mercoledì 17 settembre 2008

Nicola Apollonio e il "Tempo di sortilegio"





“Ogni opera di un artista è sempre una forma di autoritratto.
Un quadro, una poesia, o una canzone, un racconto,
è soltanto la fotografia dell’anima”
Chuck Palahniuk


1.Nicola Apollonio , con questo libro di racconti , “ Tempo di sortilegio” , espresso sud, 2008, il suo terzo , dopo “ La città dell’anima” (2001) e “ Parliamone sottovoce” , (2002) , si porta sul proscenio della letteratura , ma lo fa alla chetichella, sottovoce, quasi in disparte , col desiderio di stringere vecchie mani, di rispecchiarsi in visi un tempo noti, di traguardare panorami e paesaggi che passano al traverso delle sue memorie, lo fa con una sorta di minuetto di sensazioni, con lietezza e insieme dolore, rincorrendo i giorni in cui voleva tutto e forse avrebbe potuto prendere tutto , e invece si è trovato con nulla, coi resti di vecchie enciclopedie e ambizioni del cuore, solo del cuore. Lo fa sfidando il tempo , riandando al passato , e si sa che a fare i conti con il passato ci si rimette sempre, è una discussione con te stesso, ripensi agli eventi che in qualche modo ti hanno segnato , ripensi alle persone che qualcosa ti hanno insegnato, ai momenti belli, il languore, lo stordimento dei biancospini, quelle sinestesie che profumano le pagine verdi della tua esistenza, e ti stordiscono , e ti fanno sbandare , rischiare di uscire fuori strada nelle curve più pericolose , con una vocina suadente , dentro di te, che ti ripete, “Se vuoi, puoi fermarti a mezza via , o in alto mare”. Ma tu sai bene che non c’è sosta che tenga , bisogna navigare , bisogna proseguire , e c’è ancora tanta strada azzurra , nera o grigia da percorrere e non è sempre calma , e non è sempre in pianura. Ed ecco che ritornano i trasalimenti di nostalgia , un “incontro” d’ amore , che ti fa rivivere la fase dell’ innamoramento , in un’orgia di sensualità, respiri, sospiri, suoni, musica, cielo luna e stelle , un’estasi tattile, ma anche d’odori, di suoni, d’atmosfera: “Sul piatto dello stereo, il long-playng di Yves Montand aveva fermato il suo lento giro. Dalla porta del terrazzino entrava a curiosare sempre più insistentemente una fetta di luna ammantata di complicità. Su uno scaffale della libreria c'era un cacciatore in cartapesta che sembrava ammiccare. Un piccolo orsacchiotto di Swarovski, poggiato dinanzi a un libro di Umberto Eco,pareva che volesse battere le mani”(vds. pag….).

