si manteneva prudenzialmente al coperto , andando a braccetto con i primi piuttosto che gli ultimi, sedotta dalle sirene della politica o dalle manovre di accaparramento dei potenti . La Chiesa anziché mettersi in cammino , cercava una buona sistemazione, si trincerava dietro le sue apparenti sicurezze e non aveva il coraggio del pretino di Alessano , di uscire dai propri accampamenti, di schierarsi apertamente con gli ultimi i deboli i calpestati i diseredati i sofferenti i malati i morti di fame i ladri le prostitute , gli ubriaconi , i tossici , come palesemente faceva don Tonino. La Chiesa era spesso pavidamente neutrale , o addirittura sorda e indifferente di fronte alle ingiustizie e a chi le compie.



5.Gli unici che continuarono ad apprezzarlo , ad ammirarlo, ad amarlo incondizionatamente furono i preti impegnati , sensibili, intelligenti e coraggiosi come lui, in specie Turoldo ( un poeta) e Riboldi ( un vero e proprio guerriero di Cristo ) , preti disposti a tutto pur di difendere i deboli, i poveri, gli ultimi , - tutta quella fiumana di gente che era stata conquistata da Tonino, dai suoi occhi buoni chiari trasparenti , dal suo volto luminoso sempre proteso verso l’interlocutore , dalla sue parole di rara chiarezza bellezza e semplicità che rivelavano la presenza di un uomo eccezionale, di un profeta, di un santo. E’ tutto questo lo disse a chiare note il vescovo di Acerra , alto, bello, vigoroso, una figura carismatica , un templare con la croce sul petto anziché la spada , che parlò senza ambiguità , senza mezza misure , con estrema semplicità , oserei dire con simpatia bonaria, ma anche con quella volontà , determinazione , energia e fermezza di carattere che hanno i veri pastori d’anime , i preti fieri di riscoprirsi coscienza critica delle strutture di peccato che schiacciano gli indifesi , i deboli, i poveri del mondo . Era uno spettacolo , un lenimento dell’animo sentirlo parlare , ed io ero lì , come moltissimi altri venuti da tutte le parti del Salento , a bearmi delle parole di quest’uomo grande e straordinario (avevo fatto un po’ da staffetta al vescovo di Acerra , intrattenendo i convenuti con i miei “ Dialoghi con don Tonino”) e ogni tanto scrutavo la porta d’ingresso dell’Auditorium , dove c’era la scorta armata , gente in divisa che rischia la pelle ad ogni momento, né più ne meno come lui, - il vescovo antimafia - per due milioni al mese…


6.Riboldi era venuto a ricordare l’amico Tonino , a raccontare aneddoti, deliziosi, divertenti, illuminanti sulla figura del pretino di Alessano. Una volta si trovarono entrambi a Milano e non avevano di che vestirsi per andare a far visita
all’arcivescovo Martini e Riboldi rimediò, nella sua casa milanese , qualcosa di simile ad un abito talare , ma non era sufficiente, alla fine sembravano più due comparse di Cinecittà che due vescovi … Ma il cardinale Martini era uomo di spirito e capì…. Era venuto qui , - questo grande vescovo lombardo , che decise tanti anni fa di sposare la causa meridionale per amore , solo per amore, nient’altro che per amore , - per dirci che Tonino era uno scopritore di stelle , uno che sapeva vederle anche quando il cielo è nuvoloso , oppure non brillano perché nascoste , riusciva a scoprirle nei luoghi più impensati , là dove nessuno di noi le potrà mai trovare ; uno che sapeva scoprire stelle anche sulla terra , in mezzo al fango, tra gli ubriaconi , le prostitute , i ladri e i malfattori , i drogati , i carcerati …


