martedì 9 dicembre 2008

Ascolta , turista ignaro



1.Ascolta, Turista Ignaro.
Ci sono più momenti per vivere l’estate nel Salento:
Vai a Roca , sulle rovine del castello di Maria d’Enghien,
dove il mare ha un suo sapore, una sua salsedine gagliarda
che dà timbro e colore al paesaggio.
Troverai i paesi addossati l'uno all'altro,

le case-rifugio,
l’architettura spontanea per l’uomo-pescatore e per l’uomo-artigiano.

E d’intorno un forte odore di timo a liberar i polmoni da vecchie incrostazioni.
E poi visita la Grotta della Poesia ,

in cui l'uomo scrisse i primi versi in mille lingue (ma forse erano solo gridi),

in cui Carmelo Bene fece il suo ultimo recital

e D'Alema l'ultima virata salentina, con la sua Icaro dall'ali di cera.

2.Soffermati , poi, ad Otranto , con il suo Castello aperto,

e la sua storia , più tragica che grande , di Nostra Signori dei Turchi,
e la Cattedrale che sorge come una conchiglia,
e lo splendido pavimento-mosaico di Frate Pantaleone,
una Bibbia illustrata per i poveri, con la figurina dell’Asino arpista
nella quale si riconobbe Florio Santini, lucchese-salentino dal cuore che non brucia.
Medita sugli ottocento martiri , sulle loro ossa a cielo aperto e sugli inconoscibili echi di silenzio che da quel momento ti verranno inevitabilmente incontro , tutte le sere ,
sul lungomare di Otranto, perché è proprio qui nella città più orientale d’Italia , dove ti svegliano all’alba i corvi neri con il gelato in mano che verrà la tua ora , “L’ora di tutti”, di cui parla Maria Corti, l’ora in cui ciascun uomo è chiamato a dar prova di sé.


3.Prosegui lungo la costiera troverai la Grotta dei Cervi ,un trekking per lo spirito,
E poi Santa Cesarea , la Zinzulusa , Castro Marina, indi Porto Tricase e il Ciolo di Gagliano

conle ghirlande dei pescatori e le pajare sentinelle di mare.

Per arrivare a Leuca la bianca, finibus terrae , luogo dell’oltretomba.
Guardala dall’alto questa città fantasma , che non esiste , guardala dal Santuario di Santa Maria dalle altezze del gran faro-obelisco di tufi e di calce sulla cui cima siede eternamente un angelo giallo, ammira le ville silenziose schierate come ancelle pudiche in preghiera sul lungomare
e ricorda che è qui che i salentini dopo morti fanno ritorno, col cappello in testa.
Ed è solo qui che potrai incontrare , nelle grotte marine, la sirena bianca , veloce e cieca , che Enea lasciò come testimonianza del suo passaggio.

4. E poi se un poco rimane del tuo tempo prezioso visita Vereto e le miniere di Ugento , si trovano entrambe alle spalle del mare- , dai cui scavi vedrai riemergere , come d’incanto , la civiltà messapica, che i romani rasero al suolo , perché alleati degli spartani di Taranto. Rivedrai per un attimo il mitico re Artas che cavalca insieme due cavalli di rame nel fulgore di un tramonto obliquo e l’antico porto di San Gregorio sulla lieve serra omonima ,
un fortino che ammaina il suo grido in attesa della lunga coda d’un cane notturno.

5.Infine sosta a Gallipoli, la città-bella, col suo grande nucleo isolano legato alla terraferma da un ponte su un braccio di mare, oltre il Castello Angioino, il Rivellino e la porta di terra. Perditi per un paio d’ore nel labirintico storico , con la casbah araba , miracolo di architettura rimasto intatto, gli effluvi e i colori dei gerani che traboccano dai vasi allineati sui mignani , e i riverberi della luce sulla calcina che gioca nelle corti e l’odore di salnitro , e il vento che fa danzare losanghe colorate , e la gente ospitale , fervida , generosa , creativa e fantasiosa. Poi immergiti nelle due riviere , da un lato rocce grige e dall’altro sabbia bianca e mare greco.
A Gallipoli – Isola della Luce , sosta presso la Fontana Greca ad ascoltare le voci delle tre fanciulle racchiuse nell’anima del tempo e dell’antica pietra , e forse scoprirai che qui è la fine del tuo viaggio, la fine di ogni viaggio.

domenica 7 dicembre 2008

Alda la rossa e la poesia nell'antica Grecia



1.Qualche anno fa , al Sant’Angelo di Gallipoli, in occasione della consegna della targa d'argento “L’uomo e il Mare “ ad Angela Buttiglione ( profeta in patria ) per meriti culturali, era presente una sua cara amica giornalista Rai, allora tenuta in panchina , Alda D'Eusanio detta “La Rossa” , che ora sta andando fortissimo in uno dei tanti programmi d’intrattenimento pomeridiano. Bene, la signora D'Eusanio, donna affascinante e di grande spirito, alla fine della manifestazione legata al Concorso di Poesia in Vernacolo Salentino “ Luigi Sansò “, in cui c'era stata anche la rappresentazione teatrale di un mio atto unico, “I Naufraghi” , si soffermò a parlare con qualcuno di noi e disse: “ Credetemi se vi dico che sono davvero meravigliata. Questo è un paese in cui tutti fanno poesia, tutti parlano di poesia, qui la poesia è come il bere, il mangiare, l'andare a dormire, il fare l'amore. Sono affascinata e sbalordita , ma ditemi: forse qui non siamo più in Italia ?”


2.La sua domanda poteva sembrare anche sibillina , tenuto conto che poco prima aveva detto alla sua amica Angela di non aver capito praticamente nulla delle poesie dialettali e della commedia , in cui il personaggio principale recitava in dialetto gallipolino, e tuttavia c’era nelle sue parole un che’ di stupore e di sincera ammirazione . Ma in effetti la D’Eusanio non era andata poi così lontana dalla verità, se consideriamo che la popolazione salentina discende in gran parte dai Greci e ci sono tuttora sacche in cui si parla il grecanico. Questa è “Magna Grecia” e la gente ha inscritto nel suo DNA , nella sua memoria atavica la grande poesia popolare greca, quella degli aedi, quella di Omero per intenderci ed ecco del perché tutti si sentono un po’ poeti, anche quando sarebbe meglio che facessero altre cose.


3.Ma com'era questa poesia greca di cui tanto si favoleggia?
Ce la spiega Odisseo , quando descrive ad Alcinoo , re dei Feaci, la gioia che colma gli invitati mentre odono i cantori, e le sale sono piene di di pane e di carni, e il coppiere attinge il vino nel cratere e lo versa nelle coppe. "Questo mi sembra nell'animo una cosa bellissima", dice Ulisse.
La gioia che suscitava la poesia omerica nasceva dalla pienezza dell'essere, era per l'appunto un piacere corporeo , come quello del cibo, dell'amore, del bagno, della danza; un piacere che impegnava tutto l'animo e il cuore.Come in nessun'altra tradizione occidentale, la poesia era gioia, ma i greci sapevano come fosse tragica la gioia nel mondo luminoso di Apollo. Perchè la la cetra che dà gioia è lo stesso strumento dell'arco che dà la morte. Quindi il poeta era un arciere: la sua canzone una freccia che non sbagliava mai la meta; e la corda dell'arco vibrava come le corde della cetra. La poesia era allora tutto, una forma di spettacolo completo: musica, danza e teatro: c'erano i cantori, con le lire e le cetre, c'erano i danzatori che si esibivano per ore, mentre gli ascoltatori consumavano il loro banchetto.

4.Ora noi in quella serata , che rimarrà legata alle presenze di Angela Buttiglione e Alda la Rossa , non abbiamo fatto certamente un revival della poesia greca antica, né nulla di straordinario e memorabile, ma gli ingredienti ( poesia, musica, danza, teatro, atmosfera ) c’erano tutti e sono stati quelli che forse hanno stimolato l'immaginazione di una "forestiera" sensibile come Alda D'Eusanio, che con il suo linguaggio talora in colorito romanesco, si è soffermata divertita a fare i complimenti ai poeti dialettali e agli attori della piece, firmando molti autografi. E’ stata gentile, Alda la Rossa , anche perché è venuta a Gallipoli per il solo piacere di stare con un’amica e fare conoscenza di una città e di una terra che non aveva mai visto prima. Alda non ha ricevuto alcun premio, né ha avuto prebende di qualsiasi genere, anche indirettamente. Del resto il nostro non era il Premio “Balocco” e lei non è la Sofia Loren , che per la sua comparsata ha intascato il modico assegno di 200 milioni ( Qualcuno dice quattrocento) di svalutate lirette, quasi la metà dei quattrini che ci son voluti per far erigere una sorta di ridicola “Torre Eiffel” sul Corso per l’ultimo giorno del millennio.

5.Fatta questa rievocazione che vuole essere anche un atto di speranza e fede perchè la poesia possa tornare ad avere quel significato gioioso di una volta, vorrei spendere altre due parole sulla poesia dialettale , una poesia che è stata per secoli sinonimo di comico, burlesco o grottesco e che non ha avuto una propria dignità dal profondo, ma gliela hanno conferita grandissimi poeti borghesi quali il Porta, il Belli, il Tessa, che erano dei grandi reazionari che , come dice Cattaneo, si finsero plebe per affilare coll'acerbità popolare l'ottusa verità. Questi signori regredivano a livello di servi, prestando loro con sapiente mimetismo la parola di cui erano storicamente deprivati, per esprimere più liberamente ed efficacemente il proprio pensiero. Hanno "registrato" il linguaggio del mondo popolare, il suo fervido disordine pulsionale, lasciandolo però chiuso nel loro ghetto.

6.Ora le cose sono cambiate. I poeti dialettali , grazie alla scuola e all'istruzione, sono divenuti soggetti di storia, protagonisti della loro storia e rivendicano il loro diritto di partecipare alla cultura egemone; anzi, ora che la lingua italiana è arrivata ad un porto sepolto, ad una via senza uscita nè ritorno, i poeti dialettali si propongono come modello di integrità linguistica e antropologica, dicono che lo strumento dialettale è una musica alta che si può realizzare con strumenti etnografici, che è la vera lingua viva, lingua autobiografica, lingua del profondo, che risale verso gli idomi dei padri e dei nonni, che ha più spessore e valenza, perchè è incontaminata, integra, fedele alle proprie origini. Questo processo è già avvenuto al Nord , qui al Sud , e in specie nel Salento invece si stenta a decollare, anche se non mancano tenaci e valorosi studiosi come Donato Valli e poeti di assoluto rispetto come Nicola G. De Donno . Anche in questo senso segniamo un ritardo di una ventina d'anni. Speriamo che a partire magari da …ora ci si possa avviare su una strada sicura , che è importante pe ril futuro della poesia , ma anche per il pieno recupero dell’identità di un popolo ; una strada che, chissà, magari ci riporterà , passettino su passettino , alla gioiosità della poesia omerica?
E allora inviteremo di nuovo Alda la Rossa, ma stavolta , temo, non verrà più solo per diporto.

Sulle vie del barocco leccese


1. Eccomi ancora una volta a Lecce , con Mimmo Anteri, sulle vie del barocco, dove un tempo fiorivano i limoni e le cattedrali , ” case del sole e di Dio”. Un barocco arioso, elegante, vero godimento per gli occhi , - dice il maestro Anteri , - ma anche la gente salentina è formidabile ,generosa , ti accoglie a braccia aperte , è pronta a mostrarti tutto quello che ha. E’partecipativa, generosa. Se è vero che ciascuno di noi emana una propria musica, sulle facce della gente leccese tu puoi ascoltare la sinfonia del del barocco, che si spande per tutta la città, da porta Rudiae alla magnifica Piazza Sant’Oronzo, dal Palazzo dei Celestini, a Santa Croce, con la facciata che è una teoria di figure ricche di valori simbolici, un vero e proprio trattato applicato alla pietra; e qui le note si fanno corteo di decorazioni architettoniche che esplodono come dalle canne di un grande immenso organo di maggio dalle chiese, case e balconi , dagli stemmi e portali, un effluvio di fiori, frutta , nastri svolazzanti , colonne tortili, cornici fastose, balaustre a trafori, frontoni ricurvi , putti e mascheroni con la pietra leccese , calda e dorata . Lecce è tutta una sinfonia barocca, ma il barocco leccese è molto diverso da quello francese, o da quello spagnolo arabizzante. E’ il prodotto di artigiani e artisti pieni di fantasia , architetti esuberanti,come lo Zimbalo, che avevano però il senso vivo della geometria e il gusto classico rinascimentale, conoscevano Piero della Francesca e la Divina Proporzione . S’avverte una pulizia mentale che ingentilisce lo stile. In queste opere c’è una vera e propria raffinatezza spirituale che diventa anche finezza di comportamenti umani. Io credo che Lecce sia unica nel suo genere,certo è anche greca, bizantina, è anche normanna , araba, moresca , spagnola, borbonica, ma è barocca la sua anima più autentica, che si riflette nei suoi palazzi e chiese , un’elegia d’angeli, santi e frutti di pietra, una sinfonia di fregi , pinnacoli ,cariatidi che fanno coro su un portale o un balcone , e ti lasciano costantemente meravigliato. E senti , dentro di te , l’odore del miele, squarci d’infanzia lontana che ti richiamano le splendide rosacee melegrane di Ercole Pignatelli, o la musica di Boccherini , Tartini, Corelli , Scarlatti, che scandisce il suo ritmo arioso , largo per le vie di Lecce.