2.Memoria dilettevole e ospitale, a metà tra Moravia e le Mille e una notte, con una buona dose di sortilegio, di sogno. Uno di quei sogni che ormai appartengono alla classe delle “cose impossibili”, come disse Lewis Carrol. Magari il primo vero amore di Nicola è stato tutt’altro , simile ad un funambolico Bolero del basco Ravel, quella musica ossessiva che ti affascina, ti incanta ti inebria , ti fa fremere correre, cantare , volare, affrontare qualsiasi pericolo, qualsiasi nemico... E’ l’amore, amigo, e non ci puoi fare niente. Ma stai attento a non sbandare in curva , a non perdere certi tuoi equilibri , a non lasciarti vedere atterrato o atterrito di fronte ad un passato diverso da quello che la tua falsa memoria traguardava , appiccicato ad un mondo che ti si capovolge, perché tutte le tue certezze hanno fatto una capriola e oplà , tu sei andato a finire per terra, e non te ne sei neppure accorto . Ed ecco che magari ti ritrovi vecchio in un ospizio napoletano , totalmente dipendente dagli altri , ( in fondo basta un “ictus”, che ad una certa età sta dietro l’angolo), sei un “martire” del “ Divino amore” , corteggiato da qualche puttana sprovvista di permesso di soggiorno , tra i bastioni puzzolenti dei mucchi di spazzatura che cingono la città. E’ uno dei sei racconti di Nicola, il più grottesco, amaro, malinconico, ambientato in una Napoli “eduardiana” , un tempo paesaggio dell’anima e ora “munnezza” dell’anima , una Napoli da inverno prolungato in cui nei lunghi pomeriggi grigi , col Vesuvio dormiente , uno apre il bauletto di ricordi e trova di tutto , carmina sacri e profani, lettere scolorite e farfalle ridotte a polvere , l’organino a manovella e pezzi di cielo sbrindellato , Totò, il buon Peppino Marotta , Sofia Loren , l’oro di Napoli e la marionetta di Pulcinella nel teatrino dei pupi: “Prende per i fili il Pulcinella e la bambola e li siede accanto, nel teatrino. Gli altri vecchi dell'ospizio lo guardano. S’ avvicinano in punta di piedi. Poi, in una visione fantastica, don Gaetano li vede tutti vestiti a festa, che sfilano per i vicoli di Napoli. Ognuno ha sottobraccio una delle prostitute in abito da sposa (vds.pag….)”.

3. Se il primo libro di Apollonio era stato un atto d’amore e , insieme , di denuncia , nei confronti della sua “Città dell’anima” , Lecce, e aveva , come scrive Vittorio Feltri , “l’andamento di certi pensieri notturni, quando ci si specchia dentro la propria memoria e ci si sente turbati dal male che siamo stati capaci di fare e di sopportare”, e il secondo una raccolta di interviste da “toccata e fuga” , di cui è maestro acclarato , con l’intento di farci sapere “come la pensano i potenti, porli dinanzi ad uno specchio ideale, e strappargli quelle “verità” che per troppo tempo si sono tenute nascoste dentro”, questo è – di fatto - un libro sul sentimento del tempo e la sua divinazione , sull’esplorazione di se stesso attraverso il tempo , un po’ come il danzatore delle onde, il giapponese Saburo Teshigawara che rincorre il tempo, lo spazio, la luce, la fragilità , il gusto dell’estremo, la velocità per andare oltre nella ricerca infinita di una possibile armonia.
Nicola dirà, certamente, (lo conosco bene) che lui non aveva nessuna intenzione di rincorrere il tempo, di andare al passato in cerca di armonie, né le storie che racconta , con diversi registri, diversi umori, temi diversi - sulla favola e la paternità , sulla vecchiaia e l’abbandono, sulla ordinaria corruzione e l’arrivismo , sull’amore e la giovinezza , sulla provincia e le classi sociali, sui pregiudizi e il senso della libertà, - hanno riferimenti autobiografici e temporali, tranne l’episodio che rievoca la figura di un giovane Edoardo De Candia. Lui , in fondo, si è limitato a registrare quel flusso di immagini, angolature, paesaggi, pensieri che gli sono passati davanti come sequenze irrelate di un film (“ in fondo sono solo cose da mettere in un libro, niente di speciale, di libri se ne fanno così tanti, troppi sicuramente”) , e tuttavia questo impasto di ricordi e suggestioni, di cose buone e malsane , sedimentate in anni e in anni , sono finite nella magmatica e misteriosa betoniera della memoria, dove ci stanno quelle cardarelliane ombre troppo lunghe che sono i ricordi, il passato che se da un lato ci protegge come rifugio sicuro, da un altro lato ci turba , ci inquieta , diventa la spia di un malessere , di un disagio che produce in noi lo smascheramento della finzione