7.Ma Don Riboldi era venuto anche a scuoterci , a dirci che non dobbiamo rimanere inchiodati fatalmente , come è stato per secoli e secoli, alla croce e subire soprusi , ingiustizie , violenze e ogni altra ignominia; era venuto a dirci che è ora anche per noi di togliere i chiodi , perché non sono più necessari , non dobbiamo aver paura di come toglierli questi chiodi , basta fare il primo passo…Ma non aspettiamo che qualcuno venga a toglierli…quello è l’errore esiziale. I chiodi dobbiamo toglierceli da soli . Lui era venuto a dimostrare che si possono levare quei chiodi di ignoranza, paura, omertà , però noi dobbiamo schiodarci da soli…Ecco, tutto ciò era venuto a ricordarci Mons. Antonio Riboldi , con la sua aitante presenza : “ Io dico il Padre Nostro e dicendo il Padre Nostro voglio dire tutta la mia libertà. Ditelo con me , se ne avete coraggio… Tonino lo gridava il Padre Nostro e si commuoveva ed era ebbro di libertà . Lui ne aveva , e di grande, immenso , infinito , di coraggio. Era uno di voi , popolo di formiche , gente umile laboriosa e fiera… ed è ancora in mezzo a voi, sta qui dove il dolore per secoli e secoli è stato una lunga nottata che non passava mai , una stagione delle piogge senza fine e scorreva , continuamente, senza interruzione, come oggi scorre in tutte le popolazioni del terzo quarto o quinto mondo, sta qui per ascoltare le vostre richieste, sorreggere la vostra fede che vacilla.
Vorrei ripetere ai giovani , che vedo numerosi , e al Sindaco di Taviano , le sue parole , che sono parole di speranza . Non ce ne sono di migliori , perché lui aveva come pochi il dono del carisma della poesia. Ripeto: era uno scopritore di stelle”.


8.“Abbiate speranza. Speranza significa forza di rinnovare il mondo, di cambiare le cose, nonostante tutto. Mordete la vita! Non abbiate paura, non preoccupatevi. Se voi lo volete, se avete un briciolo di speranza e una grande passione per gli anni che avete...voi cambierete il mondo e non lo lascerete cambiare agli altri. Coltivate gli interessi della pace, della giustizia, della solidarietà, della salvaguardia dell'ambiente. Il mondo ha bisogno di voi per cambiare, per ribaltare la logica corrente che è logica di violenza, di guerra, di dominio, di sopraffazione. Diventate voi la coscienza critica del mondo.

Luigi Scorrano umanista salentino



1.Qualche tempo all’aeroporto Orly di Parigi , in attesa di un volo per Johannesburg , che avrebbe poi tardato un bel po’ , per un guasto all’aereo, ebbi modo di conversare con un distinto signore di una certa età , un professore piemontese, che conosceva assai bene il Salento.
“Il Salento è abbandonato a sé stesso. Lo Stato non esiste. C’è la mafia internazionale. E poi gli sbarchi dei clandestini. Ci vorrebbe protezione, difesa dei beni e dell’immagine della regione. Ma i politici pugliesi sono di una inettitudine disarmante , che fa cadere le braccia, tutti lacchè del potere centrale. E lo stato è assente, non invia le risorse giuste per salvaguardare la vostra meravigliosa Terra d’Otranto. Anche il patrimonio culturale viene costantemente depredato, giorno dopo giorno. Negli ultimi anni si calcola che circa 100mila reperti siano stati esportati clandestinamente all’estero da parte dei tombaroli, che provocano danni incalcolabili e irreversibili nella loro crassa ignoranza: distruggono intere città archeologiche sotterranee per avidità.Si tratta di un depauperamento spaventoso, un danno incalcolabile per la cultura, per il nostro patrimonio, per la ricchezza dei pugliesi e degli italiani tutti… Le masserie, gli olivi bassi e folti, i tronchi poderosi, i trulli, la grotta della poesia, che cantò perfino quel genio mattoide di Carmelo Bene , di solito restio a certi sentimentalismi o rimpatriate, è tutto in sfacelo…”