2.Ma tra i tanti illustri visitatori entusiasti della capitale del Salento , - da Federico II a Goethe , da Valery a Papa Giovanni Paolo II - c’è stato anche qualcuno che ha detto a chiare note che il barocco leccese è il parto di un’anima morbosa e cervellotica , e che la regione salentina è attraversata da linee di follia , - cose che ben esprimono certi suoi geniacci come Vanini , Comi, Ciardo, Bodini , Pagano, Barbieri, Toma, Verri, Eugenio Barba e, da ultimo, il grande Carmelo Bene. “In fondo il barocco- ha detto Cotroneo , che ha messo radici a Otranto- “non è che la continuazione di ciò che hanno lasciato gli arabi , il contrasto fra la sensazione profonda di pace e il posto dove aleggiano le passioni”


3.Del resto i primi a parlarne in negativo erano stati artisti salentini come Suppressa e Bodini che scrive: “ Lecce è una città falsa , immota, ferma al seicento eterno , categoria del barocco, dove l’ozio e il capriccio ricamarono la sua tenera pietra e dal puro invisibile nacquero i colori e cose avvertite ed espresse solo per un allarme preistorico: la lucertola in fuga contro l’enorme cosa immobile del cielo pitagorico, nervature di dinosauri affioranti dal velo di terra, terra del nulla , della nudità, delle nuvole, dove i tarantolati passeggiano sulle volte delle assurde chiese insieme agli angeli”, - e come Ugo Ercole d’Andrea , che rafforza quel concetto, chiamando la sua città “Lecce la morta , che ama solo lo sfavillìo degli ori barocchi e inganna perfino la morte” , o lo stesso Carmelo Bene che dichiara essere il Salento una specie di “bordello di culture .


4.Qui son passati tutti, per secoli e secoli, ciascuno lasciando il proprio retaggio, greci, romani, bizantini ,normanni, arabi, spagnoli , ecc. mai curandosi di chi c’era Questa è una terra votata alla morte. E’ nel suo destino tragico, anzi grottesco, perché è una morte arcadica, barocca”. E anche l’ammiraglio Renato Fadda , un sardo qui trapiantato che ammira molto l’intelligenza dei salentini, dice chiaramente : non ci fossilizziamo con il barocco. Qui tutto è barocco, c’è il premio, la regione, la geografia, la via , anzi le vie: ragazzi , guardiamo oltre . Noi veniamo dal mondo greco , nel nostro Dna c’è ( ci dovrebbe essere ) l’amore per la cultura , il teatro , la filosofia , l’arte, la bellezza , invece poniamo tutto al secondo posto rispetto al benessere economico, questa è la verità. Detto questo, non posso fare a meno di confermare , come ha detto qualcuno, che Lecce è la più bella città del meridione. Ma forse per recuperare quella bellezza, l’incanto e il senso del fascino e della magìa che emana la città salentina , dobbiamo tornare ai poeti forestieri, a Marino Moretti che venne a Lecce tanti anni per il Giro d’Italia , evento che si è ripetuto poco tempo fa. A fine corsa , quando i corridori, stanchi , si ritirarono nei loro alberghi e lui , come giornalista culturale , poté finalmente visitare un po’ la città , scrisse.“ Quando scende la notte Lecce riluce come una rosa d’argento.Noi credevamo di arrivare in una città e siamo entrati in un fiore, per essere più precisi in una rosa. Così appare Lecce nel cerchio antico delle mura corrose e violente che chiudono morbidi intrighi di strade , tra case chiare disposti a larghi cerchi intorno al suo cuore di marmo. Bianca sotto la luce siderale, silenziosa e raccolta, Lecce è una rosa d’argento. A rivederci , città bionda e gentile , porta d’Oriente, rosa d’Italia ,città linda come un salotto , dai palazzi ricamati, le chiese come giardini e gli alberi come castelli”.

I tre di Santa Maria



1.Un fine Marzo a Santa Maria al Bagno , frazione di Nardò, insieme a Nicola Apollonio e a Mimmo Anteri , artista cosmico alla ricerca dell’unità dell’anima , che vive per arrivare al “centro” , per raggiungere l’ansietà dei rossi ( parliamo di colori, ovviamente) , come una Santa Caterina da Riva Levante. Ci troviamo dinanzi al mare rugginoso della costa neretina , in una trattoria fatta di tufi ,calce , salnitro, solitudine e ricordi , anche nobili, come quelli , ad esempio, che custodisce la vicina piazzetta circolare , metà moresca e metà “liberty piccadilly” , che dà sullo stabilimento ex Malignano, cuore del piccolo centro balneare. E’ qui, infatti, senza grancassa, senza fanfare e senza sbandierare chissà quali eroismi , che gli abitanti del “neretino” conquistarono la loro medaglia d’oro al valor civile , per solidarietà umana, conferimento che è stata attribuito poco tempo fa dal presidente Ciampi al rappresentante della collettività, il sindaco di Nardò . E’ qui, in questo piccolo villaggio popolato da pescatori, noto ai salentini soprattutto per le “Quattro colonne”, cioè le rovine di una imponente torre tra le tante volute da Carlo V per il presidio della costa, che trovarono rifugio, ospitalità e assistenza gli ebrei scampati all’olocausto ; in questo trampolino ideale proteso sul Mediterraneo e quindi verso la nuova patria d’Israele la stella di David brillò con vigore , passione e speranza e proprio sulla piazzetta ,dov’è ora il bar Piccadilly , fu realizzata la Sinagoga e nella masseria Mondonuovo il kibbutz. Qui sostarono più di settecento ebrei e , tra loro, grandi personaggi della storia di Israele come Golda Meyer , testimone di un matrimonio celebrato il 26 febbraio 1946, David Ben-Gurion e Moshe Dayan rispettivamente futuri presidente del consiglio e ministro della difesa.

2.Siamo da Ginetto , nipote di Ninetto Filieri , ittiofago neretino e mio prezioso collaboratore nella Compamare Gallipoli di qualche…lustro fa. Siamo , forse, esattamente nel punto in cui circa mille anni fa sbarcarono i monaci basiliani , con le loro icone bizantine , e portarono appunto la Madonna , Santa Maria , ai bagni. Poi costruirono delle vere e proprie città sotterranee, ipogei, e santuari a cielo aperto di cui è andato perduto quasi tutto, tranne la vecchia abbazia di Santa Maria dell’Alto con un affresco di notevole qualità risalente al XIII secolo, ma che oggi fa da sfondo ad una discoteca ai piedi della serra della riviera neretina
Sorgeva accanto all'Abbazia della Madonna dell'Alto un Monastero di frati eruditi , che fu fondamento della formazione scolastica del classicismo nella terra d'Otranto fino a tutto il XVI secolo. E ciò lo testimonia un allievo d'eccezione , AntonioDe Ferraris , detto il Galateo, che sostiene che la scuola di Nardò era un centro di prestigio almeno quanto quella di Casole , a Otranto, e costituiva una vera e propria Università degli studi dell'epoca . "Al tempo di mio padre, - scrive il Galateo - "convenivano a Nardò da ogni provincia di questo regno tutti i giovani disposti ad educarsi al culto e all'ingegno". Vi studiarono gli intellettuali religiosi e laici più rappresentativo dell' Umanesimo salentino, tra cui il predicatore francescano Roberto Caracciolo , il filosofo Francesco Securo , che lasciò un impronta di insegnamento nello studio di Padova per cui era detto " Pater Academiae Patavinae " , il monaco Pietro Colonna di Galatina , che operò in Roma , e lo stesso Galateo che rimane il testimone più illuminante della letteratura salentina del secondo quattrocento e i primi anni del cinquecento. Il Galateo affermò più volte che alla tradizione greco-salentina appresa sui banchi dell'istruzione superiore neretina doveva l'amore per il pensiero di Aristotele :"Qui ho ricevuto i primi fondamenti dell'istruzione letteraria" .

3.Ma secoli prima c’erano stati i coloni romani , ci avevano costruito un approdo e qualche villa estiva nei paraggi, e ancora prima di loro, agli albori della storia , una lunga teoria di civiltà di cui è rimasto ben poco , o nulla ( parlo dei salentini , dei messapi, ma anche dei tarentini spartani). Su queste pietre c’è la storia storia, caro direttore, dico a Nicola. E lui , di rimando , sì , quella storia che non è magistra di niente , perché oggi, come allora , continua a vincere il peggiore, anche se poi non si sa più quale sia il vincitore e il vinto. E in fondo non ha nessuna importanza perché , - come disse Montale, - l’avvenire è già passato da un pezzo, è inutile starci a perdere la capa. “Può darsi che ammetta qualche replica, dato l’aumento delle prenotazioni, ma con un palmo di naso resteranno gli abbonati alle prime; e col sospetto che tutto involgarisce a tutto spiano”

4.A Santa Maria al Bagno ci siamo ritrovati come in un punto di fuga della memoria, un crocevia del tempo e il mio direttore, contraddicendo il suo proverbiale cinismo ( tipo quello del suo vecchio amico Feltri , cinismo che è poi realismo a ben vedere) comincia a farsi sentimentale ( non so quanto sarcasmo e autoironia ci sia nelle sue parole) e a dire che questi son posti dove vorresti venire a starci , a vivere per sempre:
“Mi prendo un appartamento , magari non proprio sulla strada , e guardo dalla finestra il transito infinito delle cose.”E’ uno di quei posti – dico io - dove sarebbe bello andarci anche a morire, così appartati, quieti, discreti, in silenzio, con quella specie d’aria rosata che ti piove in faccia . E’ qui che ti rendi conto che il big ben , il grande scoppio iniziale, - come disse Eusebio Montale - non dette origine a nulla di concreto, una spruzzagli di pianeti e stelle, qualche fiammifero acceso nell’eterno buio…e ciack, si gira. Tutto qui?“ La verità è nei rosicchiamenti /delle tarne e dei topi/, /nella polvere ch’esce da cassettoni ammuffiti/ e nelle croste dei ‘grana’ stagionati./ La verità è la sedimentazione , il ristagno , non la logorrea schifa dei dialettici.”…

5.Intanto è apparso Ginetto che ci porta, senza preamboli, un po’ di antipasti crudi e cotti, poi un risotto e…basta. Tutti a dieta? Io sono l’unico che prende un secondo, una frittura mista, una trasgressione come quella che poco prima Mimmo Anteri aveva consumato nell’eden di Porto Selvaggio, esattamente nei pressi della Torre Uluzzo, che sovrasta la grotta della “ Tannata”, rimanendo in bilico, come un’irreale figura sospesa nell’aria, tra le intersezioni delle linee immaginarie di rette e parallele che uniscono la protome che formano le nuvole a quella invisibile cattedrale d’aria , luci e ombre che è la storia del Salento, storia non sua, dice Carmelo Bene, ma il sangue dei martiri di Otranto – anche se sembra valere meno di quello di Pietro Micca o Pier Capponi – era sangue talentino, così quello dei morti che difesero le mura dall’assedio dei Veneziani quattro anni dopo, nel 1484. E qui, oltre alle torri che ancora vediamo alte e solenni sulle serre di Santa Caterina, c’era la mitica Torre del Fiume , che,prima di crollare su se stessa, era la guardia feroce dagli assalti pirateschi a protezione delle preziosi sorgenti . E se accostiamo appena le orecchie nelle fenditure del terreno carsico, come facevano gli indiani, possiamo ancora udire le grida neolitiche delle Veneri di Parabita, le danze mezzo arabe e mezzo greche , le pizziche e tarantate della grotta dei Cervi, le voci che dal tempio di Maryam si alzano come i gabbiani sulla Torre dell’Alto Lido.