4. Il tempo per lui favoloso di reporter, inviato speciale , il tempo della “dolce vita” romana, i Pippo Baudo e i Pippo Di Stefano, gli Ho Chi Min e i Kissinger e il ‘68, i Bob Dylan, i Beatles , Lucio Dalla che suona il clarinetto , la Nona di Beethoven , Le quattro stagioni , un minuetto mozartiano , la Callas e il grande Tito Schipa, quel tempo con le sue magie, in realtà se ne sta in bilico tra la galera e l’esilio , tra il martire e il coniglio, tra la gloria e l’infamia. Quel tempo che è memoria , può essere anche menzogna , sortilegio, malafede, ovvero “l’ arte di non conoscersi , o meglio , di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza”, come diceva Guido Piovene . “Viviamo in uno stato di perenne infermità dello spirito e ognuno di noi deve certo capirsi, ma soprattutto farsi medico di se stesso , regolare la propria chiarezza interiore in una specie di umana diplomazia che insegna a nascondere anche nel nostro segreto le cose meno degne dell’animo nostro, a dissimulare il fastidio che ci dà un sofferente, a tollerare per anni senza mostrarlo il peso di un matrimonio increscioso, ad ammettere in noi solo quello che è utile , che può diventare buono, ci può far comodo...E così, quando , ne “La trappola”, un vendicativo e fallito avvocaticchio piccolo borghese col vizio del gioco diventa regista di una trama perversa con cui tenta di scardinare “le mura delle case degli avi (che) segnano un limite, una barriera insormontabile, dietro la quale si protegge e rifugia una casta impenetrabile, quella che non si confonderebbe mai con la piccola gente senza storia uscita dai mezzanini, dalle piccole case in cemento armato” ( vds. pag…) , manovrando sulla sua scacchiera , come fantocci , un suo amico bellimbusto e fannullone , e l’insignificante figlia della famiglia più “in” del paese , in una storiaccia di inganni e seduzione paesane , che si conclude con la classica “fuitina”, l’illustre avvocato-consigliere - amministratore della famiglia aristocratica dirà con il massimo cinismo: “Quel che bisogna salvare, adesso, è soprattutto il patrimonio familiare, che non si può mettere alla mercé di un avventuriero" (vds.pag…).

5.Eh, sì, bella bestia, il passato, anche quando uno non va necessariamente alla ricerca proustiana, ma il tempo può essere “sortilegio” ,divinazione, operazione magica per determinare su oggetti e persone un effetto voluto, l’abbiamo visto, l’abbiamo sperimentato in diverse occasioni. E allora capita che il passato te lo ritrovi fra i piedi senza accorgertene, senza volerlo. E’ lui , il passato , sotto forme varie e talora subdole, compresa la letteratura, che ti assale , in soprassalti di memorie e sogni , visioni pirotecniche , frasi astrali , paesaggi seriosi del cosmo , coi grandi eterni problemi eterni e la birra ghiacciata a mezzanotte di luglio sul terrazzo di casa , oppure sul lungomare Galilei , con Pici Tappo che canta una rotonda sul mare e le stelle che stanno a guardare , e poi l’immortalità dello Spirito , o altri garbugli del genere che ti frullano per la testa. Magari ti ricordi del grande fanciullino , Giovannino Pascoli , che studiavi a scuola quando facevi ancora le elementari , ed era una profusione di lacrime e malinconia Per lui non c’erano zone grigie. Divideva l’umanità in due categorie , i buoni e cattivi, gli onesti e i disonesti, gli infelici e i gaudenti, i miseri e i ricchi, con il male sempre pronto a distruggere il bene, a soffocarlo e a dominarlo. Il male, diceva, è il grande residuo della crudeltà che circola per tutte le vene della società umana. Forse gli uomini non sono nati belve, ma lo divengono perché è la società che lo esige. E il male è un po’ ovunque, sottile e imminente insidia , o forza cieca, offesa , umiliazione, o violenza bruta, colpisce sempre dove l’innocenza è più mite, la fiducia più serena. E anche il grande male della natura e dell’universo-mondo che ci sovrasta , di memoria leopardiana , è tutt’uno con quell’altro”. E il male si annida , ovviamente , anche nel passato.
Insomma non c’è proprio nulla di proustiano a frugarsi nelle tasche , e cavarne i ricordi che erano finiti chissà in quali cassetti , cercare di non farsi travolgere , non finire stupiti e storditi da quel che il passato cela, nasconde, menzogne , elusioni , il non detto che ti sei accatastato giorno dopo giorno , insieme agli affetti, al lavoro, alle certezze granitiche. Ad esempio la cittadina di provincia senza traffico, senza smog, senza stress, a dimensione umana , la quiete, il ritmo lento del tempo, il calore umano della gente, la solidarietà per gli immigrati, i piccoli cimiteri dove i morti dormono tranquilli sotto i loro epitaffi , i bambini ancora liberi di giocare per le strade , i fiori che crescono dove vogliono. Niente vero. Cova rabbia, invidia, gelosia, frustrazione , impera come altrove l’opportunismo, il più bieco arrivismo, l’ambizione più sfrenata come in “Un eroe dei nostri tempi” , che richiama alla mente un film con Sordi , tratto da un libro di Vitaliano Brancati ed è ambientato in un Salento sotto mentite spoglie, un po’ come la “ Vigata” di Camilleri .