2.Era un professore piemontese , che conosceva molto bene il Salento ( aveva sposato una aletina e avevano lì una casa dove trascorrevano buona parte della stagione estiva) e che aveva , al contrario dei politici pugliesi , grande ammirazione per gli studiosi, umanisti salentini, per uno in particolare, mi disse.” Lei certamente lo conoscerà”.
Ero convinto che fosse uno dei soliti noti , facenti parte della lobby intellettuale “accademici prezzolati “, professori universitari che compaiono un po’ in tutte le prefazioni dei libri che vengono editi ( a vari livelli, anche infimi) dalle numerose casa editrici della provincia di Lecce, o che presiedono le varie giurie dei concorsi letterari, e sono protagonisti assoluti nelle conferenze, nei forum , nei simposi letterari,o rubriche specialistiche di stampa e televisive , eccetera eccetera…
Invece no. Mi sbagliavo. Il professore piemontese mi disse che era uno di Gallipoli , la cittadina elettiva di Massimo D’alema , che ha casa sulla riviera di scirocco e veleggia su quella di ponente.
Feci rapidamente mente locale e – eureka! - dissi: ma lei parla di Rocco Buttiglione! , che è nativo della perla dello jonio e… , ma lui disse no. Pensai a qualcun altro , ma tentennai subito il capo. No, non è possibile. Lei si sbaglia. A Gallipoli non c’è nessuno studioso o letterato di fama, almeno al presente. Certo ci sono stati nel passato, anche a livello nazionale e internazionale, ma oggi come oggi non credo che…a meno che non si riferisca al grande Eugenio Barba che…

3.“Si vede che lei non conosce il professore Luigi Scorrano, disse il distinto signore.
Luigi Scorrano è un uomo di straordinario spessore acume, profondità , ma anche curiosità letteraria. Lo reputo uno dei migliori trenta, dico in Italia. A livello di un Sermonti, di un Vallone , di un Eco, tanto per intenderci, ma è ancora più poeta di loro…Avete un gioiello , una perla e non lo sapete neppure…”. E Sgarbi?
“Per cortesia non mi faccia ridere! Sgarbi è un clown , va bene per il circo televisivo, ma a livello culturale è solo un bluff. Non replicai. Ma in cuor mio ero felice per il mio amico “Gigi” Scorrano , che non è propriamente di Gallipoli , ma di Tuglie , nove chilometri appena di distanza , un ragazzo di una dolcezza e di una mitezza unica, che avevo più volte intervistato per Teleonda Gallipoli con scarsa audience( digiamolo, amici, la cultura interessa a pochissimi, meno dell’uno per cento). “Vede, - continuò il professore - la letteratura deve avere una funzione pedagogica; deve essere capace di fare appelli, di essere testimonianzxa, di essere un po’ una confessione, nevvero?”, disse un po’ manzonianamente.

4.Io rimasi impassibile e lui continuò…Lo sa che disse Ungaretti?…Che la poesia è testimonianza d’Iddio anche quando è una bestemmia…e anche quando quel Dio è sfuggente e imprendibile …la storia è possibile solo a te che non esisti…anche se falsa la menzogna della tua voce è più vera d’ogni nostra croce . "Non ha salvato la storia la tua deità /T’illudi forse di salvare /con la tua umanità la vegetante bestia della nostra omertà? /Non avrai neppure la forza di stendere sulla tua vana eternità /una smorfia di pena e di pietà.

Vede, caro amico, - continuò il piemontese - se il corpo diventa pagina per il medico, la pagina può farsi corpo per lo scrittore La scrittura, una scrittura dichiaratamente compensativa a risarcimento di una ferita dell’anima altrettantgo dolente che quella del corpo , è un'indagine diagnostica, una terapia, te gapì? Il poeta sperimenta l’innammissibilità attuale della poesia e l’impossibilità dell’autenticità del sentimento d’amore nel mondo borghese e anche l’improponibilità della morte come apoteosi tragica dell’eroe che sfugge, in quel modo , al condizionamento della volgarità e banalità borghese…il centro del dramma sta proprio nella inconciliabilità di poesia e ideologia borghese, di vita quotidiana e di esperienza artistica …