6.Usciamo da questo tempio radiale degli appuntamenti con la memoria collettiva, usciamo in mezzo a questa lingua rocciosa e puntuta che sta proprio al traverso dell’Isola di Sant’andrea, a poche centinaia di metri di punta dell’Aspide, il serpentello caro a Cleopatra, che separa le due località balneari neretine, Santa Maria e Santa Caterina . Sembrano tornare i basiliani , con le loro grandi icone bizantine , le tavole di legno dipinte e istoriate d’oro , le teste circolari, gli sguardi arrurri , le barbe profumate di incenso , le labbra pallidissime, le preghiere e le danze. “Noi – disse Celine -non cambiamo mai !Né calzini , né padrone, né opinioni, oppure cambiamo troppo tardi, quando non ne vale più la pena“
Ma ecco che passa una nave , dall’isola di Sant’Andrea dirige nel porto di Gallipoli, la seguiamo con lo sguardo . Il tempo di uno sbadiglio nell’umidore grigio di marzo e la nave è nei pressi del molo foraneo. Incredibile a quale velocità si viaggia oggi! In altri tempo Scigliuzzo l’ormeggiatore avrebbe fatto in tempo a prendere la granita di limone e il caffè , e magari anche a fare una pennichella prima che…. Ma sai, questo è il tempo del realismo non più magico, mi dice Mimmo Anteri, e chiudiamo la partita.

giovedì 4 dicembre 2008

Antico Natale Salentino



1. Scrive Sabino Acquaviva : “Ho nostalgia del presepe , di quel natale di tanti anni or sono. Ma non so se la nostalgia è soltanto mia o di un’intera società che ha perduto molti legami con la propria storia”. Certo , la nostalgia è di tutti , ma il Natale di una volta rimane più sognato che vero. E tuttavia , ancora oggi , Dicembre rimane il mese simbolo della nostra vita , il mese del “redde rationem” , del “noi siamo” , dell’ultima verità ; e l’ultima verità è che “ Dio non sorvola più le acque come nell’affaccendarsi della creazione, ma è qui, tra noi”; è fra le travi, le greppie e scoli , nel caldo di una stalla , quel caldo sicuro , costante epacifico che viene dagli animali , il loro fiato umido e innocente che sprigiona la vita, e che ancora oggi ridiventa cosa viva in un presepio salentino, come ci ricorda il gallipolino Agostino Cataldi:

“Aggiu fattu nu Brasepiu,/ca è cosa te nnamuri
su na banca, mmienzu casa,/cu la crita e cu li suri
Aggiu misu li pasturi/ Ciucci, vacche e pecureddhe;
nu massaru , nu furnaru/ e nu macu de le steddhe

2.Ed ecco che “al suonar delle campane , come nata per la prima volta, ci abbaglierà la luce, la stessa che videro i pastori e fu forse l’esplodere stesso degli angeli che li avevano svegliati e si frantumarono in una miriade accecante quando raccattarono le zampogne e corsero alla stalla”.
Natale è quel ritorno alla luce, questo ritorno del nascere , questa grazia che arriva dai pifferai, dai suonatori di flauto di De Gregori che hanno il capestro già sul collo:


Eccu, già s’ha ‘mbicinatu /Chianu chianu lu Natale;/ogni notte disciatati/de la vecchia Pasturale…/sonaturi de cimbarra,/ de fischetti e piumini

3.Natale è , per il neretino Pantaleo Ingusci , una voce di contadina che canta con virginale chiarezza e le note di quel canto diventano un’arpa misteriosa quasi celeste, come è sempre quando è voce di donna giovane e pura e bella. Il canto salentino – annota Ingusci - ha tutti i toni dell’oriente e dell’occidente, la luce di un cielo sereno e il fremito dei mari che fluttuano intorno alle sponde di questo vecchio Salento, porta e crocevia di tutte le civiltà. “C’è sempre , dentro quella voce , qualcosa di amaro, come di una legge di tristezza e di dolore che incomba sulla vita . L’anima salentina è fatta così, nel canto dei nostri contadini , nel loro canto d’amore s’insinua il sentimento del dolore che viene dalla natura, una natura difficile , una terra spesso arida , avara fatta di sasso e di roccia affiorante con poche oasi rigogliose , terra rupestre dalle cui viscere sorgono , ieratici e solenni , pensosi e millenari i boschi d’ulivo”. Quegli ulivi che – secondo Salvatore Coluccia – saranno fondamentali per il divino Bambino , Giuseppe e Maria , fuggitivi , inseguiti dagli sgherri di Erode; l’angoscia dell’avvicinarsi dei soldati, il terrore della mancanza di un sicuro rifugio, induce Maria alla disperazione . Di fronte a lei , a suo marito e al Bambino s’ergono maestosi gli ulivi: “Apriti ulia / e scundi Maria”, implora la Vergine . Da allora l’ulivo – scrive Coluccia – ha scavato il tronco quasi a testimoniare l’aiuto decisivo per la Salvezza del Bambino

4.Ma com’era il Natale nel Salento? “Arrivava – dice Ingusci - con la tramontana che spazza le nubi e fa tornare il sereno,dopo le lunghe settimane di piogge che avevano adduggiato il cielo .Si sentiva l’aria di Natale , con gli zampognari che erano scesi dai lontani monti d’Abruzzo,e i presepi che uscivano in piazza sulle bancarelle , croce e delizia di mamme e bambini. Il presepe , il presepe, è un’arte e non solo culto, le nostre popolazioni umili sentono che in esso c’è la elegia della loro povertà , quasi il poema della miseria, ed è l’unico momento nella loro vita in cui non è considerata una nota di degradazione e di maledizione, ma di poesia. Gesù era povero e non si vergognava della sua povertà e i poveri perciò davanti alla capanna del bambinio cantano con rapimento la pastorale e le canzoni di natale”. Ma il popolo ha bisogno di poesia? Certo, dice Simone Weill, il popolo ha bisogno di poesia come di pane, ma non già la poesia racchiusa nelle parole, di quella non sa che farsene. Ha bisogno che sia poesia la sostanza quotidiana della sua stessa vita e una poesia simile può avere una sola sorgente , Cristo. E tutti, dice il novolese Alfredo Mangelli

puireddru o riccu , unestu o malejurnu/ cerca cu scanza lu terrenu male.
Stu giurnu am piettu nuesciu tanti fiuri/ nascennu janchi e puri come nie:
fiuri te pace, amore e auguri/ tanti e forse cchiùi te le tanìe.
Cussì la terra torna Paraisu , /china sulu te angili te diu…
Ma passa òscie e ‘ncigna poi te nueu .Stu Munnu cu cammina capisutta :
ognunu torna bb’essa nu giudéu /cu ll’eguismu sou ca ccite e sprutta…
Perciò Mamminu miu, nasci ogne giurnu! /Nasci!...St’Umanità ne hae bisuègnu.

5.Lo ricorda , il Natale di tant’anni fa , il sannicolese Marcello Musca , quando “al ritorno dalla chiesa la taula era apparecchiata. E insieme a tutta la famiglia era seduto un povero, - ma un povero vero , uno di quelli che giravano chiedendo l’elemosina per sopravvivere – che era stato invitato per far godere anche lui il vero spirito natalizio, la carità cristiana , fargli dimenticare per un poco i diversi aggi pace con cui gli si negava un tozzo di pane, magari ammuffito, e gli si chiudeva la porta in faccia negli altri giorni dell’anno. Si mangiavano le sagne o li maccarruni e mescolate tra essi le ricchiteddhe preparate con gli avanzi della pasta e scovate dai figli più piccoli tra l’euforia generale e le sgridate paterne . Accompagnavano la pasta le polpette soffritte ed i panzarotti di patate.Nel pomeriggio avveniva la visita in casa di parenti e amici , per lo scambio degli auguri. Ci si rimaneva fino a sera inoltrata per le grandi tombolate tra un bicchierino di rosolio e l’assaggio dei dolci natalizi I piccoli erano invitati ad esibirsi con la ripetizione della lettura della letterina messa sotto il piatto del babbo e la recita della poesia del bambinello.

6.Quello era Natale!, dice la poetessa di Minervino Antonietta De Masi Calamo:

Quiddhu era Natale/quando la campana/ te matinu/ulàa subbia dhe case/
Core a ccore, / a descetàa le speranze/per nn’autra sciurnata/te fatia e de dolore/
Quiddhu era Natale, quando cu nna tàula te liettu, /na francata te paia de saccone/, qualche pupu te gessu spezzutatu / faciamu lu presepiu/ e la fame era sulu/ recordu Te lu ieri


7.Quando tutto sembra affondare nell’imbuto più buio – guerra , terrorismo, disoccupazione, tasse, rincari e preoccupazioni varie - , quando sembra di dover finire in uno di quei buchi neri dal mostruoso risucchio , ecco il buco bianco del Natale , il Natale di “sempre” , che è in tutti i tempi e in tutti i luoghi del mondo, Natale con le antiche gerarchie e gli antichi poteri fondati sul sentimento. E torna re il nonno, il vecchio acrobata della fantasia, il custode della Memoria, che farà stanotte un lunghissimo salto nel passato- Nonno, ma tu c’eri quando Gesù è nato a Betlemme? E il nonno , certo che c’era, parlerà dei quattro (?) re magi

‘Ncete puru quattro Maggi,/can ci brillane ppe l’oru:
lu Re Tromba e lu re Bbecchiu/ ‘u Re carusu e lu re moru
De natale stu brasepiu / L’aggiu tuttu ‘lluminare
Ste lucerne e ste candele/ S’hane tutte de ddumare

8. “Finchè l’umanità sapra conserverare questo poco di tenerezza , - scrive Coluccia - finchè saprà commuoversi per queste piccole cose, io credo che abbia ancora la possibilità di superare il grande travaglio in cui vive Per un anno che muore , - conclude Luigi Santucci - ecco un Dio che nasce, un Dio d’umanità , ma anche d’Eternità, per il quale “vale la pena di richiudere l’armadio , vale la pena di “ rimuovere”. E di continuare ad aspettarlo”

Pino Della Rocca borghese gentiluomo



1. “ Il mio sogno nel cassetto è quello di avere sempre un sogno nel cassetto” . Parole e…voce ( arrochita dalle quaranta sigarette giornaliere) di Pino Della Rocca, uno dei punti di riferimento del teatro gallipolino , per talento e serietà d’intenti, per semplicità, umiltà e …tanta fatica . Pino lo ricordo vent’anni fa , al debutto , presso la sala ottagonale del Castello Angioino , con la regia di Francesco Piccolo, in un mio lavoro teatrale ( il primo) , “ Il caso Gesù” , in cui , se non ricordo male, era un Caifa sopra le righe , un ruolo non facile. E poi , subito dopo , con “L’Orso” di Cechov e in un altro mio lavoro , “I Naufraghi”, due atti unici che furono portati lungo la costa salentina , dalle “Quattro Colonne”, a “Torre Pizzo”, a Leuca , per tornare alla “Vecchia Torre Sabea” , con il concessionario lombardo e i suoi ospiti “chic” che invertivano i lavori , per cui l’Orso , uno dei celebri “scherzi” cechoviani era il mio ( troppa grazia!) e il drammatico/ surreale “I naufraghi” del grande drammaturgo russo. E poi ancora altri miei testi , “Frate Francesco” , al Teatro Italia , “Ipotesi Cancro “, unitamente al pirandelliano “L’uomo dal fiore in bocca” , al glorioso “Teatro Schipa” . Sempre bravo, Pino, fin dal debutto, con una voce di grande qualità e un talento naturale per la recitazione , una buona impostazione di palcoscenico , il tutto unito ad una straordinaria umiltà , spirito di sacrificio e determinazione, voglia di imparare e migliorare, volta dopo volta, farsi una cultura sul campo, con lo scorrere degli anni , le virtù e gli affanni , le amarezze , l’insofferenza, la rivolta , la fede, la speranza, l’illusione , la fuga , una teoria di visioni e di appuntamenti mancati , progetti e fatiche andati in malora , le insidie , il veleno , le ferite , il pianto, ma poi torna il sorriso , il fascino e il mistero e la grande risata dell’attore moleriano che con la sua forza comica rifà la storia del mondo. Mentre lui continuava a fare tanto, tantissimo “Pirandello”, nel Salento, ma anche altrove , in Sicilia e all’estero , al seguito del suo maestro e mentore, mietendo successi in tutti i teatri , io facevo tutt’altre cose e , come capita , ci siamo persi di vista, per un bel po’. Finchè, rieccoci qui, quasi vent’anni dopo ( come i Moschettieri di Dumas) con il “Borghese Gentiluomo” , nello stesso rinnovato teatro Schipa , lui capocomico , come si diceva una volta , fondatore , direttore , amministratore , regista e prim’attore della compagnia “TaliAnxa” , ed io spettatore privilegiato di quarta fila (la migliore) , ad ammirarlo nelle vesti di Monsieur Jourdain , con una gestualità che rievoca a tratti il grande inimitabile Molière , a cui l’unisce il “vizio pazzesco del teatro”. A dirla proprio tutta , Molière , al secolo Jean Baptiste Poquelin , autore , attore , capocomico , amministratore, figlio di un tappezziere di corte , “era” il teatro . E perciò non poteva che morire sulla scena.