6. Qui il paese si chiama Cicciabella e a dispetto del nome è un paese brutto , malinconico e triste , con una musica funebre da organo mal suonato , una musica tetra, su uno sfondo immobile, afoso, umido, pieno d’ombre. Il tempo e i ritmi sono lenti , sempre le stesse cose, le stesse facce, le stesse facezie , inezie, illusioni che diventano man mano drammi, tragedie. Qui si rifà la storia del buon italiano medio, ipocrita e feroce , bieco e machiavellico calcolatore , lecchino e vile , pronto perennemente ad “andare in soccorso al vincitore” , sciacallo o iena , disposto a passare sul cadavere della madre pur di raggiungere il proprio obiettivo, che è quello del potere, del denaro che tutto sporca, infanga, insozza, e tuttavia per molti, la maggior parte di noi , “non olet”, non puzza. Quel buon italiano che “fatalmente” arriva a Montecitorio , o a Palazzo Madama per farci la morale.
“Si spostano tutti in aula, dove il senatore Billeri è chiamato a pronunciare il suo discorso sulla moralità nella vita pubblica. Dopo quaranta minuti, si avvia alla conclusione dicendo: "Bisogna instaurare i valori sociali conferendoli allo svolgimento della vita sociale, sia che si consideri lo Stato in senso tradizionale o in senso collettivistico. E il centrosinistra si propone appunto di correggere gli eccessi e gli equilibri determinati da chi sostituisce a un ideale di libertà morale quei miti scaduti da tempo, che mortificano la vera libertà. Il problema è ancora e sempre quello di travasare lo Stato nella eticità , di interiorizzare le esigenze, di educare alla moralità, che è socialità".( vds. pag….)

7.Ma per Nicola Apollonio ci sono anche chiari mattini in cui l’azzurro, la luminosità dell’azzurro cielo salentino ( sembra un azzurro senza fine , una luce che non cessa mai di illuminarci, disse un medico di Faenza amico mio) non è sempre inganno , non è sempre illusione , ma un crescere immenso di vita , una fiumana che scorre per sempre, che va , infinita , non si sa bene dove . Ecco allora che i rumori delle strade , l’iincrinatura di un vetro , la pietra che cade, la foglia che vola, il vocio dei ragazzi , il chiacchiericcio liquido dei passeri, i tralci delle viti di rame sullo sfondo verde dei fichi d’india , gli ulivi sacri ad Athena , tutto lo riporta in una dimensione del mito , ed ecco “Il dio pagano” , in cui ritroviamo un Edoardo De Candia trasfigurato ,controcorrente, un ritratto di tale levità , mistero, visione , sogno, mitologia pura da fare invidia ad un poeta , e tuttavia il personaggio è ancorato , incastrato, incistato nel tessuto socio-barocco leccese .Edoardo costruisce fantasmi. E’ sicuro di avere un suo messaggio incomunicabile e intraducibile. Se non lo capiscono, i pazzi sono gli altri. Ha pure una sua filosofia spicciola. E’ alto, biondo, di una bellezza particolare che affascina e colpisce persino gli uomini. Il fisico è quello dello sportivo e dell'asceta... Liliana lo guarda ancora. Si dà della sciocca e ritorna sui suoi passi. Edoardo ha uno strano accento, quando parla. La sua è una parlata "cantata", carezzevole…Non è il solito giovanotto che è a caccia di avventure balneari, altrimenti non se ne starebbe appartato. Chi può mai essere?