5.Ed io pensavo al mio amico Gigi Scorrano ed ero contento per lui , sempre immerso nelle “sudate carte”, come un Giacomino Leopardi da Tuglie , pensavo poi – chissà perché - alle farfalle che avevo visto sul Monte Grappa , vicino al club degli ulivi , farfalle bellissime , fragili vive colorate come l’anima , un’esile sopravvivenza della poesia ,e poi mi veniva in mente l’uomo dal fiore in bocca ,in quella notte lunghissima col professore nevrastenico che aveva perduto l'areo ( c’era un guasto, ma insomma era la stessa cosa) e dicevo tra me e me , ora questo mi verrà a dire come fanno i pacchetti i commessi di bottega e poi zac, mi fa avvicinare sotto un lampione, e mi fa vedere il fiore, l’epitelioma . Ero terrorizzato. E avevo un sonno mortale. Ma l’altra sfera del cervello mi diceva, hai visto l’hai sempre pensato che Gigi fosse una perla rara, ed ero contento che la sua fama di studioso varcasse gli angusti confini del tacco.
Intanto il piemontese carducciano e antimanzoniano continuava a blaterare"Io non risciacquavo in Arno/né piatti , né bucato , /chè anzi fin da quel tempo m’erano a noia /tutti i risciacquatori lombardi /piuttosto goffotti e presuntuosotti....La lettura di un migliaio di versi cattivi/è supplizio intollerabile ad un vero letterato...
Ed io tanti , mi creda, tanti brutti versi ho dovuto ascoltare. Sono secoli che cerchiamo un altro Leopardi , ma non vi ricorre nemmeno per caso...Un certo Saba dice che D’annunzio gli avrebbe detto che l’Italia aveva avuti , prima di lui, soli tre poeti: Dante Petrarca e Leopardi Scusi: e Tasso dove lo mette? Ma lo sa che Tasso è addirittura superiore a Leopardi?...Così davvero lei non sapeva chi è Luigi Scorrano, uno studioso fine , attento, sensibile, raffinato, colto, capace di entrare nella psicologia di un’autore fino a spolparlo delle ossa dell’anima ( mo’ l’anima tene le ossa?, ndr) , penetrare il pensiero… Davvero non lo sapeva? Mi dica la verità, la prego... Eravamo a Orly ed erano le due di notte. Ed io avevo un sonno pazzesco...disposto anche a dormire insieme a zio Paperone , e i suoi nipotini Qui Quo Qua, come poi effettivamente avvenne, alle quattro e mezzo del mattino.
No, proprio no. Stu Luigi Scorrano non so proprio chi sia….

Montale e Pagano




1.Il 19 gennaio 1948 , Montale scrive a Vittorio Pagano:“Caro Pagano, io la conosco benissimo, benchè a Lei sembrerà strano”...Per il poeta salentino, carattere esuberante ,estroverso e chiassoso , abituato agli scoppi di gioia, ma anche ai toni cupamente drammatici , o a ironizzare in modo spesso macabro, quella lettera del grande Eusebio era un dono caduto dal cielo, il riscatto di tante piccole umiliazioni, sfottò che aveva dovuto subire nel ristretto ambito del suo operare, con quattro tromboni di professori di liceo che quando lo vedevano si mettevano le dita al naso e alzavano testa e mento e uno stuolo di artisti e intellettuali falliti , o comunque rassegnati alla mediocrità. Stavolta Pagano toccò veramente il cielo con un dito per quella risposta inaspettata ad una sua lettera. Amava e ammirava moltissimo Montale , e gli si era rivolto , pochi mesi prima , per chiedergli una copia di “FINISTERRE” , l’ultima sua silloge , che comprendeva quindici poesie scritte tra il 1940 e il 1942, pubblicata nel 1943 a Lugano in soli 150 esemplari , di cui era stata da poco pubblicata una seconda edizione,a Firenze, e praticamente subito esaurita, praticamente impossibile da reperire a Lecce e in tutta l’Italia meridionale. La richiesta di Pagano non nasceva solo dalla fin troppo sviscerata ammirazione per il poeta , come diceva lui , ma anche perché la moglie del poeta salentino, Marcella Romano, allora sua fidanzata , stava preparando la tesi di laurea proprio sulla poesia di Montale. E poi , Pagano sperava (sognava) di poter invitare Montale a Lecce per parlare di poesia, e allora non era affatto facile. Anzi, praticamente impossibile.