2.La sua risata , che, da sola, lo fece grande attore , negli ultimi spettacoli , gli veniva su dal petto e si nutriva di tosse e sbocchi di sangue. Per Pino , anche lui di modesta famiglia gallipolina, il teatro significa molto, ma non è certamente tutto.
Molièere scrisse il “Borghese” per Re Sole , il mitico Luigi XIV, che voleva l’esaltazione della luce, della musica e della danza , con sontuosi balletti che glorificavano lo splendore della luce, costumi d’argento, di velluto, di raso, carichi di ricami, di ornamenti, di pietre preziose dai colori accesi con alti turbanti ornati di pennacchi e di fiori, e la satira di costume – che non è mai solo divertessiment – per la scena finale, la più pittoresca , quella della beffa del Gran Turco, si ispirò ad un fatto realmente accaduto nl 1669 . Un inviato della Sublime Porta di Costantinopoli si presentò alla Corte di Francia, latore di un messaggio del Sultano dei Turchi per il Re dei Francesi. Dal pittoresco incontro tra i due mondi - che fecero a gara nell’esibirsi in tutto il loro sfarzo - non nacque niente di buono sul piano politico, perché l’ambasciatore turco pretendeva che Luigi XIV si alzasse in piedi per ricevere la lettera del Sultano, e Luigi XIV - naturalmente! - si rifiutò di farlo. Nacque invece - su un altro piano - «Il borghese gentiluomo» di Molière, perché la curiosità creata dalla folcloristica visita spinse il Re Sole a desiderare una «turcheria», ovvero uno spettacolo con costumi, danze, cerimonie di sapore moresco, spettacolo che fu appunto questa commedia balletto di Molière, con musiche di Lulli, coreografie di Beauchamp, costumi di D’Arvieux, rappresentato per la prima volta al Castello di Chambord, davanti al Re e alla sua Corte. «Il borghese gentiluomo» è il solo grande capolavoro tra le tante opere che Molière scrisse per compiacere il suo sovrano; al di là di una cornice convenzionale, di situazioni e fatti presi dalla più solida tradizione teatrale, il «Borghese» vive della più pura comicità molieriana, e il suo protagonista - l’ineffabile e ingenuo Monsieur Jourdain - entra a pieno diritto nella galleria dei personaggi più popolari del teatro di tutti i tempi. E tuttavia io penso che la vanità , lo snobismo, la goffaggine di Jourdain sia anche un modo di reagire ai preconcetti e alle angustie sociali del tempo, ma anche del nostro tempo in cui crediamo ancora – nonostante siano stati aboliti dalla Costituzione – ai titoli nobiliari , e le cronache dei settimanali di costume traboccano di principi, conti , baroni e duchi: crediamo ancora ( forse) – come Jourdain – che i nomi e le cose coincidano perfettamente , simmetricamente , per cui il principe Emanuele Filiberto è il principe e la contessa De Black è la contessa a dispetto delle loro insulsaggini. Ci sono ancora tra noi tanti Monsieur Jourdain credono che i titoli nobiliari siano contrassegno letterale di altrettanti valori , che invece non appartengono a una classe sociale ma alla vita di tutti; la generosità, il coraggio, la destrezza, il vino, le donne, la musica, la bellezza, la gioia di vivere e di sapere, il piacere indeteriorabile dello spirito. Ma Monsieur Jourdain , a ben vedere , soprattutto crede nei sogni , e qui c’è ’identificazione con Pino Della Rocca. Il pubblico ha simpatia per questo Jourdain - Della Rocca , che viene truffato , raggirato , sfruttato e messo alla berlina , che si dimostra goffo, ignorante, babbeo, un gonzo che dilapida le sue sostanze per l’ubbìa di diventare nobile . Il pubblico rivede in lui una sorta di eroe romantico, le cui grandezze superano di gran lunga le sue meschinità, e si erge su tutta la masnada di sfruttatori che gli vendono a caro prezzo i frutti della loro arte, assecondando i suoi capricci ignoranti come quei cattivi educatori che dispensano diplomi d’idoneità dietro lauto compenso. La sete di valori è il valore di Jourdain, e nel momento storico che attraversiamo, in cui i sogni sono per lo più intrisi di materia e gli orizzonti sin troppo tangibili e bui, lui ci ricorda una possibilità: quella che il denaro sia solo un mezzo e non il fine. Col suo ostinato recitare la parte fino in fondo ci rivela quanto basso possa essere il mondo dei furbi e ci insegna a difendere i nostri desideri aldilà di qualsiasi delusione. È così che la satira acuta, in cui ogni borghese dell’epoca credeva di vedere ritratto il suo vicino, assume i colori di una fiaba leggiadra e metaforica, ed il riso per i perfetti meccanismi comici messi in atto, si trasforma in nostalgia per qualcosa che Jourdain porta via con sé; non si ride più di lui, ma grazie a lui. Alla celebre battuta di Jourdain “Questa poi. Sono passati più di quarant’anni da che faccio della prosa e non ne so niente! Vi sono veramente grato di avermi aperto gli occhi.”, Pino sembra voler dire : sono più di vent’anni che faccio Teatro , caro pubblico di Gallipoli e solo oggi mi avete scoperto? Comunque ve ne sono grato: meglio tardi che mai.

3.Le cose gli riescono meno nella “turcheria” finale in cui l’aspirante nobile viene gabbato, dove diventa un Totò le Mokò barocco tra danze del ventre e citazioni di fantasismo , però al riguardo c’è da dire che se a suo tempo la danza e il balletto costituivano grandiosi elementi di scena , oggi acquistano senso solo se si collegano strettamente all’azione, se si usano come codici diversi per operare con il protagonista il salto desiderato, dalla “prosa” alla “poesia” e ciò ha tentato di fare con i mezzi che aveva a disposizione Pino Della Rocca, facendo delle odalische una sorta di transessuali o travestiti da infimo bordello.Detto che la scenografia è concepita secondo uno schema semplice, geometrico, lineare che permette a tutti gli attori le vie di fuga e le entrate , che i costumi , realizzati dalla moglie di Pino ( Susanna d’Amato che è anche colei che ha fatto la riduzione del testo molieriano ) sono fatti con scrupolo storico e ambientalistico, il trucco è plausibile, che il testo è stato efficacemente ridotto all’essenziale , con qualche arbitrio reso necessario dalla dimensione della compagnia ( ad esempio l’organizzatore dello scherzo turco non è il servo di Cleonte , Coviello, ma la servetta di Jourdain, Nicolette ) , tutti i giovani attori della compagnia , malgrado recitino un repertorio classico, sono d’una freschezza e d’una disinvoltura davvero rimarchevole. Su tutti , Francesco Cortese, nella doppia parte del maestro di danza “tedesco” e del baroccheggiante spasimante Cleonte.

Un Orlando furioso salentino



1. “L’Orlando Furioso “ di Ludovico Ariosto , rivisitato ( e rifatto) da quel fine elegante umanista , critico e saggista , che è il prof. Luigi Scorrano, e adattato per la scena dal cast della “ Calandra” , benemerita compagnia teatrale di Tuglie, alle pendici del Monte Grappa , classica “serra” del basso Salento , insomma un Orlando Furioso…salentino.
Cominciamo dalla fine . Il pubblico se ne va soddisfatto e divertito , e lo dimostra, anche , con un lungo applauso che non è solo di cortesia, un applauso che accomuna tutti , attori, scenografo , elettricista , costumista , e , naturalmente , regista e autore ; il pubblico è grato di aver assistito ad uno spettacolo che si rifà al teatro popolare antico, ma anche al varietà; gli attori ringraziano con inchini salamelecchi e battimani , maschere spade e pennacchi , dal loro carro di Tespi , ma potrebbe essere anche il “Bagaglino”, tanto sono intercambiabili ; mimi, istrioni, saltimbanchi , maschere , che salutano dal carrozzone della Commedia dell’Arte , ma anche marionette del teatro dei pupi siciliani , o del teatrino televisivo di “Avanzi”, un pastiche , insomma , in cui non mancano i riferimenti “culti” , le macchiette , i toni farseschi o grotteschi e qualche gratuità, ma senza mai valicare il buon gusto , senza mai scivolare nella volgarità. Del resto, come direbbe Garboli, ognuno ha i suoi classici, le proprie esagerazioni, il proprio solco predestinato, al di là delle paratie dello stabile , delle regole scritte e non del teatro e di quelle della letteratura, ognuno fa il teatro che sa ( e puo’ ) fare, oltre il limite dei tempi , nelle regioni più segrete della fantasia e del paesaggio che sta dentro di noi , di quel fiume segreto che scorre, incessantemente , e si arresta o si ingrossa a secondo delle più pure casualità, incontri , occasioni fortuite , alleanze improbabili da cui il teatro trae continua linfa e alimento. Qui più che Ariosto sembrerebbe Moliére, con la rappresentazione di una società in cui tutto è malato , folle , ed essere savi è un assurdo. Infatti lo stesso Orlando non desidera rinsavire e rimane “furioso”, cioè privo di senno.

2.Ma facciamo un passo indietro e torniamo all’inizio, a luci in sala , sipario chiuso. Ero vicino a Luigi Scorrano , e gli dicevo sono proprio curioso di vedere come hai fatto a far diventare un testo teatrale plausibile un poema di quarantasei canti e 4842 ottave (d’oro ) , per non parlare dei quattrocento et ultra personaggi che vi compaiono. Io sono rimasto all’Orlando di Ronconi, alla giostrina coi “cavalieri ,l’arme e gli amori” , ma so che hanno fatto l’Orlando nelle carceri di Volterra e forse anche Eugenio Barba , in piazza tentò qualcosa di simile, coi suoi cento attori di cento paesi…. Lui mi sorrideva con serafica ironia : non è mica vero che io sia il solo autore , loro – e mi indicava dietro le quinte dove erano in tensione gli attori e il regista - sono coautori . Ed ecco che si accendono le luci ed è subito zuffa tra Orlando e Rinaldo, che si disputano l’amore di Angelica . Tutto è sfacciatamente farsesco e ad un certo punto i due contendenti si mettono a giocare a morra. Tutto è sgangherato, le spade sono di legno , le corazze di cartone , i cavalli manici di scopa …e via di seguito. Siamo nel teatro di teatro , in cui una compagnia di guitti rappresenta la storia di Orlando e dei paladini di Carlo Magno… Ma intanto ecco che entra un’ indolente e annoiata Angelica, - affidata ad un vecchio duca e promessa da re Carlo a chi dei due rivali si mostrerà più prode nella difesa di Parigi ,- che scappa , si dà alla fuga e non farà altro che scappare , trovando alla fine – lontano da quel “rimbambito” di Carlo Magno e dai suoi paladini fin troppo rispettosi - l’amore nell’umile fante saraceno Medoro, da lei raccolto ferito e morente e salvato dalle sue affettuose cure. Quando Orlando lo saprà, dal pastore che accolse i due innamorati , impazzirà di dolore e furente e selvaggio porterà terrori e lutti per la Francia , Spagna e Africa , fino a che Astolfo, altro paladino di Carlo, non gli riporterà , dalla luna, il senno racchiuso in una fiala. Questa , per sommi capi, la storia che propone il “poeta dell’armonia” , che rifiuta i toni estremi o che non li prolunga oltre certi limiti, il poeta del “misurato sorriso”, ed è in fondo la stessa storia che viene riproposta , in maniera però spesso risibile e con un finale …infedele . Per darvi un’idea dello spettacolo teatrale , figuratevi una specie di taverna-stalla - magazzino dell’usato , con una lanterna magica che proietta immagini talora animate e distorta. E su questo palcoscenico quattro attori , di cui uno è scenografo e fa il caratterista , si moltiplicano per dieci , o per venti , sempre a forza di magie e…fantasie. Ma il teatro, si sa, è tutta una magia. Ed ecco un Federico Della Ducata (molto maturato) che fa un Rinaldo pimpante e fortemente autoironico , e poi la marionetta del fante Medoro, ma anche il pastore ciociaro ( facendo il verso al primo Manfredi) che narra del suo amore per la bella Angelica ad un esterrefatto Orlando ; e poi ancora un Astolfo bolognese che atterra sulla luna con tuta spaziale alla ricerca di bottiglie d’acqua minerale, un moviolista delle tenzoni medievali , e il “fine dicitore” colla voce nasale , alla Gassman, delle ottave d’oro, ma fa il verso anche a sé stesso , Della Ducata, dimostrando grande duttilità e una buona dose istrionica , grazie alla quale riesce a creare un feeling con il pubblico , momenti di complicita’ che sono poi, come dicevamo , la magia e il segreto del teatro.

3.E poi c’è Antonio Calo’ , un attore per vocazione (e dannazione) , per il quale il teatro è la vera vita , mentre il resto è prigionia e catene. Per lui recitare non è solo recitare , ma è liberarsi dalle catene, uscire di prigione , è essere altri , lasciarsi invadere , indemoniare, possedere da una realtà “autre” , imprevedibile e irrazionale. Ma recitare è anche guardare in sé stessi mentre si finge un altro per scaricare nello spettatore le proprie tensioni, gli umori atrabiliari e le ossessioni della vita e della società di un Argan ,o la gelosia ossessiva e il senso del proprio ridicolo in un Orgone , come ha dichiarato Gabriele Lavia; e tutto ciò è curiosamente (quando si entra in Moliere non è mai senza conseguenze) proiettato nell’Orlando di Calo’ , che non ha la duttilità, né l’agilità di Della Ducata , ma una propria maschera grottesca , vizio e insieme sofferenza teatrale che si porta dentro di se ed esprime al meglio in quella terra di nessuno che è l’intervallo tra il personaggio e l’attore ,la pausa in cui si guarda se stessi recitare in quel luogo di fantasmi , in quel luogo artificiale , assolutamente falso , e pur l’unico vero e reale in cui si consuma la recita. Antonio è passionale , impetuoso , entusiasta , ingenuo , furente , infantile ,esibizionista e spavaldo , sempre uguale a se stesso ,ma fermo , tetragono , indefettibile , eroico , nel suo ruolo di” una vita da mediano”.

4.Manuela Marrella è un’Angelica sopra le righe , ovviamente , che recita in falsetto ma con levità , talora farfalla colorata che si muove deliziosamente e traccia le sue perfette traiettorie geometriche per il suo disegno finale , ma più spesso si fa ape che punge con l’allusione , il motto e il pettegolezzo , che è un’arte sottile che s’avvicina molto alla verità ( i pettegolezzi dicono sempre la verità sulle cose che accadono, ma le cose non accadono mai come i pettegolezzi ce le raccontano) , una Mirandolina travestita da Angelica la Bella , che si comporta da donna – ossia da attrice più attrice delle attrici – con tutti i suoi trucchi , malie e sortilegi , ottenendo sempre quel che vuole ( non Orlando , né Rinaldo – sedotti e abbandonati – ma l’amore che è incarnato dall’umile , ma bellissimo Medoro ) Ovviamente la Marrella ci mette – come accennavo – una larga dose di autoironica classica e leggerezza facendo il verso anche a sé stessa attrice .