8.Sullo sfondo della marina di San Cataldo , l’ insoddisfatta turista occasionale , piena di pregiudizi nei riguardi del Sud , una sorta di pallida Venere milanese cerca – inutilmente – di sedurre il bellissimo fauno , il cacciatore di aria , vento e libertà , l’artista -filosofo, che ha fatto una sua scelta di vita “nature” , che nessuno ha capito, neanche gli amici più intimi, che lo giudicano pazzo, ma non lo è affatto. Pazzi sono gli altri, pazzi siamo noi tutti che andiamo a capofitto , ciechi, verso la dissoluzione totale del nostro habitat.
Quel dio pagano seminudo accovacciato sullo scoglio che guarda Liliana , e poi la invita nella capanna del pescatore a mirare i suoi disegni infantili di sabbia mare e cielo, quel dio pagano sulla spiaggia che discende dagli alberi sfoltiti , dal murmure della irrequieta marina , sfiora appena con una carezza sulla guancia la bella milanese che gli si offre , nuda. Edoardo in realtà non può amare altro che se stesso e il suo cuore , la sua mente , si perdono nelle sue visioni , innocente come un bambino che si sveglia alla prima aurora. Nicola lo ha conosciuto bene , e lo ricorda così: ” Lo incontravo quasi ogni giorno, quand’ero a Lecce , soprattutto d’estate. Una maglietta, un pantaloncino corto sdrucito e un paio di ciabatte. Era simpatico, e anche buono. Mi piaceva quel suo sorriso innocente, da bambino smarrito. Qualche volta, gli ho pure comprato i suoi “rotoli“ di carta con qualche schizzo di donna nuda, una faccia, una marina, una campagna …Mi è dispiaciuto quand’è morto. Poteva avere un destino diverso, nonostante tutto. Comunque, così va la vita.Oggi i giovani leccesi non sanno neppure che è esistito , Edoardo De Candia, non guardano più al passato, al passato dei loro genitori, della loro città , dei loro avi, alla storia, in genere , anche quella più futile, ad esempio quella canzonettistica ( Ho confidato al mio giovane dentista che avevo conosciuto a suo tempo Sergio Endrigo , e lui è rimasto un po’ perplesso. Poi ha detto: e chi è Sergio Endrigo? ). I giovani non si formano più sulle lezioni del passato, anzi lo ignorano , lo rifuggono , ma la sua forza è vitale e intatta , perché il passato ritorna sempre , e senza passato non esiste futuro. “Bisogna aver l’orgoglio di appartenere all’umanità , che ha un passato immenso in cui va continuamente cercato un senso , perché non si svilisca. Il passato ha un’anima , fidatevi dell’anima”. E’ l’invito che recentemente ha fatto ai giovani il professore-cantautore e poeta Roberto Vecchioni .