2.Quindi la risposta di Montale lo aveva colto di grande sorpresa. Ma come faceva Montale- che nel Salento peraltro non era mai stato - a conoscere un oscuro poeta come Pagano, che non conosciamo noi neppure oggi a distanza di 60 anni?
La storia è abbastanza lunga e complessa e la riporta Gino Pisanò in un articolo pubblicato su “Apulia”. In buona sostanza il tutto si doveva alle referenze di Giacinto Spagnoletti – che aveva parlato al Poeta di Vittorio Pagano e della sua grande passione per la letteratura – e ad una brillante signora leccese ,Iole Guachi Santoro che si era recata a Milano , dov’era il fratello avvocato, proprio per incontrare Montale e ottenere il libretto di “Finisterre”.
La cosa curiosa, come ho detto, è che Pagano , certamente uno dei poeti più importanti del Salento, era conosciuto da Montale , ma ancora non lo conosciamo noi. Del resto di lui si è pubblicato pochissimo, solo una minima parte delle sue opere. E se ne attende prima o poi l’opera omnia.


3.Ma chi era Vittorio Pagano?
Era nato il 28 settembre 1919 a Lecce, da famiglia di contadini copertinesi , che si era trasferita nel capoluogo di provincia dopo gli anni di carestia. Vittorio, unico maschio tra sei sorelle, aveva frequentato l’istituto tecnico e poi ragioneria , dove litigò con un professore e fu espulso da tutte le scuole del regno Si formò allora una cultura da autodidatta, frequentando le biblioteche e conseguì – da privatista - il diploma magistrale nel 1941. Poi cominciò a scrivere, collaborando a varie riviste finchè , affascinato dai poeti francesi, s’immerse in quella letteratura e divenne talmente bravo nella lingua d’oltralpe da proporsi come traduttore .Ed è in questa veste , cioè come traduttore di Baudelare , de Nerval, Mallarmè, Rimbaud ecc. che entrò in contatto con critici letterari e poeti di prima grandezza nazionale, Spagnoletti ,Caproni , Anceschi e il grande Macrì. Morì a 62 anni , il 13 ottobre 1981 , a Lecce. Donato Valli scrisse: “La morte di Vittorio Pagano ha chiuso per sempre la partita del novecentismo, erede del simbolismo frammentista e maudit , prezioso e raffinato.I suoi versi potevano essere di un
sepolto vivo o di un crocifisso, ha il gusto del macabro, del sinistro, del disperato , ma spesso si coglie la sua ansia di fuga: “Ho sognato dei treni sempe in fuga con il viso di diavolo, momenti sudati , insudiciati quando gli occhi pensano ai …miti del sud . Addio, l’occhio si sbarra nelle spirali e vi si acceca.

Luigi Sansò, poeta-sindaco gallipolino




1.Celebrammo Luigi Sansò nel 1991 , in occasione del primo centenario dalla nascita, e in quella circostanza intestammo a lui la nuova sezione del concorso di poesia l’uomo e il mare : il “Premio Luigi Sansò , poesia in vernacolo salentino”, giunto alla 13^ edizione. “La sua esistenza terrena” – scrive Gianni Caridi nel suo libro biografico “ Luigi Sansò, Sindaco Poeta ”, Stefanelli , 1985, – “finì com’era nel suo stile . Morì silenziosamente , appartato , schivo, quasi di nascosto , in una fredda sera del 10 marzo 1963. Aveva settantadue anni e amava profondamente la vita”.

2. Ricordiamo il suo intelletto così vivo , acuto , profondo , tagliente come una spada ,ma soprattutto la saggezza del cuore , quel suo grande umile cuore che trovava le cose cercate dall’intelletto . Ricordiamo il pensatore immaginoso , l’umanista insigne, l’uomo dalla vasta e profonda cultura , il latinista che insegno’ per molti anni nel Liceo Quinto Ennio di Gallipoli , ma soprattutto il “maestro di vita” , severo critico di sé stesso, primo censore dei suoi lavori , l’uomo che non gettava mai a caso le parole , che spesso facevano breccia nel cuore della gente più umile, l’uomo che trovò sempre spazio per l’amore.