5.Insomma, teatro allo stato puro ,in cui forse Ariosto c’entra poco o nulla , ma tradire i classici è da sempre – scrive Garboli –un’opera altamente meritoria e raccomandabile , purchè lo si faccia con coraggio creativo . E a me sembra che Luigi Scorrano , il regista , lo scenografo e gli attori lo abbiano realizzato in modo egregio , coll’idea del carrozzone dei guitti che si ferma su un’ideale pubblica piazza a raccontare le imprese e gli amori e le follie di Orlando, per come loro stessi potevano interpretare e concepire. Non è venuto sicuramente meno lo spazio per la creatività e la fantasia, anche se gli automatismi non erano sempre perfetti . Siamo nel teatro povero ( aiutatevi con la fantasia, dirà un attore al pubblico) , che sembra farsi da solo , con l’aiuto e la collaborazione degli stessi spettatori , siamo nel teatro in cui tutto e’ uguale e tutto e’ diverso , in cui si assiste ad una specie di progressivo sventramento del testo classico , che si fa f arsa di qua’ e denuncia di là.

6.Dall’inizio un po’ freddino e sincopato al parapiglia finale , quello che si apprezza non è la finzione , ma il gesto; non la trovata scenica (la nudita’ teatrale non so quanto sia voluta ) , ma il gioco; non tanto il ricordo della commedia dell’arte , quanto una rinascita del teatro farsesco classico, in lingua italiana (merce rara) , che si guarda allo specchio e ride di sé stesso; non la metafora dell’ossessione della gelosia , dell’amore tradito , della pazzia, come da copione , ma le perfette simmetrie involontarie ,le situazioni risucchiate dal ritmo ,il recupero di acrobazie da commedia dell’arte , le leggi esatte di una terra di nessuno che vengono fabbricate sul momento ,non l’ apparizioni di personaggi convenzionali o di dialoghi che pur conservano il tessuto , il sostrato letterario , ma il meccanismo sperimentato che si articola docile come un mosaico ad incastro con tempi buoni e talora ottimi.
Insomma , l’intento e’ quello di far cultura e insieme divertire , cose non facili , un varietà che si nutre di diversi registri , un impianto che cerca la perfezione del ritmo , la distribuzione dei contrattempi, il funambolico automatismo che si sostiene alla trama , che sorregge gli equilibrismi sottilissimi della fragile messinscena in cui basta un nulla e tutto fa flop , nel susseguirsi di situazione comiche e grottesche , da teatro flipper

7.Tutto ciò è frutto della regia di Giuseppe Miggiano , in cui vi sono le caratteristiche peculiari della sua personalità artistica : senso spiccato della creatività , magìa, geometria , ordine e insieme trasgressione , debolezza , ma anche dolcezza , autoironia, ma anche amara denuncia di quanto si vada perdendo nel tempo nostro dei Bush e dei Saddam , dei genocidi e dei milioni di bambini che muoiono di fame ; e di tutto ciò che attraverso il teatro si vorrebbe recuperare, con gioia , con spirito leggero , in un trionfo scintillante e scoppiettanti di luci , scherzi e risate , da tenersi per mano , tutti insieme , attori e spettatori , per celebrare la bellezza dell’arte , che è fantasia, magia , poesia

mercoledì 3 dicembre 2008

Aldino De Vittorio ultimo artista di Gallipoli


1. Sono quasi due anni che è morto Aldino De Vittorio, scultore, pittore, poeta, maestro della cartapesta e del restauro, incisore; artista poliedrico , autentico, intenso e raro , tra i maggiori di Gallipoli , anzi forse l’ultimo vero artista di quella cellula di miele , di muffa e salnitro dalla fragili architetture ch’era un tempo Gallipoli, città sognata e mai veramente esistita .Si è spento il 24 febbraio 2007 , il mese del libeccio sanguinario, il mese in cui compiva l’ottantatreesimo compleanno, quel febbraio che un tempo strappava vite di pescatori , e foglie dagli alberi, foglie recise , sferzate prostrate, urlanti , e che ora s’è fatto mite e si distende come un carezza di luce sulle povere foglie dei lecci impolverati.. E Aldino, tale era divenuto , un vecchio leccio immobile con le sue radici nell’ombra, nell’oscurità , dentro una memoria lontanissima , e dentro la fatica di un dio che va consumandosi , disfacendosi, sfinito dalla creazione ; era una povera foglia malinconica, triste, abbandonata, che soffriva terribilmente la solitudine. L’ultima volta che l’ho visto ( maggio scorso) era ormai ridotto ad un naso triste e una faccia abbandonata sui vetri , che non guardava più da nessuna parte , una faccia un po’ rigirata da una parte , come di chi non ce la fa più a combattere , una faccia che non avrebbe mai più sorriso , la faccia di chi è rassegnato alla volontà della morte, quando vivere diventa fatica , pena e dolore insopportabile. “Fra una sistole e una diastole del cuore /c’è un momento in cui siamo della morte,/ ma è troppo breve perché lo percepiamo”.

2.In trent’anni di conoscenza , abbiamo trascorso diversi momenti magici insieme , ma ormai erano anni che praticamente non usciva più di casa ( arrivare – accompagnato dalla badante - all’edicola per l’ultimo numero di Espresso Sud , era un’impresa che richiedeva una mezza mattinata) . Era difficile aiutarlo. Del resto noi tutti generalmente “siamo pronti ad aiutare, purchè la cosa non duri molto”. E allora ci sentivamo per telefono. A dire il vero era lui che mi telefonava spesso (almeno due volte la settimana), e rievocava – sempre – quel passato dal fondo luminoso. Si emozionava , si commuoveva facilmente. Aveva facilmente il pianto in gola . “Ah, che gioia sentire la tua voce!, ma vorrei vederti ancora”. Era ancora lucidissimo. S’interrogava , credeva ancora , con tutte le sue deboli forze rimastegli , nella poesia come valore ultimo , come a ciò che dà sostanza all’esperienza ,e quindi al mondo . Gli dissi, mentendo, che sarei stato a Gallipoli per la prossima primavera. E che , forse, l’avrei portato di nuovo sui bastioni di Gallipoli, come facevo un tempo, quando poteva ancora muovere le sue povere martoriate gambe , gonfiate dall’idropisia. “ Ma per la primavera non ci sarò più, “rispose. E’ stato di parola.

3. Ma Aldino come artista era morto ormai da anni , non produceva più nulla, né quadri , né sculture , e neppure versi. Non ci riusciva più. La sua fonte d’ispirazione s’era esaurita. Era come paralizzato. Anche le sue abili mani d’artigiano avevano disimparato, quelle mani forti, nodose, magre, affettuose, che carezzavano l’argilla e il legno di ulivo , plasmavano con fantasia , sentimento, ragione e piacere, quelle mani che creavano forme nuove di vita affettuosa, erano senza memoria. Aldino aveva cominciato a decadere dopo la morte della moglie, la sua Assuntina , quel giorno gli si era conficcato in gola e nell’anima un pianto disperato e definitivo. La scomparsa della compagna della sua vita , la dolce , la mite , la buona Assuntina, gli aveva essiccato ogni forma di creatività, gli aveva bloccato, ghiacciato l’anima. La sua vera musa era stata lei, custode gelosa d’ogni trasalimento riservata, intima , pudica, vissuta costantemente nella penombra . Era stata lei l’espressione dell’arte di vivere , l’ insegnamento vivo , la sinfonia tenera e malinconica che dentro di lui ora risuonava come un’ eco di tutti i vuoti e i dolori del mondo...L’inoperosità gli aveva fatto perdere memoria di sé stesso, la propria identità , la propria anima( un artista si conosce solo nella sua opera , e solo quando l’ha davanti e vi si specchia. Lì è la sua vera persona , la sua anima. E da lì può partire per capirsi di più). Ma un’artista è anche un uomo e non fa sempre quel che vuole, ma solo quel che può. E lui non poteva fare altro che chiamare dal suo mare d’ombra il suo passato lontanissimo , quando era ancora giovane con lampi neri sotto le ciglie nerissime , nel silenzio della campagna aletina ( città della moglie) e nel muto stupire delle cose.Entro la chiarità lieta del pieno giorno , o le luci rosa del mattino , cercava la compagna della sua vita , quando c’era tanta miseria e tanta speranza , e quel senso di cielo e di libertà, di mattine vive alle darsene lungo i cantieri delle Fontanelle. E quella promessa , a sera , di un mare d’argento e di una vita serena e felice. Come in un caleidoscopio rivedo l’acquarulu che attingeva alla fontana greca, lu critì che gridava bandi e ordinanze nelle vie e nelle corti della città storica, e poi le focareddhe te Sant’Antoni , lu titoru, la caremma , lu maccaturu allu sole , la prucissione te l’urnia, lu monaceddhu , la festa te san Frangiscu te Paula , li cambarini, la cuccagna a mare , la festa te Santa Cristina , lu Mmalatrone , la viscilia te la Mmaculata, li scapaciari, la santa monaca , la nfilata. Tutta una serie di tradizioni e folklore che fanno la storia e la cultura di un popolo, tradizioni che lui ha conservato intatte e le ha racchiuse in quello scrigno che sono gli acquerelli e le poesie dialettali.

4.Ma sul declino della sua esistenza , Aldino ha scoperto le mancate promesse, le disillusioni, le amarezze , la solitudine senza fondo. Giorno dopo giorno , ha scoperto il male di ridestarsi e conoscere la verità nuda , amara e fredda : in più di ottanta anni vissuti nella sua città natìa , egli non aveva un solo amico a Gallipoli. Ha scoperto il suo pallore di lemure, di uomo ormai alla deriva , lontano da ogni consapevole attendere, e se ne è andato , si è sperso nella luce verde chiara di una marina d’alba, con “nnu sospiru”, una della sue più belle poesie.

5.Io guardo una delle piccole sculture in legno d’olivo , che mi ha voluto donare , dove nel volto di una donna , una sorta di Gioconda contadina del Salento, che sorride in modo misterioso e ineffabile , pur con tutta la fatica dell’operare e del vivere quotidiano da “formica” , che si deve conquistare terreno e spazi per la sopravvivenza. Ecco, mi dico, qui c’è il segreto della sua arte e della sua anima , che è poi l’anima del popolo salentino , che ha profondamente amato, senza essere stato del tutto compreso, come capita spesso agli artisti di tutte le latitudini. “Una tentazione – scrive Giorgio Barba - è l'arte di Aldino De Vittorio e il fascino che da essa promana, un fascino misto di gusto primitivo e popolare, di cristianesimo e di orfismo, di idillico e di tormentoso”.La sua capacità creativa e trasformatrice, a metà tra geometria e natura, tra figura e struttura, rifà il cammino della storia, perché De Vittorio possedeva lo spirito del passato, e dalle sue opere nasce una storia nuova con tracce di arcaico , che rimangono impresse nella pietra e nel legno, in un gioco fantastico ed emozionale. Tanto , tantissimo c’è ancora da dire sulla sua arte, ma ci penseranno altri. A me non rimane che un ultimo saluto all’amico.Ciao, Aldo, e che la terra sia lieve.

Daniele Paladini


1.E morto per difendere un ponte, il “suo” ponte che aveva smontato , aggiustato, ridipinto, rimesso a nuovo, era un mese che ci lavorava a quel vecchio ponte abbandonato dai sovietici , a Paghman, un villaggio dell’Afghanistan , a soli 15 chilometri dalla capitale, Kabul , quel ponte che si doveva inaugurare proprio quel giorno dinanzi alla popolazione e alle autorità locali.
«Non era uno che si tirava indietro» , dirà lo zio Giovanni Stefanizzi, “ e non lo ha fatto neanche vicino a quel maledetto ponte”.
Ma un ponte non è mai maledetto, è qualcosa che unisce, affratella, accomuna, anche quando le sponde opposte da ricongiungere sono infinite e infinitamente lontane. E’ un’opera architettonica dal lungo corpo composito, cemento, legno, metallo, con una sua anima. E questo lui lo sapeva bene , perché su quel ponte c’era la sua anima , il suo “genio” di “pontiere” straordinario, uno che sapeva costruire ponti come archi di pace , ma col rischio costante e consapevole della vita perché da sempre c’è chi i ponti li distrugge , li vuole far crollare , da sempre i pontieri del genio militare muoiono negli incidenti di cantiere perché gli elementi dei ponti sono grossi, pesanti e definitivi, basta un errore o il cedimento di un elemento e si muore. Una vita , la sua , irripetibile , devastata , spenta da un kamikaze, una bomba umana frutto dell’odio , ma anche della miseria . Si è spento così il Maresciallo Capo Daniele Paladini uno che amava con umile grata e diuturna passione la vita che gli era stata data , uno dal sorriso buono , e pieno di meraviglia , un costruttore di ponti , che solo poche ore prima aveva detto alla moglie , alla figlioletta e alla madre , State tranquille , qui è tutto tranquillo, rischiate più voi col traffico sulle strade , e poi ho pochi giorni ancora da restare , per le feste sarò con voi , e faremo meraviglie , perché solo la meraviglia ci potrà salvare . Invece è venuto prima, dentro una bara ricoperta dal tricolore , è morto nella sua stagione più bella, a soli trentacinque anni, questo nostro soldato.