9.In questo libro , scritto con sincerità , in un linguaggio diretto, essenziale, senza fronzoli, che va diretto al cuore delle cose , c’è il passato e c’è l’anima dell’autore, c’è il senso del suo “ viaggio”. Ogni libro è un viaggio , uno sperdersi nella selva oscura dantesca , una sorta di autoanalisi che ti fa conoscere un po’ meglio di prima , trovare forse delle risposte , e magari ne esci fuori con un supplemento d’anima che ti fa sentire meno fragile e indifeso.
Alla fine di questo viaggio, lo vado a trovare il mio amico Nicola , tra le ombre dei suoi eucalipti , e le altre ombre che si nascondono tra le parole imprendibili , tra le immagini e i pensieri, tra le contravvenzioni, le persecuzioni e le manette della memoria . Chissà, magari, nonostante tutto , dico, Nicola riusciremo a vincere la malinconia, l’amarezza , il disgusto che , spesso, proviamo nei confronti di questa società, di questo mondo in cui è sempre più imperante il nichilismo . Chissà se liberati , infine , da tutte le menzogne che recintano quotidianamente le nostre esistenze , riusciremo a farci l’animo giusto per accettare questa società , questo mondo, che magari ci apparirà un po’ più vero , più autentico, più umano, con spazi ancora possibili per la fantasia , per la favola e l’ironia . Sorride col quel suo sorriso largo e sonoro. Ed ecco stagliarsi sulla scena l’ultimo personaggio , il falegname Geppetto , affamato di paternità, che così risponde alla femminista di oggi che non vuole più saperne di fare figli: "Me lo faccio di legno, così non dovrò chiedere niente a nessuno". Senza rendersi conto, il poveretto sta diventando il primo (e l'unico) uomo-padre della letteratura, ma anche un simbolo dell'uomo nuovo (homo novus-homo pater).Si mette di buona lena e comincia a fabbricare il suo sogno, usando un robusto tronco d'ulivo che modella giorno dopo giorno, stando molto attento a non farsi scoprire da quei pochi amici che, ogni tanto, vanno a trovarlo in bottega. è troppo geloso della creatura che lentamente va prendendo forma. Non vuole che la gente sappia in anticipo ciò che lui, con tanto amore, sta facendo nascere. ( vds. pag….)


10.Penso a Collodi , l’autore di Pinocchio, considerato il terzo libro in prosa , per genialità, della letteratura italiana, dopo I Promessi Sposi e le Operette morali, lo vedo con il viso paonazzo per il troppo bere, il sigaro toscano alle labbra, intento a scrivere articoli per rivistucole tipo “Il Lampione” e “ La Scaramuccia” ( scriveva di tutto, gag, battute da cabaret , libri per bambini, commedie) per sbarcare il lunario. E’ perplesso , sembra che si morda il baffo sinistro della sua barba malcurata. Era un genio, ma lo sappiamo soltanto ora. Geppetto era lui, e anche Pinocchio era lui, il burattino di legno inno di gioia, che fa capriole e danze felici, il candore dell’infanzia, l’incertezza amorosa dell’adolescenza, la levità e la velocità, la trasgressione e lo sberleffo, ovvero la fiaba, qualcosa, dice Apollonio che non viene perdonato a chi si accinge ad affrontare la realtà del mestiere più difficile…. “ Le sue primitive sembianze di burattino erano simili al peccato originale, da cui Pinocchio, ora, si libera con un diverso e più doloroso battesimo: vivere”.( vds. pag. …)
Già. Vivere. Il mestiere più difficile. Era una cosa che gli aristocratici illuminati di una volta, come il marchese Villiers De L’Isle-Adam, facevano fare ai domestici. In democrazia ciò non è più ammesso. Bisogna vivere in proprio , senza delegare. E lo fa anche Pinocchio, divenendo in breve un ragazzo laborioso e virtuoso, accettando le leggi sociali che prima aveva rifiutato, accettando la realtà, il lavoro , la scuola e il denaro… Ma intanto la favola è finita, è fuggita , morta , e si ha tutti una gran nostalgia di quel burattino senza vita che se ne giace “con le gambe incrocicchiate e ripiegate nel mezzo” , quel burattino che non salterà mai più con quell’estro magico e diabolico sulle tavole del Teatro della fantasia , che è un altro tipo di vita.

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