3.Ricordiamo i suoi racconti e le sue liriche , che hanno il ritmo , la cadenza , la levità di una morbida musica controllata , una classica chiarità fisica , ma soprattutto “L’Idrusa”, un poema , il suo capolavoro, in cui l’emozione e la commozione per un mucchio di immagini infrante e dimenticate dalla grande storia - la tragedia di Otranto e la pietà per gli ottocento martiri della fede , - lo spingono quasi alla corrispondenza oggettiva , a illuminare e far rifulgere una pagina viva e drammatica della storia , facendo ricorso unicamente ad una indecifrata visione del “sogno più alto” , che è quello della poesia ,della magia e della potenza misteriosa del linguaggio poetico che è capace di captare la non udibile musica del sogno solo con parole che frantumano. E’ davvero un peccato che un poema tragico ed epico come “L’Idrusa” che è patrimonio di Gallipoli, del Salento e della Puglia , di tutti noi , sia rimasto coperto da una spessa patina di polvere . Forse è il momento che venga rispolverato e degnamente rappresentato, per una festa dell’arte e della poesia , che traboccava in lui , così come la bellezza , l’utopia , l’illusione che sempre l’accompagnano. “Se un poeta non può illudere , se un poeta non costruisce – anche il più pessimista - un avvenire di fede , speranza e bellezza , non è più poeta” , diceva Leopardi , e Th. Mann , quasi di riflesso : “ Anche l’opera più disperata non puo’ avere come sostanza ultima altro che l’ottimismo , la fede nella vita : anche la disperazione reca già in se stessa la trascendenza della speranza” .


4.Luigi Sansò fu anche Sindaco di Gallipoli e lo fece davvero il Sindaco , preoccupandosi molto della propria coscienza e dei bisogni della cittadinanza , più che dell’opinione dei notabili, (peraltro , non amava essere riverito e celebrato dai lacchè di turno, né la retorica del tempo) e ciò non gli giovò davvero. Quel suo atteggiamento di costante severa, asciutta onestà che gli fece apporre dei cartelli tipo “ Non chiedete favori o raccomandazioni al Sindaco” , o “ Siate puntuali, rispettate l’orario d’Ufficio” - in un paese anarchico come Gallipoli - , gli alienò molte simpatie e voti da parte del Consiglio Comunale , ma lui tirò dritto per la sua stata , assumendosi il peso politico , morale e spirituale delle proprie decisioni , senza tentennamenti , pur nelle mille difficoltà e nell’assoluta carenza di fondi, strutture e appoggi , cercando di perseguere il bene della sua città e della popolazione , dei gallipolini , che conosceva ad uno ad uno e considerava tutti fratelli, figli o padri.

5.E padre lo fu in modo straordinario, rigoroso e pieno di insegnamenti , ma anche di affettuosa sensibilità, premure e attenzioni nei riguardi dell’unica figlia, Teresa.
“La sua nascita” - scrive Gianni Caridi - “avvenne il 12 luglio 1891 , nel centro storico di Gallipoli, sullo Scoglio, in una casa antica sita in via De Tomasi, al numero civico 30…”
Quindi, gallipolino purissimo , e fiero di essere figlio di questa terra intrisa di sale greco e di barocco, ma completamente diverso dal cliché del meridionale , salentino e gallipolino in particolare: era riservato , ordinato, preciso, rigoroso , potremmo dire “ tedesco “ se non fosse stato così profondamente italiano nell’animo , anche se non amò mai la retorica dannunziana né quella fascista . Il suo motto era “ famiglia e lavoro”, i due pilastri su cui si fondava ( e si fonda) la società . E ciò lo pose al riparo da qualsiasi tentazione, delusione , amarezza , cattiveria , dolore , sentimenti che hanno sempre una buona circolazione tra gli esseri umani…Riuscì a non venir meno ai propri principi e al dettato della sua coscienza : una vita è ben spesa se dedicata agli altri, all’amore per gli altri… E poi c’era la poesia , la sua oasi, lo “scamuzzulo”, la via di fuga , il mistero e la rivelazione.

Elisabetta Mori e gli spettri nel Salento





1.Quante vite tremende abbiamo conosciuto di creature sensibili e creative , prendete la vita di Holderlin vagabondo per le strade del mondo, o chiuso nella sua torre sul fiume; prendete Baudelaire , paralizzato, cieco ad un occhio, senza denti , che articola a fatica “Bonjour Monseur”; e Verlaine tra i rifiuti di Parigi ; Rimbaud mercante d’armi nel deserto che muore per una cancrena alla gamba, assistito dalla sorella ; la Marina Cvetaeva , disprezzata perfino dal figlio, che sale su una seggiola , getta una corda sopra una trave e s’impicca in una stalla. Maria Sole , la protagonista del romanzo “La stanza del castigo” di Elisabetta Mori ,non è una scrittrice , né un’artista , ma ha tutte le caratteristiche delle persone dotate di grande sensibilità e creatività ed è quindi fragile e desolata , con un destino fatale.