2.Il mondo è pieno di soldati. Ma i soldati veri, quelli sono pochi. E Daniele Paladini era un soldato vero, “un soldato eccezionale”, dice il Colonnello Di Fonzo, comandante del contingente di Kabul . Nel senso buono, positivo del termine, che implica disciplina , lealtà, fierezza, spirito di sacrificio , orgoglio, amor di patria , termine caduto in disuso, anzi quasi sbeffeggiato, ma che in lui aveva ancora un alto significato. Daniele era tutte queste cose , e per capirlo basta guardarlo in faccia , guardate quella sua faccia pulita , intensa , bella , faccia salentina alla Don Tonino Bello , all’ Aldo De Donno, per restare ai nostri tempi , metà santo e metà guerriero, con un sorriso luminoso, un sorriso pieno di meraviglia , un sorriso buono. E poi lo sguardo profondo , che era un incendio azzurro. C’era tutto in quello sguardo , il passato e l’avvenire , il cielo e il mare della sua terra d’origine , Lecce, il Salento. E la storia di quell’antico popolo abitava dentro di lui, i messapi , domatori di cavalli, ma anche quieti pastori, ceramisti, contadini, pescatori , poeti. E guerrieri , anche, ma per necessità, per difendere la propria famiglia, la propria gente, la propria terra. Lui è morto per difendere un ponte, il 24 novembre 2007 , il giorno stesso in cui gli italiani riconsegnavano quel ponte , da lui rimesso a nuovo, alla popolazione martoriata di Kabul.… Era lì in attesa delle autorità, della folla dei civili, degli altri soldati , quando ha notato il terrorista che cominciava ad avvicinarsi lungo il greto del fiume , nascondendosi grazie ad una fila di alberi . “L’obiettivo del terrorista erano proprio i civili , ed i soldati della Nato. Daniele gli è andato incontro , gli ha intimato l’altolà, ma quello non si è fermato , ha fatto un passo ancora e si è fatto saltare in aria» , dice il comandante di Italfor. E insieme a lui altri nove morti civili, tra cui tre bambini e tre soldati feriti italiani. La strage è avvenuta alle 9.52 locali , le ore 6.22 in Italia, quando la moglie, la figlioletta e la madre venivano svegliate di soprassalto.

3.Daniele non era un eroe per caso , come è stato scritto su qualche giornale, e neppure un eroe normale, come dicono le Istituzioni , a partire dal premier e dal Presidente della Repubblica, per il quale sono tutti eroi in nostri soldati in missione di pace. Ma non è così. Daniele era un eroe per vocazione, oserei dire per destino, fatalità, o ancora di più, per un’idea stessa di eroismo che ci formiamo nella mente e che viene da lontano , dall’antica Grecia di Omero insieme alla musica e alla poesia, al canto caldo che fanno i cieli rossi dei tramonti pieni di solitudine e malinconia. Era, insomma, un eroe umile, un eroe salentino, pienamente cosciente di quel che faceva e dei rischi che correva, a cui non poteva e non voleva sottrarsi.
Alla radio, in macchina, quando ho appreso la notizia, che un soldato italiano era morto in Afghanistan nel tentativo di bloccare un kamikaze, il nulla si è fatto angoscia , e il vecchio cuore ha cominciato a battere all’impazzata. Ancora prima di conoscere il nome della vittima , io sapevo che si trattava di un salentino, ma di quelli buoni ( ahimè , purtroppo ce n’è anche di cattivi, altrimenti la regione non sarebbe com’è) , che io conosco e so che sono straordinari, unici, irripetibili, uomini che sanno fare bene le cose che non esistono , ovvero le missioni di pace con tutto lo strascico di imperante retorica. Non esistono, ma sono capaci di inventarle quelle cose , al di là dell’opportunismo politico , o del bieco cinismo affaristico , con la fantasia e soprattutto con la fede, sono uomini capaci di credere in ciò che fanno e lo fanno bene, con passione, con amore , con grande senso del dovere e di umana solidarietà. Era un uomo gentile , con un cuore dolce, che faceva il soldato , uno dei tanti salentini che per affermarsi devono emigrare al nord, Seregno , o Novi Ligure , devono combattere, rischiando la vita dove c’è maggior pericolo , in Kosovo, o in Afghanistan , uomini che muoiono giovani, com’è nel loro destino, lasciando nel lutto una famiglia , una città, una regione, una nazione, l’ umanità stessa , sempre in cerca di nuovi costruttori.

4.Dice il Generale Fabio Mini, ex comandante delle forze Nato in Kosovo, che Daniele Paladini è morto da Eroe perché si è sacrificato coscientemente salvando altre persone e combattendo corpo a corpo con un nemico armato. Per tutto questo l'esercito e l'Italia sono orgogliosi di lui e dei suoi compagni. “Ma Paladini – aggiunge Mini - è morto anche da Soldato Nuovo: da soldato che ha adottato un modus operandi selettivo, che è in grado di osservare l'ambiente, di capire l'avversario e che sceglie coscientemente d'intervenire sul singolo piuttosto che sparare nel mucchio. E per questo la morte di Paladini è ancora più dolorosa e amara. Un Eroe è sempre una persona eccezionale e il vuoto che lascia è incolmabile, ma perdere in Afghanistan un Soldato Nuovo che agisce come un Uomo tra uomini è una vera tragedia. Per tutti.Il Salento vomita morti, diceva Carmelo Bene, e si riferiva non solo ai martiri di Otranto , dimenticati dalla storia dell’Italia ufficiale, ma a tutti quelli che considerava i martiri di oggi, appunto il forte contingente di salentini che s’era arruolato nella polizia, nei carabinieri, nelle forze armate , salentini che ora si ritrovano ovunque , in terra, nel mare e per i cieli, fratelli di sangue , carne da macello, ma anche costruttori di meraviglie e di pace.

5.Il maresciallo Paladini non è la risposta a chi si chiede “ che cosa ci stiamo a fare in Afghanistan?”, come scrive Vittorio E. Parisi sull’ “Avvenire”. No, è morto solo per difendere un ponte; era il suo dovere, la sua vocazione, il suo destino, su quel ponte ha visto per primo, ha intuito per primo ( altrimenti non sarebbe morto) quel che stava accadendo, ed è andato incontro a quell’attimo definitivo, che è di coraggio , di desiderio, di verità, forse di gloria.

lunedì 1 dicembre 2008

Tre donne, tre libri, tre copertine



1.Il titolo di un libro , ma anche la copertina costituiscono un po’ il pass-partout per entrare nella profondità , nell’anima dello stesso. E questo mi sembra il caso di “Ritratti” della tarantina Elisabetta Mori , edizioni Dora, 2004, che ha riprodotto “Le strane maschere”di Ensor ,pittore e un incisore belga che ha fatto del grottesco e della satira i temi della sua arte. La vita è un continuo carnevale drammatico, sembra voler dire Ensor con i suoi ritratti. Sia il titolo che il riferimento a Ensor non è assolutamente a caso. Infatti i versi della Mori hanno qualcosa di molto simile ad una pittura impressionista (“La sera scese nel seno/di una conchiglia dalla brezza stanca”) con espliciti richiami ai classici e ai maudit francesi, in particolare Baudelaire e Rimbaud. (Sorprende il fuoco/con fiamme e sputi) .Tutte le sue poesie hanno un che di chiaroscurale , che filtra con moderazione la luce e talora s’incupisce con immagine dai toni ferrigni, bruni ed ambrati (Vidi le cime scendere dai torrioni/attraversare l’ade) , riproduce con il gioco sapiente dei versi un riverbero simile a quello ottenuto dagli impressionisti francesi negli studi pittorici all'aria aperta. Molte delle sue poesie ,pur nella loro molteplicità e variazioni di schema e modulo , coi diversi timbri e cesure , - forse perché frutto di diverse raccolte messe insieme – affrontano il problema dell'uso della maschera quale metafora dei falsi miti della borghesia (porta il cappello-nonti fidare- Libera libertina liberata .

2. Lo stesso discorso potrebbe valere per Jole Cantobelli Severino , leccese, ma in questo caso la copertina di Schiele ,“Torrente di montagna “sembra essere funzionale al titolo della silloge , Acqua sorgiva, e basta.Infatti , la poesia della Cantobelli non ha nulla da spartire con l’angosciosa tragica malinconica solitudine erotica esistenziale del pittore austriaco. E’ una poesia civile e cristiana , fatta d’ulivi, mandorli e germogli di vento salentino, che si nutre di cenere di stelle ,ossia “di niente” e d’ “immensità”, di paure ,ma anche di lampi voci e sorrisi, di germogli e di corde d’amore, ma anche di tensioni e mute grida di donna e di madre assetata di giustizia e di pace ( altro non c’è da difendere in questo breve nostro stare al mondo se non la pace /il vivere sereno/ e il volersi bene) .Ma la sua sa essere anche una poesia di specchi infranti e di stigmate del cuore, di orrori ( piccoli angeli innocenti cadono spenti per cattiveria umana) e poesia fatta con forbici che ritagliano lacerti di angeli senza più sorrisi ,amarezza e sconforto( sabbia tra le dita precipitano gli anni i mesi i giorni) ma anche melodie e gocce d’acqua sorgiva ( quando fioriscono i mandorli…/quando si scioglie l’incanto notturno / dilaga nel cielo una liquida luce lunare) .
3. In Petali di Gerani della racalina Fernanda Quarta troviamo il potere consolatorio della poesia che è, per creature come lei, ancora isola felice , rifugio, oasi. Fernanda Quarta gioca ,sul filo della propria immaginazione creativa , a fare l’equilibrista senza rete , ripercorrendo itinerari magici , giochi di memoria e di colori fantasmagorici.. Eccola ritrovarsi “/ dentro una fiaba , / dove danzano folletti/ intrecciando siepi di pace…/ Chiamo me stessa / a sostare, ad ascoltare/ violini di poesia, fruscio di silenzi/ che spazzano le mie ansie…raccolgo impronte di ore liete/ e invento un mondo mio” ma c’è pure , inevitabile , il ritorno alla dolorosa realtà con la “ risata di démoni in festa,/ balletti di folli/intenti a ideare nuove distruzioni…/ il pianto dei miseri/ (che) si spande sui nostri rituali/ quotidiani/ annebbia il nostro equilibrio..."
E questo perché l’ arte in genere , e la poesia in particolare, non è senza tempo, non è portatrice di un’istanza sovratemporale , come potrebbe apparire leggendo certi capolavori che non hanno tempo. La poesia è sempre agganciata al reale e il ruolo del poeta è come quello di un sismografo che registra ( con un suo linguaggio fitto di metafore ) le cose che accadono in un momento preciso della storia , un fatto temporale con strumenti impalpabili astratti e adusati quali pensieri , sensazioni, emozioni , sentimenti , nascita amore e morte ; è un divenire , “farsi” , testimoni del proprio passaggio rapido nel mondo , un cercare di afferrare un volo, un grido, il senso della nostra vita , il mistero e il dio invisibile che c’è dietro ; è un “ farsi” e dis-farsi costantemente , in tempo reale , ma allo stesso tempo “ eterno”.

mercoledì 26 novembre 2008

Chopin George Sand e la cioccolata



1. Il poeta tedesco Heinrich Heine , che ormai viveva stabilmente a Parigi “ travestito” da improbabile giornalista , non si perdeva neppure uno dei concerti di Chopin. Anzi, quando il musicista polacco suonava , con quel suo tocco inarrivabile , sfumato e dinamico , totalmente nuovo, intimo , vellutato, squisitamente romantico , Harry andava letteralmente in trance. E si vedeva, tant’è che la marchesa Minchiewicz gli disse sottovoce: “ Chopin è davvero un virtuoso, lo fa cantare il pianoforte. Ci manda in estasi”. "Non è un virtuoso” , - replico con disprezzo Harry - “ è un poeta...ed è per questo che nulla eguaglia il godimento che ci offre quando siede al suo pianoforte e improvvisa , allora egli non è né polacco né francese né tedesco : egli tradisce una nascita ben più illustre , egli proviene della terre di Mozart , di Raffaello , di Goethe : la sua vera patria è il regno incantato della poesia".
"Come la vostra , del resto", - disse con malagrazia , intromettendosi nella conversazione , George Sand , vestita con i soliti stivaloni da amazzone , i calzoni cremisi e il sigaro fra le labbra. " Voi geni della poesia ”, - proseguì col solito tono ironico - “ vi atteggiate a grandi uomini, ma di uomo credo ci sia rimasto ben poco in voi...”, concluse con voluta malizia.
“ Che intendete dire, Signora?”, si rinzelò Heine, che era bellissimo, un vero e proprio efebo dagli occhi di fuoco e dai capelli nerissimi e duri come l’acciaio: “ Voglio dire questo, Signor Heine. Che sono ormai sette anni che, con lui, il poeta della musica, il genio del pianoforte, che fa tutti vibrare , per me non vibra più nulla… E non solo con lui, ahimè,” - sospirò George Sand - “ devo dire la stessa cosa anche di altri grandi pensatori e artisti che frequento assiduamente in tutti i salotti di Parigi ... Io praticamente , da sette anni, vivo come una vergine”.

2.“Voi come una vergine ?”, disse meravigliato Enrico. ” Francamente sono sorpreso, Aurore… Ma voi state scherzando, vero?”
“Nient’affatto…Guardatemi, Enrico!…Sono invecchiata anzitempo e anche senza sforzo e sacrificio , a dirvi la verità, tanto ero stanca delle passioni e disillusa , e senza rimedio... So che molti di voi mi accusano: alcuni di averlo distrutto, il vostro grande , divino Chopin ....Ma sentite , sentite come suona!, da semidio, come si fa a dire che io l'ho distrutto?....E altri mi accusano di averlo portato alla disperazione con le mie sfuriate di gelosia.... A voi sembro una donna gelosa?…”, disse George Sand guardandolo in un certo modo.
“Beh…direi di no.”, disse Enrico.
“In realtà è vero che sono gelosa…sono una donna passionale…. E’ vero che l’ho portato alla disperazione….ma questo stato , come potete vedere , questo giova alla sua arte, più è disperato e più Federico compone e suona da dio....”
“ Sì, suona proprio da dio. Egli è un talento mostruoso , proprio perché è tutto intento a coltivare la disperazione e la passione per voi”, disse Enrico e la guardò con intenzione. Ma lei rideva sardonicamente. “…E tuttavia “ , - continuò - “ non perde mai di vista la calma e la misura , senza cui non esiste un vero sentimento musicale…Federico è il re della poesia musicale e sentimentale… Guardatelo, egli non suona, egli canta, dipinge , danza, fa voli….”, disse con grande partecipazione Heine , mentre lei gli sbuffava boccate di fumo e saliva. . “ Signora, io vi dico questo e lo sottoscrivo : Thalberg è grande, Liszt è Unico, ma Chopin rimane per me il solo uomo che metterei al di sopra di tutti…”
“ Sarà come voi dite , del resto non discuto la sua grandezza di artista, è sotto gli occhi di tutti…ma è sull’uomo che ho da ridire , ma forse è meglio tacere…”
“ Signora , non permetto a nessuno di offendere il mio amico Federico, neanche a voi...” disse indignato Heine.

3.Intanto Chopin continuava a suonare , ora rarefatto e struggente nella “ Berceuse” trattenuta in una culla di dolcezza , tal altro come smaterializzato nei “Notturni”, o visionario nelle “Polacche” staccate con forza ardimentosa, laminato negli “ Studi”, frugati velocemente negli interstizi tecnici e subito rilanciati su dinamiche davvero immaginose nel ricco ventaglio di sfumature , con un timbro che era costantemente nuovo , fantasioso , una autentica invenzione o rivelazione del momento , un veicolo emotivo pieno di voli di fiumi e di colori…Ma alla fine anche il timido Federico non ne potè più e smise di suonare. Si alzò dallo sgabello, alto, magrissimo , pallidissimo in viso come la morte, si avvicinò a George Sand e a bassa voce gridò: “ Aurora, ora basta, vi proibisco di torturarmi così…Voi non siete gentile…Voi…mi avete rotto i corbelli!"

E se ne andò dalla sala di corsa , furente , lasciando tutti costernati.
Allora George Sand gettò il sigaro in terra , guardò Heine , che aveva udito tutto e gli disse incollerita , ma a viso asciutto: " Lo avete sentito?.. Lo vedete...lo vedete, come si comporta ?… come un bambino….Lui si lamenta con me del fatto che io lo avrei ucciso con la privazione, mentre io avrei voluto ucciderlo agendo diversamente....”. Aveva gli occhi nerissimi e fiammeggianti, l’amazzone Aurora , il volto pallidissimo e il labbro inferiore carnoso e tremante d’ira ...
" Aurora , voi mi fate impazzire “ - gli sussurrò appena Heine – siete una vera puttana!"

4.E da quel momento George Sand passò dal suo letto vuoto a quello di Heine, che intanto si era lasciato con la sua Matilde , che si era fatta troppo insistente sul tema del matrimonio. Per Geroge Sand era un’altra preda da collezione dopo i tempestosi amori con Mérimée , Musset, Lizst , Mickiewicz, il tenore Nourrit che , da lei lasciato , si era suicidato a Napoli. E poi c’erano nel salotto parigino in lista d’attesa il vecchio Lamartine e via via Michelet , Saint Beuve , Leroux, Sue, Delacroix …
Chopin l’aveva conosciuto una sera in cui si era vestita con i colori della Polonia ( era solo una coincidenza folkloristica ?) e non l’aveva certamente conquistato subito. Anzi, il giovanissimo Federico era un timido moralista e guardava con sospetto a quella donna-maschio che dava del tu agli uomini, sbandierando le sue idee socialiste; che fumava ostentatamente il sigaro in pubblico, raccontando dei suoi amanti illustri . “ Folle di uomini maleducati l’adorano in ginocchio, tra sbuffi di tabacco e getti di saliva!” , annotò con disgusto sul suo diario la poetessa Elizabeth Barrett Browning.
Ma Chopin , - con lei tutta imbevuta della causa polacca ; con lei che vanta lontane parentele con i re di Polonia ; con lei che si appoggia al pianoforte in un certo modo e lo inonda con i suoi sguardi brucianti , - al terzo incontro è già preso dai suoi lacci , è divenuto sua preda.

5.“ Mi guardava profondamente negli occhi “, dirà. “ Era musica un po’ triste in cui c’erano tutte le leggende del Danubio. Il mio cuore danzava con lei, il mio cuore era al mio paese”.
Certo, c’è anche la componente patriottico-sentimentale , ma ormai Federico è nella tela di ragno. Balzac , il confidente della Sand , che dava molto ai nervi a Chopin, dirà che Aurore scrisse a Federico una lettera di cinquemila parole ed esercitò tutte le seduzioni possibili per farlo finalmente suo.
E furono oltre dieci anni di convivenza burrascosa e intensa ( lui era un ragazzo di ventisei anni , ma viveva da vecchio, era sempre vissuto da vecchio , lei aveva superato i trentadue , ma era piena di energia e vitalità e focosa come una “pasionaria” ) , ma tutto sommato quel “ menage” complesso e tormentato , da cui scaturì un epistolario infinito , fu provvidenziale per la salute creativa musicale di Chopin . Il loro fu un vero romanzo , un drammone d’epoca tra odori di melograni aloe aranci e limoni e le piogge interminabili di Majorca ; tra le rocce , il mare, la certosa abbandonata , il vecchio cimitero teutonico e i primi sbocchi di sangue che tormentarono il povero Federico ; tra le aquile che volavano sulle loro teste e i cataplasmi , tra il cielo turchese il mare di lapislazzuli e le strazianti ballate… Il vero amore che ti prende anima e corpo, che ti brucia dentro e sulla pelle , durò poco, sei mesi, non di più. Poi rimasero insieme soprattutto come amici, avevano camere separate, facevano vita “casta”, ma le loro liti divennero proverbiali e se le passavano di albergo in albergo. Era soprattutto lei “che portava i pantaloni” e vessava il musicista in mille modi…Ma in fondo rimase sempre dell’affetto sincero fra di loro e l’atteggiamento di Amandine –Lucie Aurore , questo il nome completo , era più che altro di maniera, faceva parte del ruolo del suo personaggio . La cosa continuò fino a quel giorno in cui Chopin aveva interrotto il concerto provocando scandalo fra i convenuti ed Heine era caduto al laccio.

6. Quello che avvenne in seguito non lo conosciamo. Sappiamo che successivamente Heine tornò dalla sua Matilde e la sposò, facendo una vita piuttosto tormentata . Sappiamo che Aurore, ormai ultraquarantacinquenne , ricca di onori, di fama e di quattrini, si ritirò a vivere in campagna con i figli e divenne religiosissima , non volle mai più mettere piede nel mondo dorato di Parigi.
Sappiamo pure che di lì a poco Chopin partirà per l’Inghilterra , su esplicito invito di una sua giovanissima ammiratrice e allieva , Jane Stirling , che si era segretamente innamorata di lui. Ma intanto, subito dopo il fatto, Chopin sembrava contentissimo delle corna che George Sand gli faceva pubblicamente . Era come sollevato e ogni volta che la incontrava ( e non era infrequente , alloggiavano nello stesso albergo) le diceva sorridente " State veramente bene, Aurora, non siete mai stata così bella". E lei , un pochino costernata , con qualche rimorso , rispondeva: " Anche voi state bene…Ma... Federico..." diceva Aurora...."Voi sapete?...."
“So, so. ma vi perdono di cuore, Aurora. Continuate pure così... Però una cosa sola vi chiedo...”
"Dite, dite, Federico"
" Se non vi secca troppo, neh!..."
"Dite, dite, Federico..."

7. " Al mattino...mi portereste quella cioccolata calda calda che sapete far così bene?"
" ...cioccolata, Federico?..."
" Sì, quella che solo voi sapete fare così...bene...ma fate con comodo, neh!"
" E va bene", disse George Sand, un pochino delusa.
" Grazie, Aurora. Voi siete proprio un'amica".
E fu così che uno sbandierato grande amore si trasformò in una affettuosa amicizia.
Nell’ultima sua lettera, datata luglio 1847, George Sand scrive a Chopin, afflitto da una tubercolosi galoppante: “ Addio, amico mio, possiate guarire rapidamente da tutti i vostri mali ed ringrazierò Iddio di questo vostro bizzarro modo di liquidare nove anni di amicizia esclusiva. Datemi ogni tanto vostre notizie . E’ inutile ormai tornare a parlare del resto”
Non si videro mai più, ne si scrissero. Federico Chopin morirà a Parigi due anni dopo, povero e straziato dalla tubercolosi . Il 17 ottobre 1849 , poche ore prima di morire, tracciò di suo pugno queste ultime parole sul taccuino che la sorella Luisa custodì , fino alla sua morte, come una reliquia : “Quando questa terra mi soffocherà , vi scongiuro di far aprire il mio corpo, per non essere sepolto vivo”. Gli furono tributate grandiose onoranze funebri e fu sepolto a Parigi, accanto a Bellini e Cherubini, musicisti che Federico amava moltissimo. Successivamente il suo cuore fu portato in Polonia, nella chiesa di Santa Croce a Varsavia.

8.Aurore , nel frattempo , dopo la grande delusione del fallimento della rivoluzione del 1848, si era già ritirata nella sua casa di campagna , a Nohant, dove visse rusticanamente il resto dei suoi giorni scrivendo una serie di romanzi “campestri” tra cui “Francesco il trovatello”, “La piccola Fadette”, “La Palude del Diavolo” e la storia della sua vita in cui parla soprattutto dei suoi amori con de Musset, non certamente con Chopin. Si spense serenamente quasi trent’anni dopo la morte di Federico. Era l’inizio della primavera del 1876 , il ciliegio del suo giardino era in fiore ed ella aveva compiuto appena settantadue anni. Era una bella età, a quel tempo

Il Malladrone di Gallipoli e D'Annunzio


1. Chiese di Gallipoli
Gradita la voce dell’acqua a chi è oppresso da nere sabbie , gradito il ricordo della riviera Nazario Sauro , dov’è la chiesa di San Francesco d’Assisi di Gallipoli , la chiesa del “Malladrone” , curva di luce nel tramonto, una delle tre sorelle chiese , a pochi passi l’una dall’altra , ciascuna con la loro livrea di carparo, miele e oro scuro . Le Chiese di Gallipoli da sempre guardano in faccia il mare , poggiano sulle dodici colonne che sorreggono l’isola e guardano costantemente all’orizzonte per accompagnare i propri figli in mare , per sorvegliare il viaggio breve dei pescatori , o il lungo viaggio degli emigranti e dei guerrieri, viaggi dell’incertezza, della fralezza, della caducità dell’uomo , ma anche viaggi di una promessa di pace, benessere prosperità, viaggi della speranza , e del bisogno di stabilità, serenità , terraferma.
Sono chiese , quelle di Gallipoli, come antiche fanciulle , ricche di fascino e suggestioni , templi antichi di Atena, Afrodite, Era, che - scrive Antonio Errico “ custodiscono il senso del radicamento ad uno scoglio e della proiezione verso il mare, lo stupore per l’oltre “
E di fronte a loro, a meno di un miglio marino , ecco un altro mistero , l’Isola de gabbiani , Sant’Andrea, indecifrata e sola nella vaga notte di luna , ch’accende ancora una preghiera che sa di salnitro e speranza.