2.In lei tutto arde come un vulcano ed è profondo come il vuoto , tutte le sensazionii e gli impulsi , i lamenti e le estasi , hanno una risonanza , una eco che viene da lontano , ma non lo sa, non è consapevole , vive la sua vita , o vorrebbe vivere la sua vita come una persona normale, da piccola borghese single , in un’aurea mediocratas .
Non sa ancora che tutto, ma proprio tutto ciò che le ruota intorno, perfino gli alberi e la luce , sono proiezioni del suo io.

3.Un romanzo , quello della Mori , che apparentemente ricalca le orme di una delle tante storie che riguardano la depressione e il rapporto conflittuale madre-figlia,che viene narrato in forma piana , con un suo ritmo da clarinetto , che talvolta si fa più grave , da archi , diciamo , con qualche contrappunto di violini, qualche sussurro di flauto , ma nessun trombone o grancassa , un libro sotto certi aspetti labirintico , con risvolti alla Poe, almeno per quanto concerne quella capacità di indagine del mondo del mistero e della paura che è dentro di noi ; un libro con una tematica esplicitamente dichiarata fin dalla copertina ( il particolare di una casa salentina, col suo balcone , i suoi mignani e i pomodori secchi appesi)e dal titolo che, appunto rievoca ,i racconti neri di Poe , la stanza del castigo, ovvero(vds.pag.110):la stanza più interna della masseria dove mia madre ci teneva chiusi un quarto d’ora a sera ogni volta che avevamo disobbedito.

4.Un libro che è un viaggio, come tutti i libri , del resto , da Omero in poi, un viaggio che la protagonista, Maria Sole, compie nel suo passato , nelle ombre lunghe dei ricordi ,soprattutto nel rapporto conflittuale con la madre , che richiama subito alla mente, se non altro per associazione d’idee, “La coscienza di Zeno” di Svevo e il “Male oscuro” di Giuseppe Berto. La nevrosi, in questo caso, si scatena nella protagonista, Maria Sole , prima ancora della morte della madre , quando è costretta ad interrompere gli studi per andare a lavorare e aiutare la famiglia.La madre Violante le dice che deve andare a fare l’aiutante di segreteria di un notaio(pag.57)."Serravo gli occhi mentre ascoltavo quelle parole: Violante non poteva obbligarmi, non poteva allontanarmi dalla meta per la quale avevo lottato e molto lavorato". Poi le crisi si ripetono , dopo la morte della madre, quando tutto sembra tranquillo e sistemato, alla vigilia del matrimonio , e ogni volta è una lunga penosa angosciosa risalita, le conseguenze e gli effetti sono devastanti. Anche in questo romanzo , come negli illustri precedenti citati , la psicanalisi tenta di dare una risposta , un volto e un nome a ogni cosa , alle paure , agli incubi , al senso di panico , alle fobie che paralizzano la protagonista, e sembra averla identificata nel rapporto con la madre, ma non è così. Gli spettri , i fantasmi o i demoni che s’affollano nella mente di Maria Sole hanno un’altra matrice. Come disse Novalis, anticipando Freud e la psicanalisi: “Dentro di noi , o in nessun altro luogo, stanno i regni dell’eternità,il passato e il futuro”.


5.Dicevamo dei riferimenti illustri del male oscuro , ma ce n’è uno assai più recente, “Liberaci dal male oscuro” , saggio del sociologo Giovanni A. Cassano , di cui parla la stessa autrice in un’intervista:Mi dissero che quel libro rappresentava la "summa theologia" sui disturbi d'ansia, depressione e attacchi di panico, viste dalla prospettiva dello studioso e del medico che cura e guarisce questo tipo di malattie. Inutile chiedere ad Elisabetta Mori quanto ci sia di autobiografico, nel personaggio del romanzo .Da Flaubert in poi ( Madame Bovary sono io) è una domanda retorica. Ogni scrittore è sempre autobiografico, anche quando, come in questo caso , la scrittrice si pone in una sorta di distacco, super partes, dalla vicenda narrata.