2. Don Armando Manno
Il 4 ottobre 2005 . festa di San Francesco, ricordo il vecchio Don Armando , “papa Mazzola”, celebrare messa, con le mani tremanti ( ormai era in pensione da diversi anni ) ,in quella chiesa che l’aveva visto parroco per tanti anni. E poi in sacrestia a ricordare le maratone con don Tonino Bello, il “Caso Gesù” e la “ Santina di Gallipoli” , al secolo Lucia Solidoro , che , insieme, ( fu lui a
fornirmi il materiale per il “dramma”) avevamo tentato di far rivivere nel cuore e nelle menti della gente gallipolina portandola sulla scena, . C’è ancora la grande fotografia della “pulzella” di Gallipoli vestita di nero , con le varie reliquie , e un fascio incredibile di lettere ( centinaia e centinaia di “grazie ricevute”) . E subito dopo , eccoci presso il cappellone del Santo Sepolcro , detto degli spagnoli , fatto erigere dal castellano di Gallipoli , Don Giuseppe
De La Cueva , in onore dei soldati spagnoli morti in Gallipoli. E’ lì che ci attende l’altro grande personaggio della chiesa, il “Malladrone, la statua lignea crocifissa ormai famosa in tutto il mondo , capolavoro di un frate gallipono, Vespasiano Genuino , artista religioso del XVII secolo che aveva un grande arco puro nella mente e mani piene d’amore e d’umanità. La “Santina” sembra di nuovo dimenticata , caduta nell’oblìo , mentre il Malladrone accresce la propria famigerata popolarità, è divenuto uno delle meraviglie di Gallipoli ( basta leggere i depliant degli itinerari turistici : “Venite nella città bella, ad ammirare la cattedrale , il mercato del pesce e il Malladrone” ).

3. Chi è il Malladrone?
E’ uno che non si pentì dei suoi misfatti, nonostante avesse vicino a sé , sul Golgota, “coast the coast” , o meglio croce a croce , Cristo in persona.. Il Messia , che aveva invocato il perdono per i suoi nemici , che aveva predicato l’amore per tutta la vita, anche l’amore impossibile – “ ama i tuoi nemici… e se ti schiaffeggiano su una guancia, tu porgi anche l’altra” , il più assurdo e il più splendido imperativo categorico del cristianesimo – lo perdonò ugualmente, non poteva non perdonarlo ( io credo che Cristo abbia perdonato anche il vecchio Giuda , dice il protagonista del “Giovane Holden”) , ma i gallipolini no, non lo perdonarono. Anzi esso, la sua statua fu obiettivo eterno dell’odio un po’ ingenuo e vendicativo del popolo – scrive Oliviero Cataldini - Il popolino sfogava tutte le proprie miserie e sofferenze, sputi, parolacce, sull’orrida maschera del malladrone : “Puh... ci si bruttu ci te cascia ‘utta. . .!ci te vidia de notte, largu sia,!cu sta facce rrignata e cusì brutta,! sarà ca me cacava pe’ la via...!Cazza! ca stringi li tienti, e mosci tutta! la raggia ci de l’anima te ‘ssia... “.
“Da bambini ci spaventavamo davvero nell'ascoltare la leggenda de “lu Mallatrone”, - scrive Giorgio Barba - , quella statua in legno coi vestiti sempre strappati nella Chiesa di San Francesco d'Assisi , raffigurante Misma, il cattivo ladrone, che rappresenta il male della terra”. E molti poeti lo hanno cantato, a partire dall’autore dei versi citati di Francesco Saverio Buccarella a Luigi Sansò, da Patitari ad Aldino De Vittorio: “ Cu l’occhi tutti russi e spinchiulisciati,/ cu la ucca ca mmoscia strinti li tienti/ ca te la raggia su tutti nvelinati/ cu li capiddri longhi , tutti pandenti,/ te la croce , te coste a quiddra te Cristu,/ pende lu mmalatrone tuttu strazzatu,/ l’ommu tanto fiaccu , marvaggiu e tristu,/ ca pe tanti seculi è stato sputatu.
E Aldino ci mette una nota satirica e amara rapportata ai nostri tempi , come tutti i poeti che fanno in qualche modo anche cronaca di costume del loro tempo: “.Osci iddru se vite tuttu cuntentu, /pe stu mundu ca s’have menzu cangiatu,/ cu tantu furtu , omicitiu e rapimentu/ nu è cchiui sulu , mmalatrone tiscraziatu.”


4 Patipaticchia.
Mentre un altro personaggio assai odiato nel Salento , in particolare dai galatinesi , il flagellatore di Cristo , detto “Patipaticchia” , alto, poderoso, folta capigliatura ondulata, barba virile, struttura corporea solida, gambe divaricate per il perfetto equilibrio di chi si appresta a colpire, sguardo fermo ( la statua era in cartapesta, e non mancava di un suo singolare fascino e attrazione ) col tempo se ne è andato a finire nei ripostigli della chiesa dell’Addolorata , dove veniva esposto nell’arco di tempo dedicato alla visita dei sepolcri alla furia del popolo (contro la statua si scagliava la collera di uomini, donne, bambini, ficcavano nelle sue “carni” spilli, chiodi e quant'altro poteva dare l'immagine concreta, fisica e un poco truculenta del dolore, della sofferenza, della ingenua vendetta popolare), ed oggi è stato praticamente dimenticato da tutti , la statua lignea del cattivo ladrone continua ad affascinare e spaventare grandi e bambini nella sua di orrida bellezza ,nella sua grandiosità terrificante , e il suo ghigno continua a campeggiare dall’alto della croce nella cappella degli spagnoli , dov’è sepolto il castellano De La Cueva insieme ad altri personaggi illustri del tempo, come Matteo Calò, che partecipò alla battaglia di Lepanto , e vari scrittori e letterati che onorarono la città jonica. Ma l’unica vera “star” , da ormai oltre due secoli e mezzo , continua ad essere lui, e la cappella è stata ribattezzata , in suo onore, cappella del “Malladrone” ; frotte di comitive turistiche in ogni stagione dell’anno si portano presso la statua lignea e tempestano di flashes le scure umide ombre della chiesa del poverello di Assisi , quella maschera che è insieme beffarda e disperata , iraconda e grandiosa. “Vedi, indica con la mano Don Armando , quegli occhi rossi , i denti avvelenati , i vestiti stracciati , la rabbia ch’esce da tutta la figura , la rabbia dei senza dio …Vedi , sotto la vecchia mano giudea crocifissa e l’arco della cappella che sfiora trasversalmente quella corda di luce tesa? Ecco, ogni volta che guardi quest’immagine , muore un suono , e l’uomo non rammenta che già un’altra volta fece la stessa cosa, che tradì e non si pentì, e lo farà ancora chissà quante altre volte, fino alla sera ultima che guarderà.”.
Insomma , col suo rifiuto nel pentirsi a Cristo ( anzi lo derise: se sei veramente il Cristo liberati dai chiodi e scendi dalla croce) , si è guadagnato una grande famigerata notorietà , più lui che non il buon ladrone che si pentì e andò in paradiso. E ora eccolo lì, in croce, a guardarci col suo sorriso beffardo, un sorriso che inquieta e ridesta antiche paure , antichi fantasmi del medioevo.

5. Gabriele D’Annunzio
Però bisogna andare lì, nella chiesa di San Francesco , nella cappella a lui riservata, sotto la sua croce e guardare il suo ghigno nella penombra, per capire tutto ciò. Il Malladrone lo si può capire e ammirare solo col vederlo da vicino, e magari al lume di candela , come usava un tempo e come capitò una sera d’estate a Gabriele Dannunzio , il vate, approdato nel porto di Gallipoli il 28 luglio 1895. Scrisse sul suo taccuino di bordo: “Scendiamo a terra per fare qualche spesa. Alcuni gallipolini ci offrono di mostrarci il “mal ladrone “. Sembra che questo crocifisso sia il personaggio più importante della città”. Era una sera festaiola , come sempre a Gallipoli d’estate, e c’era un “gran frastuono di banda musicale, di gran cassa, di campanelle come in una fiera” . Al di la del ponte, sulla passeggiata del corso XX Settembre ( l’attuale Corso Roma ) ,dove “un gran sedile in muratura si prolungava da un capo all ‘altro, la gente stava seduta, di fronte al porto, e guardava i lumi della sera... Il guardiano ci porta nella chiesa, entriamo , accende una candela in cima a una canna e ci conduce in una cappella oscura. Sollevando il moccolo illumina una figura di legno dipinto inchiodata ad un ‘alta croce. Il fantoccio ha una strana espressione di vita atroce, nell ‘ombra “
A D’Annunzio i gallipolini avevano raccontato mille storie sul Malladrone. Ad esempio che aveva sempre i vestiti “strazzati” (, strappati ,lacerati, ridotti in brandelli) e non c’era verso di cambiarglieli anche cento, mille volte, il giorno dopo tornavano gli stessi . E’ tuttora celebre in tutta la provincia di Lecce ,il detto "vai vestito come il malladrone di Gallipoli", quando si incontra una persona mal vestita o con dei cenci indosso. E inoltre si riteneva che i denti della statua fossero o quelli dell’autore ( Mastro Genuino) o realmente quelli di un condannato a morte, a cui avevano tagliato la testa. E poi altre leggende, che facevano rizzare capelli, come quella di Misma che ogni sera scende dalla croce e vaga per le strade della città per spaventare a morte i disgraziati ritardatari ( ad una certa ora si chiudeva il ponte levatoio e nessuno poteva più entrare nell’isola) .

6. Umberto Biancamano
E’ evidente che per tutta una serie di motivi , legati anche all’estetica dannunziana, il Malladrone rimase fortemente impresso nell’animo del Vate che lo rievocherà diverse altre volte , ad esempio nel romanzo “La Seconda amante di Lucrezia Buti” : “E mi ricordo del Pugliese di Gallipoli che mi raccontò come una sera entrasse nella chiesa dopo i vespri per vedere “il mal ladrone” e accendesse un moccolo in cima a una canna e s ‘arrischiasse nella cappella buia e sollevando il moccolo scoprisse in cima alla croce l’uomo; che
si mise a sollevare le palpebre, a roteare gli occhi, ad ansimare, e a dibattere le mani confisse con tanta furia che gli rimasero entrambe nei chiodi come due nottole mentre i moncherini gli ricascavano giù “ E poi nel poema la “Beffa di Buccari” in cui il maggiore di cavalleria D’Annunzio accenna all’eroico marinaio gallipolino , Umberto Biancamano , il prodiere del Mas , con la mano adusa ai timoni, ai cavi e alla scintille azzurre del mare , che era stato uno dei partecipanti all’impresa , uno dei “trenta in una sorte! e trentuno con la morte.
Il Vate ne parla come del “concittadino dei vecchi crocefissi Misma e Disma. “…nato nella bianca Gallipoli all’ombra dei più pingui ulivi salentini”…

Il giovane D’Annunzio ( allora aveva trentadue anni ) in quel periodo iniziava il suo lungo fortunato ma anche burrascoso rapporto con il teatro e con la grande Eleonora Duse , che aveva qualche anno più di lui , ed era gelosissima del poeta . Ma sul panfilo che da Gallipoli lo avrebbe portato in Grecia , un due alberi , di 58 tonnellate , oltre l’equipaggio, c’erano solo uomini: oltre a lui , c’era Scarfoglio, il pittore guido Boggiani , e il critico e letterato francese Georges Herelle , traduttore delle opere di D’Annunzio. Erano tutti intenzionati ad una sorta di “full immersion” culturale, vedere e descrivere le grandi opere della Grecia antica da cui sarebbero nati grandi reportages , motivi di grande ispirazione , ma in realtà – disse il comandante del Panfilo , Francesco Cacace , si comportarono come un gruppo di scostumati gatti bizantini in calore , stavano sempre nudi in coperta senza fare nulla , e una
volta a terra, si gettavano nei porti a cercare donne di malaffare da condurre a bordo, come fanno gli ultimi marinai . E tuttavia a crociera finita , dopo qualche tempo , l’ispirazione fece i suoi effetti positivi su Gabriele , ed ecco , in nuce, “Laus Vitas” , “Alcione” , “La città morta” , quest’ultimo un testo teatrale scritto su misura per la Duse, che amò D’Annunzio con tutto il trasporto di una donna di quarant’tanni dalla dolce bellezza disfiorita , dal temperamento tragico , generoso e ipersensibile . Soffrì molto ed ebbe momenti di disperazione, ma - scrisse Fusero – “finì per sovrastarlo , quale testimone muta dell’infinita miseria del suo egoismo e cinismo”
Forse al Vate sarà venuto in mente qualche volta la croce dell’infedele Misma e la chiave negata , la smorfia , la beffa tragica, la sarcastica sfrontatezza, il riso beffardo e sprezzante, la spudoratezza popolaresca e picaresca , lo sguardo furbesco, rotto a tutte le avventure e a tutte l’esperienze , la consapevolezza della scelta ineluttabile dell’inferno , con biglietto di solo andata…Chissà che quella disincantata ferocia della maschera gallipolina, alla fin fine non risulti simpatica proprio perché fa parte della storia e della vita dell’uomo e quindi ciascuno di noi può riconoscersi, per quanto piccola, in una parte di se stesso ? Ma forse – insinua Errico – c’è anche il dolore , seppellito nel ghigno, forse c’è anche la disperazione , celata nel ringhio, “e il pentimento inconfessato per il male fatto al mondo, per il peccato contro il cielo compiuto da ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Allora, nella penombra, nella temporalità sospesa, sfibrata, rarefatta, il Malladrone crocefisso in San Francesco d’Assisi soffoca ancora il suo pianto e urla il suo giudizio di disprezzo verso se stesso”.
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