6.Questo, dicevamo , è un viaggio che Maria Sole , per dirla con la Yourcenar, compie all’interno della “propria prigione “,un viaggio nella psiche , che è memoria che conserva un passato profondo, assoluto , originario,oscuro, una sorta di discesa nel mondo degli inferi , un percorso sofferto tormentato , con l’io che si dibatte in una lotta disperata con i propri fantasmi e demoni che conduce nella parte più profonda della psiche , verso il confronto con l’altro da sé, rifiutato e rimosso.

7.In questo viaggio la protagonista è accompagnata da una teoria di analisti, la dottoressa Demetra , il vecchio dottore , il dottor Tobia e il dottor Eugenio che fa da secondo io narrante, ma in realtà ogni volta che entra in crisi e viene colta da dolori sconosciuti che annientano le sue forze , incubi,attirata in un vortice oscuro, invasa e soggiogata dal sentimento dell’inutilità della sua esistenza , si trova da sola a lottare contro gli spettri. Dopo la morte della madre ,orma itrentenne , si trasferisce a Roma , insegnante in una scuola di periferia, e la sua vita sembra scorrere sui binari della assoluta normalita e apparente serenità , una sorta di aurea mediocritas in cui vive una single trentacinquenne. In realtà si porta dietro un mucchio di cose : i muretti a secco, i pomodori secchi e le viti nane ,le processioni, le pizziche , i monaci che volano, i morti che vanno a Leuca con il cappello in testa e le sagne , tutto un patrimonio di ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza vissuta nel Salento , insieme alla costante paura di aver paura , che l’aggrediscono in modo devastante , impedendole di operare e vivere ;ritorna – sempre - l’ombra tenace e silente della madre amata-odiata , e quasi la nostalgia della stanza del castigo. Ma non è – come abbiamo detto , la durezza della madre la radice del suo oscuro male.


8.Nel romanzo quella figura campeggia a tutto tondo ,è il personaggio più solido e convincente , ma e ne sono altri con altre ombre e luci di ricordi , altre storie in chiaroscuro che confluiscono in modo avvolgente e coinvolgente ( il diario di Tonio , il fratello morto di Maria Sole , che ci riporta negli anni di piombo , i temi della emancipazione femminile e del misticismo accennati nelle storie delle amiche Fulvia e Sara , ma anche nella zia Giacinta , nella figura ambigua di Amelia , contraltare e sirena ammaliatrice della madre , c’è Guido ,il suo fidanzato , troppo idealizzato, troppo perfetto per essere reale ; ci sono , larvatamente accennati , i temi dell’ immigrazione e della globalizzazione visti in una sorta di convivialità delle differenze , come nel caso dei fratelli gemelli che vivono in America , c’è il tentativo di stupro di Angelo , che parrebbe poi la radice del male oscuro, la figura fortemente elegiaca , nostalgica, del padre , Enrico , precocemente scomparso e il ritrovamento del suo libro che parla di un personaggio fascinoso e straordinario, sua madre , ovvero la nonna di Maria Sole, Soledad ,c’è l’intervento finale della vecchia maga o strega Nassisa, che ha risvolti romanzeschi. C’è in realtà tutto un patrimonio genetico e archetipico – rivelazione dell’inconscio – che Maria Sole non conosce e che le verrà rivelato solo nel finale.


9.“Capii in un attimo quando avevano trovato alloggio nella mia psiche i fantasmi e capii anche qual era lo spettro più prepotente e duro da scacciare: la paura di affrontare i giorni uno dopo l’altro , che si era insinuata in me con la perdita della protezione da parte di mio padre, della sua guida e della maestria nell’insegnarmi la vita. .Mi resi conto che …l’amore è un dio dalle molteplici facce…”(vds. Pag.123).C’è nel libro quel patrimonio che Jung chiamava inconscio collettivo , che appartiene a tutti noi , che è in noi , che s’incarna in noi , e che c’informa e ci limita ,ma non ci esime dalle nostre responsabilità. Gli archetipi propongono, l’uomo dispone, soprattutto se è diventato consapevole delle proprie potenzialità , anche questo ci vuole dire il romanzo di Elisabetta Mori.